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La mappa dei formaggi italiani: le migliori eccellenze da Nord a Sud

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Parlare di formaggi italiani significa fare riferimento alla cultura di un Paese che nell’arte casearia trova spesso un elemento identificativo del territorio. Praticamente ogni regione d’Italia ha almeno un formaggio che ben la rappresenta. In molti casi si tratta di prodotti che vantano anche una denominazione d’origine riconosciuta a livello europeo (DOP e IGP), in altri invece abbiamo a che fare coi cosiddetti PAT, ovvero Prodotti Agroalimentari Tradizionali, inclusi nell’elenco depositato presso il MIPAAFT. Ad ogni modo, il formaggio in Italia è di casa e lo scopriremo nell’articolo di oggi, andando a scoprire alcune delle più importanti eccellenze casearie.

L’arte casearia come identità di un territorio: viaggio tra i formaggi italiani 

Italia casearia
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L’arte di fare il formaggio riflette l’importanza di una risorsa fondamentale come il latte. In un Paese a vocazione agricola come l’Italia, ha sempre rivestito un ruolo centrale nell’alimentazione di ogni famiglia e in particolare di quelle meno abbienti. Sfruttare al meglio i doni della terra e tutto ciò che il bestiame allevato ha da offrire è un comandamento della civiltà contadina. Proprio in questo contesto s’è sviluppata e radicata la cultura casearia, che ha permesso di trasformare un bene fresco ma deperibile come il latte in qualcosa che si potesse conservare a lungo. Come il formaggio, appunto. Ecco perché si tratta di una tradizione così largamente diffusa e rappresentata da una nutrita varietà di prodotti, ognuno dei quali espressione dell’identità di un popolo e della sua storia.

Come abbiamo già visto nell’articolo sulla diffusione di olio, burro e strutto, infatti, anche per i formaggi abbiamo una produzione territoriale influenzata dall’ambiente e dal tipo di allevamento praticato. Se al Nord predomina quello delle vacche, nel Centro Italia prevalgono gli ovini, mentre la realtà delle regioni meridionali è più articolata e vanta, tra le altre, la presenza della bufala. Ci sono poi le aree di montagna, coi pascoli d’alta quota, dove si producono i corposi formaggi di malga, senza dimenticare la crescente diffusione di allevamenti caprini, da cui si ricava un latte dall’aroma caratteristico e molto apprezzato per le sue qualità nutrizionali. Andiamo dunque a intraprendere questo ideale viaggio tra i formaggi italiani, partendo dalle vette delle Alpi per poi scendere fino all’estremo Sud.

Il buono della montagna

Le Alpi rappresentano da sempre un elemento essenziale sia nella storia e nella geografia del nostro Paese, sia nella cultura popolare. Le valli e i prati che si aprono in alta quota sono spazi che ben si prestano all’allevamento del bestiame. Qui si è radicata la cultura di produrre formaggi a partire dal latte di animali al pascolo libero, che si nutrono quindi di erbe di campo. Ne derivano prodotti in cui è spesso presente una forte componente aromatica, che può variare a seconda della stagione. È il modo in cui si alimenta il bestiame, in questo caso, a determinare le sfumature di gusto che si ritrovano poi nel latte munto e, di conseguenza, nel formaggio. Le regioni del Nord Italia vantano diversi esempi di formaggi di montagna, alcuni dei quali sono prodotti direttamente nelle malghe, tipiche costruzioni rurali utilizzate dagli allevatori come rifugio.

Se parliamo di formaggi di montagna, non possiamo che iniziare dalla Valle d’Aosta, dove spiccano il Fromadzo DOP – ottenuto da latte vaccino, con eventuali aggiunte caprine, e caratterizzato da pasta compatta e un aroma che richiama le erbe di pascolo – e la Fontina DOP, prodotta esclusivamente da latte crudo di vacca valdostana e vero simbolo della regione.

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In Piemonte, invece, tipico formaggio d’alpeggio è il Raschera DOP, legato alle valli e ai colli del cuneese, prevalentemente da latte vaccino, ma che ammette anche delle varianti miste (ovvero con l’aggiunta di latte ovino o caprino). La regione sabauda è inoltre patria di un’eccellenza come il Castelmagno DOP, erborinato a pasta semidura, caratterizzato dalle essenze aromatiche di cui si nutrono le vacche in alta quota. Tra le innumerevoli specialità casearie lombarde, prodotti di montagna sono soprattutto il Bitto, fiore all’occhiello della Valtellina, il Formai de Mut, realizzato a partire dal latte di vacca Bruna Alpina in alta Val Brembana e il Silter. Quest’ultimo, tipico della Valle Camonica, deve il suo nome proprio al termine dialettale, di derivazione celtica, con cui si identifica il tipico locale della malga preposte alla salatura e alla stagionatura delle forme.

