I grani antichi, pur rappresentando una nicchia di mercato, hanno acquisito grande consenso negli ultimi anni, soprattutto da parte di chi vuole mangiare sano e riscoprire il gusto dei prodotti del passato. Secondo il professor Luigi Cattivelli, direttore del Centro di ricerca Genomica e Bioinformatica del CREA e intervenuto in una conferenza organizzata dall’Accademia di Agricoltura di Bologna, si tratterebbe però di una tendenza dettata dal marketing e priva di reali vantaggi. Il professor Enzo Spisni, fisiologo della nutrizione dell’Università di Bologna che abbiamo interpellato sul tema, evidenzia invece le proprietà nutrizionali e sensoriali dei grani antichi, pur riconoscendo la limitata commercializzazione che i prodotti da essi ricavati possono avere. Considerando gli aspetti principali legati alla produzione, alla vendita e al consumo, in questo approfondimento speciale confronteremo due punti vista apparentemente opposti, che su alcuni temi trovano però punti di contatto.
Grani antichi: caratteristiche e limiti della filiera produttiva
I grani antichi sono da preferire a quelli moderni? Per l’Accademia nazionale di Agricoltura la commercializzazione dei prodotti a base di questi cereali è una strategia commerciale che si basa su una narrazione ingannevole: non sono sostenibili per l’ambiente né più salubri e vengono venduti a prezzi più alti senza motivo. Questo punto di vista è stato esposto e argomentato in occasione della conferenza “Grani antichi. Una moda piena di falsità”, organizzata dall’Accademia in collaborazione con la casa editrice Il Mulino e l’Associazione regionale Giornalisti Agricoltura dell’Emilia-Romagna, moderato da Ercole Borasio, Accademico ordinario già Direttore generale della Produttori Sementi Spa. Sono intervenuti il professor Silvio Salvi, Presidente della Società italiana di Genetica Agraria, la giornalista Lisa Bellocchi, Presidente dell’European Network of Agricultural Journalist e il professor Luigi Cattivelli, Direttore del Centro di Ricerca Genomica e Bioinformatica del CREA, autore del volume Pane nostro. Grani antichi, farine e altre bugie, presentato durante il dibattito.
I prodotti a base di grani antichi – il più conosciuto è il Senatore Cappelli, ma le varietà in via di recupero sono molte – stanno ampliando la loro diffusione, sia in forma di farine sia di pasta e di panificati di vario tipo, anche sull’onda di una promozione che ne esalta le proprietà salutistiche e sensoriali. Seguendo le riflessioni presentate durante il dibattito, alla base di questa corsa al grano migliore ci sarebbe molta disinformazione e una forte spinta del marketing. Secondo Luigi Cattivelli, inoltre, parlare di varietà antiche o moderne ha poco senso, mentre è importante valutare il contenuto di proteine o la tenuta di cottura delle diverse varietà, e soprattutto comprendere il valore di questa pianta, che continuerà a essere strategica per il futuro dell’umanità.
Borasio: “Sono grani vecchi che non rispondono alle esigenze contemporanee”
“Quando pensiamo ai grani antichi – ha precisato Ercole Borasio – non dobbiamo andare troppo indietro nel tempo, perché si tratta in gran parte di varietà selezionate dalla ricerca scientifica di Nazareno Strampelli, utilizzate dai primi del Novecento fino al primo dopoguerra. In Italia la legge sementiera è stata introdotta nel 1972, con grave ritardo, e solo a partire da allora è stato iscritto il Registro nazionale, al quale devono essere registrate tutte le varietà seminate che hanno superato specifiche prove di differenziabilità, uniformità e stabilità tali da ricevere la certificazione. Oggi le farine sono tutte registrate e controllate dal CREA (Centro di ricerca Alimenti e nutrizione), mentre i cosiddetti grani antichi non sono iscritti a nessun registro e non hanno regole. Sono grani vecchi che non rispondono più alle esigenze nutritive e produttive di oggi: come si può pensare di nutrire il pianeta con grani non più attuali? E poi se compro una pagnotta di grano antico chi mi garantisce cosa c’è dentro e cosa mangio senza controlli? È stato dato valore a qualcosa che non ce l’ha. Anche il messaggio della sostenibilità è falso perché i grani antichi sono decisamente meno produttivi di quelli odierni e perciò servirebbero molti più ettari di terreno da coltivare per avere un quantitativo accettabile”.
