Un vero salentino si riconosce subito da come pronuncia la parola friseddhra. Si tratta di qualcosa che si acquisisce da piccoli e che difficilmente si può imparare negli anni e nel tempo. Devi esserci nato e cresciuto! Oggi vi parliamo un po’ di lei, anche perché a dispetto di quel che si potrebbe pensare, la prima frisella salentina non si mangia d’estate, ma già a febbraio, “quando fanno le prime rucoline” ci spiega Pino De Luca (di cui vi avevamo già parlato a proposito della cucina povera salentina). Tutte le informazioni che seguono sono tratte dall’incontro con lui e dal suo Saggio sulla Frisella ad uso di chi la usa senza averne mai avuto istruzioni. Dunque andiamo alla scoperta di questa specialità, che come dice Pino è “l’unica medaglia del mondo che ha due facce buone”.
Friseddhra, frisella e frisa: alle origini del nome
Chiunque abbia vissuto un pezzettino di infanzia o di adolescenza in un’estate salentina, almeno una volta, avrà udito l’annuncio: “aggiu ssuppate le friseddhre” scrive Pino. “È una voce adulta e amorevole che annuncia la merenda marchio di salentinità”. Il termine (corretto) friseddhra è stato poi italianizzato in frisella, se non addirittura abbreviato in frisa. Ma come anticipato è proprio quel suono ddhr, cosiddetto “cacuminale invertito”, il marchio di fabbrica salentino, quello difficile da riprodurre foneticamente se non si è appreso fin dall’infanzia. “La sua pronuncia non è solo salentina, ma anche siciliana, sarda, svedese, hindi, norvegese, giavanese, kannada e nihali” continua Pino. Quindi, per i non appartenenti a queste lingue è senza dubbio consigliabile il termine frisella, che deriva appunto da “friseddhra” ed è quindi ad essa successivo.
Il termine “frisa”, invece, è forse più semplice ma assolutamente fuorviante: “compare in Piemonte e in Friuli, ma in un caso indica una unità di misura (na frisa = mm. 0,18-1,95), nell’altro un appellativo gergale ancora utilizzato (per riferirsi a una bella ragazza). In ogni caso, quel che è certo è che la frisella è un pane lievitato e cotto due volte, con una lunga storia antica alle sue spalle.
La nascita delle friselle e la loro evoluzione nel tempo
“L’ipotesi più accreditata è che alcuni prodotti da forno come la frisella siano nati dall’esigenza di utilizzare completamente l’energia che un forno consuma”. Il forno a pietra di una volta, infatti, deve essere “cresciuto”, cioè portato alla temperatura di circa 400 gradi per consentire al pane di cuocere. Di solito, in Salento si utilizza legna ben secca di ramaglie di ulivo o di quercia: “quando sono completamente bruciate si sposta in un angolo la poca brace rimasta e la cenere svolazzata, si ramazza e si lava il fondo con una particolare scopa di ramaglie di ulivo verdi (strome) e poi si pone il pane sul fondo e lo si tiene chiuso fino alla cottura. In seguito il forno perde gran parte dell’energia e, se si volesse cuocere altro pane, bisognerebbe aggiungere legna, alimentare il fuoco, riportarlo a temperatura e rifare il ciclo per la seconda ‘cotta’” continua Pino. In questo modo è del tutto evidente che la grande quantità di calore ancora presente nel forno andrebbe dispersa, a meno che non si inventi un modo per utilizzarla. Ecco allora come nasce la frisella, che infatti viene infornata per non disperdere il calore: la sua particolarità sta nel fatto di essere una sorta di bis-cotto, che vuol dire appunto “cotto due volte”.
Nel tempo si sono diffusi i furniceddhri, cioè i forni di campagna condivisi da gruppi di pagghiare: “la pagghiara, di pietra a secco o di altro materiale presente in loco, era la residenza estiva di chi lavorava in campagna; era un luogo spartano, con dei giacigli di paglia e poco altro, ma c’era lo spazio per seccare i fichi sui cannizzi e le mandorle, per raccogliere i miluni te tinire e per seccare i peperoni e i pomodori e fare la cunserva mara. Allu furniceddhru si portava la cosiddetta ‘tavola’: una tavola media era un’asse di legno liscio con cinque piezzi e dudici cocchie, ovvero cinque pezzi di pane e ventiquattro friselle, quando c’era la farina, che era preziosa, ma dudici cocchie te friseddhre si facevano sempre”.