Non può mancare all’appello il Trentino Alto-Adige, con formaggi quali la Vezzena, tipico dell’Altopiano di Lavarone, in provincia di Trento, realizzato con latte bovino delle razze Bruna o Grigio Alpina, lo Stilfser o Stelvio, prodotto in Val Venosta, caratterizzato da pasta morbida e gusto dolce, e il Puzzone di Moena, il cui nome è indicativo sia dell’origine (il comune di Moena, nella Val di Fassa), sia del suo importante impatto olfattivo. Anche Montasio e Monte Veronese sono due DOP che nascono dalla tradizione di montagna, nonostante l’area di produzione si sia estesa fino a includere zone di pianura. Il Montasio, che deve il suo nome all’omonimo altopiano friulano, si distingue in quattro varianti (fresco, mezzano, stagionato e stravecchio) a seconda del periodo di stagionatura, ed è oggi realizzato anche nelle province venete di Belluno, Treviso, Padova e Venezia. Noto sin dal XIII secolo, il Monte Veronese nasce invece sui monti Lessini, a partire dal latte di vacca Bruna Alpina. Nella lavorazione è ammessa, tuttavia, la possibilità di aggiungere a quello d’alpeggio il latte proveniente dagli allevamenti in pianura. Per questo motivo il Monte Veronese prodotto solo da latte di malga è tutelato dal Presidio Slow Food. Sempre in Veneto, c’è un formaggio che porta già nel nome il suo legame con la montagna. Si tratta del Malga Bellunese, noto sin dal XV secolo e da sempre risorsa economica fondamentale per gli allevatori delle vallate, che portavano le vacche a monticare, diventando anche casari.
Tra le specialità d’alpeggio merita, infine, una citazione la Liguria, ben rappresentata dal formaggio di Triora. Deve il suo nome all’omonimo comune della provincia d’Imperia, sulle pendici del monte Saccarello, nella cornice delle Alpi Marittime. Prodotto da latte vaccino, ha pasta semidura e compatta e un’intensità aromatica che si fa più complessa con l’avanzare della stagionatura.

Tra le valli e le pianure del Nord

Come detto, in tutta l’Italia settentrionale è particolarmente diffuso l’allevamento bovino. Se ne trova conferma in una produzione di latte dai volumi importanti e in un’articolata varietà di specialità casearie. L’intera fascia che va dalle colline piemontesi alle Prealpi lombarde, e ancora dalla Pianura Padana al Veneto, è un’intera galassia di formaggi: da quelli più conosciuti e a denominazione d’origine alle specialità più di nicchia. Si va da quelli a pasta dura o semidura (a seconda del grado di stagionatura), come la Toma Piemontese, il Piave, l’Asiago e il Casera Valtellina, a quelli più morbidi e dalla forte impronta aromatica, di cui Taleggio è esempio, fino a sapori più freschi e delicati, quali la Robiola d’Alba, la Casatella Trevigiana, la prescinsêua genovese e la crescenza.

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Ma in Pianura Padana ci sono due protagonisti assoluti del panorama caseario italiano: il Grana Padano e il Gorgonzola. Il primo è un formaggio di antica tradizione, nato nel XI secolo ad opera dei monaci cistercensi dell’Abbazia di Chiaravalle, alle porte di Milano. La pasta compatta, punteggiata da granelli bianchi dovuti alla cristallizzazione del calcio, e la friabilità ne rappresentano i principali tratti distintivi. Allo stesso modo, il Gorgonzola DOP è un formaggio inconfondibile. Si tratta dell’erborinato per eccellenza, con venature dal grigio-verde al blu che si diramano all’interno della forma, sprigionando sapori e odori dall’intensità capace sia di arricchire il gusto di piatti della tradizione, quali risotto e polenta, sia di essere apprezzata in purezza.