A queste affermazioni, Luigi Cattivelli aggiunge che “l’Italia produce il 40% del frumento tenero che si usa per fare pane, pasta e pizza e il resto lo importa soprattutto dalla Francia: produciamo già meno di quello di cui abbiamo necessità. Se volessimo passare ai frumenti antichi scenderemmo al 20% di produzione nazionale, essendo così costretti a importare ancora di più dall’estero, anche da Paesi che non rispettano le regolamentazioni internazionali, senza sapere cosa compriamo. I grani antichi non sono sostenibili a livello economico e ambientale.”
Spisni: “Anche i grani moderni non sono adatti alla situazione attuale, il sistema va ripensato”
Il professor Enzo Spisni, però, ribalta questo punto di vista, considerando le condizioni imposte dai cambiamenti climatici e le differenti modalità produttive dei grani antichi rispetto a quelli moderni. “Non c’è dubbio che questi grani costino molto di più. Hanno una produttività più bassa e non hanno filiere sufficientemente ampie, perché la molitura viene fatta soprattutto da impianti tradizionali che trattano piccole quantità alla volta: di conseguenza i costi per la macinazione si alzano. In mancanza di grandi sistemi produttivi, tutti i processi di lavorazione costano di più. Il paragone, però, andrebbe fatto con i grani moderni coltivati in regime biologico, perché i grani antichi si producono esclusivamente con questa modalità. Quindi, non è corretto confrontare i grani moderni da agricoltura convenzionale e grani antichi bio: bisogna tenere conto della produttività inferiore dovuta al biologico, circa il 20% in meno. Nell’ambito del biologico, le differenze si assottigliano, anche se è indubbio che le produttività sono inferiori. Inoltre, dobbiamo smettere di parlare soltanto di resa agricola in quintali per ettaro e iniziare a parlare di bilancio energetico in campo. Se si considera l’input energetico impiegato in campo rispetto all’output dato dai chilogrammi per ettaro prodotti, tra un cereale antico e uno moderno non c’è tutta questa differenza, anzi a volte i grani antichi superano i moderni”.
Ragionando sull’anacronismo dei grani antichi, Spisni puntualizza che “forse sono i grani moderni a non essere più adatti al mondo contemporaneo. Oggi l’agricoltura deve necessariamente ridurre il ricorso alla chimica. Ce lo dicono i criteri di sostenibilità mondiale e anche l’Unione europea con la strategia Farm to fork, che prevede una riduzione di fosfati, nitrati e pesticidi. Pertanto, i grani moderni che necessitano di tutti questi trattamenti non sono più idonei; inoltre, avendo un apparato radicale più piccolo, richiedono più acqua, un altro aspetto critico per il futuro. Se i grani antichi non sono adatti alla contemporaneità non lo sono nemmeno quelli moderni. Dovremmo fare delle selezioni per ottenere caratteristiche intermedie tra antichi e moderni, che sono entrambi residui del passato: se per i primi vale il dato cronologico, per i secondi si tratta di un cambio di paradigma, perché l’agricoltura come la si praticava negli anni Ottanta, Novanta e Duemila non si potrà più fare”.