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Un’ulteriore dimostrazione della necessità di utilizzare al massimo l’energia del forno è l’esistenza di numerosi prodotti che cuocevano insieme a fuecu forte, ovvero quando ancora la legna ardeva, come lo sceblasti di Zollino, la puccia o i vari pizzi. Il forno si “cresceva” la mattina presto in modo che rimanesse caldo per tutta la giornata e fosse fruibile secondo le varie temperature per le applicazioni diverse, ad esempio le fiche nfurnate, li pipi rrustuti, la cipuddhrata o lu tianu, termine generico per indicare una qualsiasi cosa fatta la forno nella teglia, dal pollo con le patate (assai raro) alle cipolle con il pecorino grattugiato. Negli anni, l’opulenza moderna e la disponibilità di forni domestici tecnologicamente evoluti e dalla temperatura regolabile ha permesso di concedersi “la frisellina”, di piccole dimensioni, un tempo impensabile. Ma vediamo come si prepara una friseddhra fatta a regola d’arte.
La preparazione della friseddhra salentina: friselle di sopra e di sotto
Le friselle possono essere fatte di farina di grano duro, di orzo o miste, più o meno ricche di fibra (canigghia). L’impasto, costituito da farina, acqua e sale, è del tutto simile a quello del pane ma con un 10% in meno di acqua. Il lievito madre, di solito 200-220 grammi per ogni chilo di farina, è obbligatorio. L’impasto viene lavorato a lungo sulla tavola e quindi diviso in pezzi, ognuno dei quali viene a sua volta allungato e arrotondato a forma di serpente sottile da cui di traggono delle ciambelle (con o senza buco, come vedremo in seguito) o delle panelle (certamente senza buco). Il formato è sempre più o meno circolare, con un diametro da 8 a 12 cm, di dimensione assolutamente minore rispetto ai “pezzi di pane”. Le friselle sono poste a “cocchia”, cioè a coppia in una grande leccarda di rame e infornate dopo aver infornato il pane, quindi nella parte anteriore del forno. Data la dimensione minore cuociono in minor tempo e di conseguenza vanno vanno estratte prima. Durante la prima cottura sviluppano una crosta dura, ma all’interno restano ancora molto morbide.
Poi si estraggono le “rami” e si versano le “cocchie” in un grande cesto di vimini (caniscia) appoggiando la leccarda vicino ad esso. “La caniscia porta sopra, ben teso, un filo di ferro non zincato, legato ai due estremi dell’imboccatura. Immediatamente, mentre è ancora caldissima, si prende la “cocchia” di friselle e la si passa sul filo di ferro esattamente sulla metà che congiunge i due anelli circolari che la formano. In questo modo si otterranno quindi due friselle: quella di sopra, più liscia e compatta (friseddhra te subbra), e quella di sotto più irregolare e zigrinata (friseddhra te sutta). La prima infatti, è ritenuta più pregiata in quanto priva di ogni piegatura dovuta al peso; per questo veniva conservata a parte, generalmente in una federa, e tirata fuori solo per gli ospiti di riguardo. La seconda, invece, costituita per lo più da parti sbriciolate, si consumava invece per la colazione dei bambini inzuppate nel latte, “erano i Corn Flakes di un tempo” scrive Pino; oppure si portava in campagna durante le lunghe giornate di lavoro. “Sbriciolate nella ‘tascappane’ ogni tanto se ne masticava un pezzetto (ruzzulisciava), un po’ il rumore dello sgranocchiare teneva compagnia e, soprattutto, la frisella leniva i morsi della fame. Accompagnata con dei lunghi sorsi d’acqua si gonfiava nello stomaco restituendo una sensazione di pienezza. Si dice infatti la friseddhra pisa picca e inche mutu, ovvero: la frisella pesa poco ma riempie molto”. In realtà, c’è anche chi preferisce quelle di sotto, poiché pur essendo meno pregiate, cuociono a diretto contatto col fuoco e quindi prendono un po’ il sapore della legna. Ma con o senza buco?
Friselle salentine: con o senza buco?