Emilia-Romagna e Marche: dal “re” Parmigiano ai formaggi a latte misto

Sempre restando in Pianura Padana, ma sconfinando in Emilia-Romagna, entriamo nel regno del Parmigiano Reggiano DOP, noto e apprezzato in tutto il mondo e, non a caso, oggetto di contraffazioni. Non c’è imitazione che tenga, tuttavia. Il rigido disciplinare di produzione, messo a punto dal consorzio di tutela, identifica sia le razze bovine da cui deve provenire il latte, sia il modo in cui devono essere nutrite: solo foraggi selezionati, niente insilati, né alimenti fermentati e farine di origine animale. In questo modo si ha un prodotto 100% naturale, dalla pasta dal bianco avorio al giallo paglierino, compatta e friabile, irregolarmente punteggiata dai tipici cristalli di calcio. Esistono anche alcune denominazioni specifiche, quali, ad esempio, il Parmigiano Reggiano Prodotto di Montagna e il Vacche Rosse, a seconda del territorio di produzione o dalla particolare razza di vacca da cui si ottiene il latte.

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Spostandoci in Romagna, invece, non possiamo fare a meno di citare altre due eccellenze casearie come lo Squacquerone e il Formaggio di Fossa di Sogliano. Se il primo è conosciuto soprattutto per la tipica cremosità, ben espressa già nel nome, l’aroma dolce e la nota acidula, che insieme alla freschezza lo rendono il formaggio ideale per la farcitura della piadina romagnola, il secondo è espressione di una cultura diffusa nell’entroterra. Qui, nell’area di Sogliano al Rubicone, si è radicata infatti la tradizione di lasciar maturare le forme all’interno delle cosiddette fosse, ovvero grotte di tufo scavate nella roccia e opportunamente rivestite di paglia per conferire al formaggio la nota aromatica che lo caratterizza. Il Formaggio di Fossa di Sogliano DOP può essere prodotto a base di solo latte vaccino oppure misto, ovvero con l’aggiunta di latte ovino.

Qualcosa di simile riguarda anche una specialità tutta marchigiana come la Casciotta di Urbino DOP. Le percentuali di latte sono però capovolte rispetto al Formaggio di Fossa, dove prevale quello di provenienza vaccina. Per la Casciotta di Urbino è previsto, infatti, che la quantità di latte di pecora rappresenti tra il 70% e l’80% del totale. Prodotta in piccole forme cilindriche di circa un chilo, presenta una pasta morbida ed elastica e un gusto tendente al dolce. L’uso di latte vaccino e ovino, tipico dell’area a cavallo tra l’entroterra romagnolo e quello marchigiano, ci dà lo spunto per un ideale passaggio di testimone tra il Nord e il Centro-Sud Italia, dove l’arte casearia trova grande espressione soprattutto nei formaggi pecorini.

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Il regno del pecorino

Addentrandoci nel cuore dell’Italia, lo scenario cambia: le Alpi e le pianure del Nord lasciano spazio alle vallate e ai colli dell’Appennino. Qui si è sviluppata una cultura dedita alla pastorizia, con allevamenti di pecore da cui ricavare non solo la lana, ma anche il latte. Un latte meno abbondante di quello munto dalle vacche, ma dalle caratteristiche che lo rendono adatto alla produzione di formaggi dal gusto più deciso e intenso.

Toscano, Romano, Sardo: tanti modi per dire “pecorino”

Nella categoria dei pecorini si contano tante eccellenze territoriali, molte delle quali a denominazione protetta. A partire dal Pecorino Toscano DOP, la cui area di produzione coincide con l’intero territorio regionale: fragrante e sapido, si caratterizza per la consistenza compatta e tenace della pasta. A seconda della stagionatura, si distingue tra versione da tavola e da grattugia. Sempre in Toscana, più di nicchia è il pecorino di Pienza, che prende il nome dall’omonimo comune del senese. Ottenuto da latte pastorizzato di pecore allevate allo stato semibrado, si caratterizza per il retrogusto di vinaccia conferito dalla stagionatura di almeno 90 giorni in botti di rovere.
In Umbria spicca invece il Pecorino di Norcia del pastore, incluso nel registro PAT del MIPAAF. Legato al territorio della Valnerina e prodotto da latte ovino intero, presenta un sapore piccante, che tende ad attenuarsi col progredire della stagionatura (che va dai 120 ai 180 giorni).
Dall’Umbria al Lazio, dove non possiamo fare a meno di citare il Pecorino Romano DOP: pasta dura e compatta, dal sapore aromatico e leggermente piccante, è protagonista anche di piatti della tradizione romana, come la famosa pasta cacio e pepe. Nonostante il nome, tuttavia, il Pecorino Romano è un prodotto interregionale: l’area di produzione comprende, infatti, anche la provincia di Grosseto (in Toscana) e la Sardegna. Quest’ultima, in particolare, è terra storicamente avvezza all’allevamento ovino, cosa che si riflette in un’arte casearia improntata alla produzione di pecorini di gran pregio. Oltre al Pecorino Romano DOP, sono noti e apprezzati anche il Pecorino Sardo DOP (in versione dolce, dalla stagionatura compresa tra uno e due mesi, o matura, due mesi di stagionatura minima per un gusto più deciso e una pasta più dura e compatta) e soprattutto il Fiore Sardo DOP. La sua produzione è più limitata e riguarda soprattutto l’area centrale della Sardegna. Con l’avanzare della stagionatura acquisisce una struttura granulosa, che lo rende friabile al taglio e adatto anche come formaggio da grattugia o come ingrediente di condimenti come il pesto genovese. L’affumicatura, che i pastori sardi realizzano ancora con fuoco a legna, come da tradizione, gli conferisce la caratteristica nota aromatica che lo rende unico nel suo genere.