Per Spisni, inoltre, “il tema del maggiore utilizzo di suolo fertile e delle risorse necessarie per i grani antichi sono un falso problema, perché occorre fare un ragionamento di sistema. Oggi si utilizzano gran parte dei terreni agricoli per il foraggio e il 40% del restante è comunque destinato a nutrire gli animali allevati. Oltre alla questione della quantità, dobbiamo valutare l’uso che facciamo in queste terre: se continuiamo ad allevare un’enorme quantità di bestiame queste non basteranno mai, nemmeno con l’agricoltura convenzionale. Dobbiamo cambiare il modo di ragionare perché stiamo usando i terreni agricoli in modo poco razionale e non sostenibile, il punto non è il fatto che il grano antico richiede il 20% di terra in più, ma che il 70% delle aree che stiamo coltivando servono per sfamare animali da allevamento. Quindi, la priorità va data a questo problema di primaria importanza”.
[elementor-template id='142071']Salubrità delle piante, inquinanti e molitura a pietra
Un altro punto a sfavore dei grani antichi, secondo Ercole Borasio, riguarda la salubrità delle piante, che “rispetto a quelle moderne, essendo il doppio in altezza, sono più soggette alle micotossine, si allettano facilmente e sono anche più soggette all’assorbimento di metalli pesanti presenti nel terreno, come il cadmio”.
Enzo Spisni precisa però che “i grani antichi non sono affatto più soggetti alle micotossine rispetto agli altri grani. Anzi, le muffe che partono sempre dal suolo e non piovono dal cielo, faticano di più a raggiungere una spiga posta più in alto. Hanno un apparato radicale più sviluppato, anche per questo sviluppano più micronutrienti. Se il terreno è contaminato da cadmio ovviamente c’è questo rischio, che si conosce da anni specialmente rispetto al riso, ma non per questo si è smesso di coltivare questo cereale. Occorre impegnarsi per rigenerare i terreni e combattere l’inquinamento, dovuto agli scarichi industriali e in una certa quota anche ai residui di decenni di trattamenti con i pesticidi dell’agricoltura intensiva convenzionale”.
Borasio critica anche la pratica della macinazione a pietra, tipicamente associata ai grani antichi, che “per quanto molto pubblicizzata, è falsa. Era caratteristica dei vecchi mulini, che venivano curati dai mugnai, capaci di mantenere le pietre e picchiettarle per ottenere le giuste scanalature per la molitura. Oggi nessuno lo fa più, forse poche persone: la produzione industriale permette moliture migliori e di grande quantità. Non si può rispondere alle esigenze moderne con tecniche del passato, le varietà antiche non danno nessun beneficio. È giusto dirlo ai consumatori che pagano prezzi più alti per comprare prodotti fatti con queste farine”.
Per Spisni “questa ricostruzione sulla molitura a pietra è troppo semplicistica. La moderna molitura a cilindro nasce soprattutto per aumentare la conservabilità delle farine, perché elimina gli acidi grassi del germe, che tendono a irrancidire in breve tempo. Questo permette di avere un prodotto stabile nel tempo con una vita utile lunghissima, ma anche decisamente più povero di nutrienti nobili. La molitura a pietra è una pratica artigianale che per forza di cose lavora piccole quantità, ed è complicato mantenere le macine in efficienza. Oggi se ne utilizzano di piccole dimensioni realizzate con pietre ricostruite, che hanno una durata molto più lunga e non si ribattono come succedeva una volta. Anche la molitura tradizionale, quindi, ha beneficiato di progressi tecnologici: non dobbiamo pensare agli antichi mulini del Cinquecento ma a strumenti moderni, seppur riconducibili ad abilità del passato”.
Nutrienti e gusto: la qualità non è la stessa
Secondo il professor Luigi Cattivelli, nel complesso i vantaggi nutrizionali dei grani antichi sarebbero limitati, perché “il 20% in più di minerali rispetto a quelli odierni va inquadrato all’interno di una dieta equilibrata. Basta aggiungere un cucchiaio di pomodoro nella pasta per assumere molti più antiossidanti rispetto a quel 20%. Lo stesso vale per il glutine: non ci sono evidenze scientifiche che affermano che le farine antiche ne hanno meno in assoluto”.