La differenza tra friselle con buco e senza buco deriva dall’uso che si desidera farne. Le friselle con il buco sono quelle da “viaggio” (di terra o di mare): infatti, le si facevano attraversare da una cordicella e si appendevano al carro o alla cambusa, così da arieggiarle. Le friselle infatti temono l’umidità, se non sono protette rischiano di “risciuncare”, ovvero di perdere di croccantezza. In caso di viaggio venivano consumate nelle cauponae, una sorta di autogrill al tempo dei romani, luoghi di sosta nei quali si consumava preferibilmente il proprio pasto. Nelle cauponae si poteva bere del vino dispensato dalle “ministre” che avevano licenza di accoppiarsi liberamente con gli avventori con o senza compenso. Quando si devono tenere in casa, meglio le frise senza buco (si risparmia spazio), che vanno poste obbligatoriamente in un apposito recipiente di terracotta: la capasa, recipiente panciuto e smaltato, adatta soprattutto alla conservazione di ciò che teme l’umido, come appunto le friselle o i fichi mandorlati.
Come riconoscere una buona frisella?
I salentini lo sanno bene: per riconoscere una buona frisella bisogna vedere se sponza in modo armonico o se ha delle parti mpituddhrate, cioè impermeabili. “Se al primo spruzzo d’acqua si spappola come un geco quando capita sotto il piede” scrive Pino, “vuol dire che ci hanno messo grano tenero, quindi denunciate chi ve le ha fornite e conservate le friselle per fare le polpette o altro in cucina”. Pensate che si tratta il momento in cui entra in contatto con l’acqua è talmente importante e cruciale che c’è proprio un utensile apposito, cioè lo sponza frise: si tratta di una ciotola che si usa per appoggiarci le friselle dopo averle bagnate, con una piattaforma a fori per scolare l’acqua e poi condirla. Una frisella buona (se è quella di sopra è meglio) soggiace al protocollo di ssuppatura, descritto da Massimo Vaglio: occorrono un piatto fondo con il fondo pieno d’acqua, una ciotola colma d’acqua fresca e una frisella. Quest’ultima viene presa con tre dita (policce, indice e medio) e per tre volte in rapida successione immersa nella ciotola; dopo la terza immersione va sollevata, lasciata scolare e appoggiata al fondo del piatto in cui servirla. Se tutto va bene, nel piatto rimane un filo d’acqua sul fondo e quello è il momento di condirle. “Dunque, la bagnatura della frisella è un protocollo, mentre il suo condimento è libertà” conclude Pino.
Come consumare le friselle
Molti amano mangiare la frisella bagnata nell’acqua di mare, ma secondo Pino, questa leggenda va sfatata: “l’acqua di mare, oltre che essere molto salata, è anche amara, quindi la frisella diventa poco gradevole”. Se volete approfondire questo tema, vi consiglio di leggere il libro Una frisella sul mare di Pierpaolo Lala e il meraviglioso spettacolo teatrale di Alessandra De Luca.
Su una cosa, invece, sono tutti d’accordo: la frisella si mangia assolutamente e rigorosamente con le mani, come canta il brano Balkanika Pizzicata di Claudio Cavallo, di cui vi avevamo parlato a proposito della cultura rom legata al cavallo e alla carne equina in Puglia. “Usare la forchetta o, come ho visto il cucchiaio, è semplicemente un oltraggio alla decenza”.
Una volta chiariti questi due aspetti fondamentali, possiamo passare al condimento. A questo proposito sempre Pino scrive: “oggi le cose sono cambiate e ci concediamo il lusso di mangiarla condita con quello che più ci piace”. Ma un tempo non era così, tant’è che la frisella veniva chiamata la bistecca dei poveri, perché si mangiava sempre, di continuo. E a dispetto di quel che si potrebbe pensare, la prima frisella dell’anno non si mangia d’estate, ma tra fine inverno e inizio primavera, cioè tra febbraio e marzo, quando si raccolgono le prime rucoline selvatiche. Da questo momento in poi la friseddhra non manca mai in tavola, condita in vari modi. Quello base è con pummitoru, uegghiu e sale, cioè seme di pomodoro fiaschetto (solo il seme, detto riddhru o sumenta) sale grosso e una generosa dose di olio extravergine di oliva, preferibilmente celina o di ogliarola; “la polpa del pomodoro si può appoggiare sopra successivamente come ulteriore guarnizione, insieme a origano, pipini (peperoncino fresco), olive nere, cipolla, giardiniera, tonno. Insomma, con la frisella si abbina ogni cosa, anche l’uva e i fichi freschi. Infine, un altro condimento per consumare la frisella è con un’antica salsa salentina”.