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Il Sud e i pecorini “canestrati” 

Altro protagonista nel panorama dei pecorini nostrani è il Canestrato DOP, una specialità pugliese dalle origini antichissime, che riguarda la provincia di Foggia e parte di quella di Bari. Prodotto a pasta dura non cotta, si caratterizza soprattutto per le striature verticali della crosta, dovute ai tipici canestri di giunco in cui le forme maturano. Lo stesso succede per il Canestrato di Moliterno IGP, una produzione lucana, che si distingue per l’uso di una piccola percentuale di latte caprino. Sempre in Basilicata, un’altra eccellenza ovicaprina è rappresentata dal Pecorino di Filiano DOP: pasta compatta e untuosa e sapore intenso, prende il nome dal piccolo comune sui colli a nord della provincia di Potenza. Mentre in Calabria protagonista è il Pecorino Crotonese, formaggio PAT prodotto nelle varianti fresca, semidura e stagionata, la Sicilia risponde col Pecorino Siciliano DOP. Prodotto nelle zone collinari e montane delle province di Messina, Ragusa ed Enna, si caratterizza per la messa a maturazione nei tipici canestri e per essere spesso arricchito con l’aggiunta di grani di pepe nero. Oltre alle versioni semistagionata (con maturazione compresa tra 30 e 60 giorni) e stagionata (maturazione: 90/120 giorni), si produce anche nelle varianti primo sale e “tuma”: la prima prevede una stagionatura di appena quindici giorni, la seconda viene invece consumata fresca, senza aggiunta di sale.

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Concludiamo con una specialità sicula più di nicchia, ovvero il Piacentino Ennese (meglio noto, nel dialetto locale, come “Piacintinu Ennìsi”). Prodotto da latte intero di pecora, a pasta dura e compatta, si caratterizza per l’aggiunta di zafferano e grani di pepe nero: elementi che ne caratterizzano sia l’aspetto, col singolare colore giallo-arancione irregolarmente punteggiato di nero, che il gusto. Nel 2011 ha acquisito il riconoscimento DOP, divenendo la millesima denominazione d’origine registrata dall’Unione Europea.

La cultura delle paste filate

Nonostante la vasta diffusione di allevamenti ovini, il Sud Italia presenta una realtà piuttosto ricca e variegata in fatto di formaggi. Il latte vaccino, in particolare, è qui protagonista di una cultura casearia che merita un capitolo a parte, quello delle paste filate. Rappresentanti di questa categoria sono: mozzarella, scamorza e caciocavallo. Il tratto comune è nella lavorazione della cagliata matura in acqua bollente: la caseina (proteina fondamentale del formaggio) si riduce così in filamenti lunghi e fini, che si prestano alla lavorazione manuale. Qui entra in gioco l’abilità del casaro, nel raggomitolare e intrecciare l’impasto in modo da modellarlo nella tipica forma a palla, a treccia o a nodino. Questo riguarda soprattutto le mozzarelle, che vengono poi messe a maturare nel liquido di filatura opportunamente scremato. I prodotti a pasta semidura, come le scamorze, e dura (caciocavallo, provolone), subiscono invece un ulteriore trattamento termico, per ottenere una pasta più asciutta e di conseguenza meno deperibile. Questo li rende più adatti alla stagionatura, differenziandoli così dalla mozzarella, che invece va consumata nel giro di pochi giorni.