Se si parla di qualità delle farine e degli alimenti derivati dai grani antichi, il professor Spisni afferma che “a fronte di costi sicuramente più alti, i prodotti hanno però una qualità molto più alta. Con la moderna molitura a cilindri, per ottenere farine simili a quelle integrali molite a pietra è necessario effettuare una ricostituzione delle parti del chicco, ma si perde comunque la parte lipidica del germe, che è anche quella ricca di vitamine e minerali. Anche sul piano nutrizionale, perciò, i prodotti sono diversi. Con la molitura a cilindri non è impossibile ottenere prodotti di qualità, ma se l’obiettivo è ripristinare il grano per com’era in partenza si deve affrontare un processo costoso e al di fuori dei normali canoni di molitura industriale. Questa tecnologia, infatti, è concepita per separare le componenti del grano, la molitura a cilindri nasce ed è vocata per produzioni massive e non per preservare le proprietà dei cereali. In sostanza, è vero che la molitura a pietra è un processo di nicchia, costoso e complesso da curare, ma lo stesso vale per tutte le produzioni alimentari di pregio, che non per questo vengono abbandonate, bensì valorizzate come meritano”.
Grani antichi, glutine e infiammazione
Riguardo al contenuto di glutine dei grani antichi, Spisni puntualizza che “ci sono molti studi realizzati in vitro, compresi quelli del CREA, che non attestano alcuna differenza tra i grani antichi e quelli moderni. Tutte le ricerche fatte in vivo sull’essere umano, pur coinvolgendo un numero limitato di pazienti, mostrano invece una differenza di tipo infiammatorio tra grani moderni e antichi. Lo abbiamo visto nelle nostre ricerche, lo afferma Antonio Gasbarrini (esperto di sensibilità al glutine non celiaca e professore di Medicina Interna presso l’Università Cattolica e direttore del Centro Malattie dell’apparato digerente della Fondazione Policlinico Gemelli), e altri come il professor Francesco Sofi di Firenze (Docente di Scienze tecniche dietetiche applicate e membro del Comitato scientifico della Società italiana di Nutrizione umana – SINU), che hanno condotto molti studi clinici sull’essere umano. Nel contesto delle evidenze scientifiche, i risultati di uno studio in vivo vanno sempre anteposti a quelli di studio in vitro, e tra questi primi tutti concludono che la capacità di indurre infiammazione nell’intestino è più alta nei grani moderni rispetto a quelli antichi. È un punto che non si può trascurare: il nostro intestino è una macchina estremamente complicata e a oggi non sappiamo spiegare del tutto queste differenze”.
Ad ogni modo, prosegue Spisni, “vediamo che su chi è sensibile al glutine, categoria ormai abbastanza definita, le differenze sono evidenti. Ci sono persone che, se non hanno la possibilità di consumare questo tipo di cereali, sono costrette a orientarsi sul gluten free, e questo non è un bene. Quindi, è importante dare alle persone sensibili al glutine questa opportunità, perché tra chi fa questa scelta molti stanno decisamente meglio. Negli ultimi anni il mercato del gluten free è esploso, un po’ per moda ma anche perché ci sono soggetti che se consumano grani moderni non stanno bene, e quindi cercano altro. Un motivo in più per curare un settore che, per quanto di nicchia, permette a molti di questi soggetti di consumare grano”.