Frate Focu o Cunserva Mara, una salsa antica per condire la friseddhra
Che si chiami Frate Focu a Scorrano o Cunserva Mara a Spongano (dove viene rispettivamente festeggiata con due sagre in suo onore in questi due paesi), si tratta di una delle salse più antiche e straordinarie che ci sia in Salento a base di peperone e pomodoro. Secondo il protocollo dei prodotti tipici di Puglia le percentuali tra peperone e pomodoro devono essere rispettivamente 70% e 30%, ma non si specifica che tipo di peperone, cioè se dolce o piccante. Gli ingredienti da utilizzare sono dunque peperoni rossi dolci, peperoncini rossi piccanti e pomodorini fiaschetti. Devono essere tutti ben lavati, privati del picciolo e dei semi e sminuzzati; poi posti in una grande pentola, allungati con un fondo di acqua fresca e una manciata di sale, coperti per bene e lasciati a bollire a fuoco lentissimo per 4-5 ore. Infine, quando la consistenza è cremosa, si passa con una macchinetta per fare la salsa e si pone in ampie terrine di terracotta per alimenti. L’importante è che siano molto ampie e poco profonde poiché vanno esposte al sole protette da zanzariere a trama sottilissima per evitare gli insetti e la polvere. L’esposizione avverrà tutti i giorni dall’alba al tramonto fino a quando la Cunserva Mara non assumerà un colore mogano scuro e sarà abbastanza dura. Quando la salsa si è essiccata, la si pone in un vaso profondo (limmu o limbu) sempre di creta vetrificata, la si copre con un telo di lino e la si lascia al fresco per due o tre giorni, finché la cunserva non si ammorbidirà riassumendo una certa pastosità. È tempo della “spatolatura”: poco alla volta si aggiunge olio evo e con una “cucchiara” di grandi dimensioni si mescola l’olio alla salsa. In dieci-dodici giorni avremo una crema densa, perfetta da spalmare sulla nostra frisella, ma anche compagna inimitabile di friselline, sagne ‘ncannulate e, fidatevi, di arrosti alla brace e formaggi semistagionati.
Il glossario della friseddhra
Pino De Luca nel suo Saggio ha redatto anche un utilissimo glossario della frisella, in modo da essere preparati in caso vi trovaste a doverne disquisire con qualche salentino.
- Uergiu, orzo;
- Ranu, grano duro
- Ruessu o Cruessu, farina con un’alta percentuale di crusca;
- Cocchia coppia, le frise al primo stadio;
- Friseddhra te subbra, frisella di sopra;
- Friseddhra te sutta, frisella di sotto;
- Lazzu o fierru, sistema per separare la cocchia;
- Rame, leccarda nella quale le frise si pongono nel forno;
- Strome, foglie verdi di ulivo che servivano a ripulire il forno;
- Capasa, recipiente nel quale si conservavano le friseddhre;
- Ssuppare, bagnare, inzuppare;
- Spunzare, tenere a mollo oltre il dovuto;
- Spulisciata, frisella così pregna d’acqua da diventare informe e disfatta, incapace di assorbire il condimento;
- Risciuncata, frisella moscia per aver preso umidità;
- Mpituddhrata, frisella che è stata cotta nuovamente dopo che si è raffreddata e ha perduto la capacità di assorbire acqua;
- Scarnozzulare, triturare con i denti le parti dure di una frisella o una frisella asciutta;
- Ruzzulisciare, ripassare tra i denti i pezzi di una frisa asciutta fino a quando non si “ssuppano” per bene di saliva.
I modi di dire
La friseddhra è talmente importante nella cultura salentina che moltissimi modi di dire e proverbi fanno riferimento a lei. Pino, ce ne ha detti alcuni, come ad esempio:
- m’aggiu fattu a friseddhra, “mi sono bagnato fradicio”;
- se ssuppanu le friseddhre, “sono molto amici”;
- nu è friseddhra pe li tienti toi, “è inutile che ci provi, non è per te”;
- se mangia le friseddhre te lu tata, si trova in una posizione ottimale;
- lu Signore tae le friseddhre a ci nu le rusica, “la fortuna arriva sempre a chi non la sa cogliere”;
- beddhra comu na friseddhra, “bella come una frisella”;
- e na mangiare friseddhre toste, “hai ancora molta strada da fare”.
E ora diteci la verità: voi sapete pronunciare correttamente la parola friseddhra?