Provolone, scamorza e caciocavallo 

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A parte rare eccezioni, come il Provolone Valpadana DOP, i formaggi a pasta filata più noti e apprezzati sono appannaggio del meridione. Si va dalla Scamorza Abruzzese PAT, realizzata sia nella versione fresca che appassita (dopo almeno dieci giorni di maturazione in appositi locali) al Caciocavallo Molisano. Il caciocavallo, così definito per la tradizione di legare le forme e lasciarle stagionare a cavallo di una trave, trova espressione in eccellenze regionali come il Provolone del Monaco, tipico della penisola sorrentina, il Caciocavallo Silano DOP (prodotto in Campania, Basilicata, Molise Puglia e Calabria soprattutto), il Caciocavallo Podolico, a base esclusivamente di latte di vacca Podolica, e il Ragusano DOP, orgoglio della Sicilia. A proposito di caciocavallo, negli ultimi anni si è diffusa una specialità protagonista del cosiddetto street food: si tratta del “caciocavallo impiccato”. L’intera forma viene legata con una corda all’altezza della tipica strozzatura apicale e appesa a circa una decina di centimetri da una griglia alimentata da braci ardenti. Il formaggio tende così a sciogliersi e viene fatto colare direttamente su una fetta di pane bruschettato. Una specialità semplice ma golosa, con la croccantezza tostata del pane a esaltare la cremosità filante del caciocavallo.

Burrata di Andria IGP, cuore cremoso di Puglia

Tra i formaggi italiani, specialità che merita un capitolo a parte è la Burrata di Andria IGP: un involucro di pasta filata, tipo mozzarella, con all’interno un cuore cremoso, costituito dagli sfilacci (detti “lucini”) e dalla panna ricavati dalla lavorazione della cagliata. Chiusa a sacchetto, con un nodo alla sommità, il suo interno è chiamato stracciatella e presenta un gusto dolce e burroso. Leggenda vuole che sia stata inventata nei primi decenni del ‘900 ad opera del casaro andriese Lorenzo Bianchino. In seguito a una forte nevicata che paralizzò le strade di collegamento tra le masserie dell’altopiano murgese e Andria, impedendo di portare il latte in città, si ingegnò per trovare un modo di prolungarne la conservazione. Da qui l’idea di racchiuderne i residui di lavorazione in un “contenitore” di pasta filata.
Simile alla Burrata di Andria è il burrino molisano. Generalmente ottenuto a partire dal latte utilizzato per produrre il caciocavallo podolico, si tratta di una pasta filata dalla tipica forma a pera e strozzatura apicale, che racchiude un ripieno di materia grassa del tutto simile al burro. Nasce infatti proprio come antico metodo di conservazione di quello che è da sempre uno dei grassi più utilizzati in cucina e, a differenza della Burrata di Andria, può essere sottoposto a breve stagionatura.

La tradizione della bufala 

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Protagonista delle specialità a pasta filata e considerata vera eccellenza casearia italiana è la Mozzarella di Bufala Campana DOP. Prodotto espressione di una cultura che ha visto, soprattutto nelle pianure costiere del versante Tirreno, svilupparsi l’allevamento di bufali. Quest’area, anticamente paludosa, ha creato le condizioni ambientali più gradite a questi mammiferi, da cui si trae un latte dalla concentrazione di grasso diversa da quello vaccino e con una maggior resa di caseificazione. La produzione di Mozzarella di Bufala Campana DOP riguarda soprattutto le province di Caserta e di Salerno, che insieme hanno rappresentato oltre il 90% delle 50212 tonnellate prodotte nel 2019. Ma l’area di produzione include anche le province campane di Napoli e Benevento, quelle laziali di Latina, Frosinone e Roma, la provincia foggiana e il comune di Venafro, in Molise, come specificato nel disciplinare di produzione del Consorzio di Tutela Mozzarella di Bufala Campana DOP. Dal colore bianco perlaceo e dalla pasta compatta ed elastica, può essere prodotta in varie pezzature e formati: da quello tondo, tipo palla, a trecce, nodini, ciliegie e ovali. Al taglio tende a rilasciare il suo siero, mentre in bocca si rivela una vera carezza di latte, dal gusto delicato e avvolgente. Esiste anche nella versione affumicata, che si ottiene sottoponendola all’azione del fumo di paglia. In questo modo, si modifica sia l’aspetto, con la superficie esterna che s’imbrunisce, tendendo al marroncino, sia il gusto, che assume quel tipico sentore di affumicatura.

 

Un viaggio indubbiamente goloso, quello che abbiamo intrapreso tra i formaggi italiani più tipici e che concludiamo qui. Per ovvie ragioni di sintesi, non abbiamo potuto né dilungarci troppo nelle descrizioni, né citarli tutti. Ci scusiamo anzitempo per quelli che non abbiamo menzionato. Immaginando però che abbiate anche voi uno o più formaggi del cuore, li avete trovati in questo articolo?

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