La ricerca genetica è fondamentale ma l’applicazione e gli obiettivi devono essere ripensati rispetto al passato
Al netto delle diverse valutazioni sui grani antichi, Spisni sottolinea che il suo giudizio sul miglioramento genetico applicato alla cerealicoltura non è affatto negativo: “il punto è che stiamo andando verso condizioni climatiche poco prevedibili. Se in passato si selezionavano piante resistenti alla siccità da destinare ad aree stabilmente siccitose, ora carenza d’acqua e alluvioni si possono alternare a distanza di un mese, con fenomeni estremi. Quindi, bisogna cercare di ampliare il genotipo di queste piante, il contrario di quello che si è fatto fino a oggi, dove i genetisti del grano hanno selezionato cultivar che venivano piantate tutte uguali nello stesso campo, un approccio da superare. Con i cambiamenti climatici in corso, infatti, più ampia è la genetica negli spazi coltivati e più è probabile che nonostante i fenomeni avversi qualcosa si salvi, altrimenti si rischia di raccogliere poco o nulla, con annate estremamente infauste che si susseguono troppo frequentemente. L’iper-specializzazione delle piante, figlia dell’agricoltura intensiva, richiede un ambiente iper controllato, aspetto reso di fatto impossibile dall’attuale crisi climatica. Pertanto, sono necessari studi di genetica orientati verso una maggiore adattabilità complessiva delle coltivazioni”.
I grani antichi per sostenere l’economia collinare e montana
Se i due punti vista che abbiamo presentato divergono quasi su tutto, sono però concordi nel promuovere quella che potrebbe essere la filiera più idonea per la produzione dei grani antichi. Come sottolinea Cattivelli, infatti, “potrebbero essere coltivati nei terreni collinari e di montagna, che quando non destinati a vite sarebbero abbandonati, per piccole produzioni funzionali al contrasto allo spopolamento di molte zone d’Italia”.
Nelle aree appenniniche, aggiunge Spisni, “non è possibile coltivare con efficacia i grani moderni, perché il costo finale non potrà mai essere competitivo con quello di un latifondo di pianura con le caratteristiche pedoclimatiche ideali e altre tipologie di agricoltura. È in questi contesti che si devono valorizzare le nicchie produttive dei grani antichi, che possono sposarsi perfettamente con determinate condizioni ambientali”.
Inoltre, tutti gli esperti sono concordi nel sostenere i prodotti integrali, sia da grani antichi sia da grani moderni. “Di certo, a livello scientifico, sappiamo che la farina integrale aumenta del 300% gli antiossidanti e fa bene alla salute” afferma Cattivelli.
Per Spisni “è l’unico grano che dovremmo mangiare, perché il nostro intestino non è fatto per digerire le farine bianche, che causano stress glicemico, scompensi a livello del microbiota intestinale e sono nate soprattutto per motivi industriali, a scapito del profilo nutrizionale. Se non l’integrale al 100%, dovremmo preferire almeno il semi integrale tipo 2”.
Grani antichi tra marketing e gastronomia d’eccellenza
Per concludere, il professor Spisni puntualizza che “la definizione ‘grani antichi’ viene sfruttata per fini di marketing e con una comunicazione scorretta, come già avviene per il falso integrale. Ci sono tanti pani ‘ai grani antichi’ che contengono non più del 10% di queste farine. Va ribadito, però, anche il valore sensoriale dei veri alimenti derivati da questi cereali, il gusto e il profumo che non è certo lo stesso di quello dei grani moderni: se ci si abitua a mangiare prodotti da forno di questa qualità è difficile tornare indietro. Non a caso queste farine vengono utilizzate, anche in percentuali ridotte, per profumare e dare un tocco di aroma in più al pane. Inoltre, se vogliamo conservare i valori distintivi e la biodiversità agricola della cucina italiana rispetto al resto del mondo e mantenere le terre coltivate in Appennino non dobbiamo abbandonare questi prodotti di nicchia, con filiere locali di qualità, come Slow Food insegna, per realizzare prodotti di eccellenza”.
Come abbiamo visto, pur essendo diviso su gran parte delle valutazioni relative ai grani antichi, il mondo scientifico concorda sulle possibilità di valorizzazione di determinati prodotti e territori grazie a queste coltivazioni.
Immagine in evidenza di: Claudio Rampinini/shutterstock.com