Ci piace andare alla scoperta di professionisti, start up o aziende che trovano il modo di combinare insieme mondi apparentemente lontani tra loro e di dare nuova vita ai sottoprodotti dell’industria agroalimentare – come nel caso dell’azienda agricola che produce carta dalle tuniche d’aglio, o del progetto sardo che ricicla i gusci di cozze per produrre oggetti di eco-design. Sempre nell’ambito dell’eco-design si inserisce anche il progetto Fornice Object della designer Chiara Ravaioli, che mostra come la tecnologia e la creatività possano unirsi per creare qualcosa di unico, impiegando anche materia prima che altrimenti verrebbe buttata. Con una combinazione di stampanti 3D e di coloranti derivati da scarti alimentari, Ravaioli sta ridefinendo i confini della produzione artigianale sostenibile. Come? Ne abbiamo parlato insieme a lei!
Fornice Object e i suoi vasi di eco-design
Fornice Object è nato dall’idea di Chiara Ravaioli di combinare l’arte e il design con la tecnologia moderna della stampa 3D. Realizza così i suoi vasi in ceramica o in PLA, un polimero completamente biodegradabile spesso utilizzato per le stoviglie compostabili. Questo materiale è un acido polilattico ottenuto dalla barbabietola da zucchero, dal mais o da altre piante attraverso processi industriali, e viene colorato con pigmenti ricavati da scarti vegetali essiccati e polverizzati.
“Quando pensiamo alla stampante 3D, la associamo a un mondo di sperimentazione, soprattutto industriale, per la prototipazione”, ossia la realizzazione di un prototipo che l’azienda intende successivamente sviluppare. “Ho scelto questo strumento per la sua immediatezza. Permette di avere un prodotto pronto in poche ore senza i costi e i tempi dei processi industriali tradizionali” spiega Ravaioli. Il suo obiettivo, però, era quello di evitare la produzione in serie, ad esempio attraverso l’uso di stampi specifici, focalizzandosi invece su pezzi unici e personalizzabili. “Questa è un’altra delle ragioni per cui ho scelto la stampante 3D: ti permette di avere un pezzo leggermente o completamento diverso dagli altri grazie a piccole modifiche che si riescono a fare tra un vaso e l’altro”.
Un progetto che la designer ha iniziato creando vasi per uso personale, dopo aver acquistato la prima stampante 3D nel 2017, l’anno successivo alla laurea presso la UAL, The University of the Arts London, tra le migliori università di Arte e Design al mondo, per cui aveva portato un prototipo di questo progetto. Dopo il ritorno a casa, in Italia, e la sua ricerca sui materiali ha rapidamente attratto l’attenzione al di fuori del suo ambito personale, differenziando la produzione tra ceramica e PLA. “La parte principale del mio lavoro, e anche quella più interessante, è sempre stata quella della ricerca del materiale, perché nel mondo della bioplastica c’è ancora molto da scoprire” aggiunge.
La ricerca dei materiali, tra scarti alimentari e stagionalità
Come funziona esattamente? Ravaioli ordina il PLA già pronto da un fornitore siciliano che le invia bobine simili a quelle dei filati tradizionali. Con lui ha instaurato una stretta collaborazione basata su sperimentazioni per ottenere i fili adatti e nei colori desiderati. “Ho trovato questo fornitore che condivideva la mia stessa volontà di utilizzare pigmenti derivati da prodotti organici. Un po’ come accade in India per la tintura degli abiti, dove si usano coloranti naturali e vegetali. Nel nostro caso, i pigmenti derivano in buona parte da scarti alimentari” spiega Ravaioli. Ad esempio, il rosso deriva dalla buccia del pomodoro: “Una volta che la stagione del pomodoro si esaurisce, il fornitore raccoglie gli scarti dell’industria e, tramite un processo di essiccazione e polverizzazione, li trasforma in un pigmento che viene mescolato alla bioplastica”. Questo processo non solo dà nuova vita agli scarti alimentari, ma introduce anche un elemento di stagionalità nella produzione dei vasi. “Il bello di questi prodotti, che purtroppo non ancora tutti comprendono, è che c’è una stagionalità. Ogni anno, io so che mi arrivano tot kg di pomodoro e che questi mi devono durare fino all’anno prossimo. Seguiamo i tempi delle raccolte”.
Il riciclo e l’uso di materiali naturali richiedono una continua sperimentazione. Come spiega la designer, si tratta di tecniche e processi nuovi, per cui bisogna procedere per tentativi, non tutti sempre riusciti. Le sfide, dunque, non mancano: “Ad esempio, per ottenere un pigmento di colore verde abbiamo effettuato diverse prove, inizialmente con le foglie di potatura dell’ulivo, poi con le erbe aromatiche. Per il lilla, sto facendo varie prove con la lavanda che coltivo nella mia azienda agricola sopra Brisighella, ma al momento non stiamo ottenendo i risultati che vorremmo”.
Ogni materiale comporta delle sfide uniche e richiede adattamenti costanti, come con il caffè, il riso, con cui si crea un pigmento color avorio, i semi di melograno con cui si ottiene un verde acido, o il fico d’india. “Non sappiamo mai quello che salta fuori dalle colorazioni, e penso sia questo il bello” continua.
Verso un’artigianalità più consapevole
Il risultato sono vasi estremamente eleganti, ipnotici nelle forme, leggeri grazie all’uso della bioplastica e anche “materici”. Infatti, come ci tiene a spiegare la designer, non è solo una questione di colorazione: l’uso di materiale di origine organica e vegetale conferisce texture sempre uniche e diverse ai suoi prodotti. “C’è chi può definirle dei falli, mentre secondo me conferiscono ai vasi quel tocco umano di imperfezione che tutti noi abbiamo. Ogni prodotto viene realizzato sì nello stesso modo, ma grazie a queste caratteristiche della materia prima di base e all’artigianalità che c’è dietro, è leggermente diverso ogni volta”.
“Se decidessi di prendere filamenti già in produzione, sarebbe molto più semplice e il prodotto sarebbe sempre quello. Ma il risultato, per me, è troppo statico. Il valore di quello che faccio è che utilizzo il 30% di questi scarti organici che ne determinano sia il colore che la finitura del risultato finito”. Ad esempio, può capitare che, durante la stampa, il processo si blocchi perché il filato è troppo fibroso: “in questi casi, lo ritiro, lo reimpasto e ricomincio da capo. Di conseguenza, anche i falli di produzione non vengono buttati via, ma riutilizzati”.
Il progetto Fornice Object rappresenta un perfetto esempio di come l’innovazione tecnologica possa essere integrata con la sostenibilità e un’artigianalità più consapevole. Utilizzando la stampa 3D e coloranti derivati da scarti alimentari, Chiara crea vasi unici che non solo permettono di usare in modo intelligente gli sprechi, ma celebrano anche la bellezza dei materiali naturali e stagionali.
Immagine in evidenza di: Fornice Object