Anche i formaggi, come il riso, la pesca e la viticoltura, risentono della crisi climatica, soprattutto quelli artigianali prodotti in quota, con latte da animali al pascolo. Dal riscaldamento e dai fenomeni estremi che stiamo imparando a conoscere, infatti, dipendono conseguenze negative che minacciano la vita e la biodiversità dei prati dove vacche, pecore e capre si nutrono. Ma come stanno cambiando gli ambienti montani e cosa fare per adattare la produzione al nuovo scenario? Di questo si è parlato in una conferenza organizzata a Bra in occasione di Cheese 2023, il festival biennale di Slow Food dedicato al mondo dei formaggi. Abbiamo partecipato all’evento, raccogliendo testimonianze e riflessioni di esperti del settore.
Formaggi e crisi climatica: anche i pascoli stanno cambiando
L’impatto dei cambiamenti climatici sulla produzione alimentare si estende sempre più, modificando le condizioni ambientali di tanti ecosistemi diversi, e tra i più fragili ci sono i pascoli di montagna. Da questi luoghi dipende la sopravvivenza di intere comunità, dal punto di vista economico ma anche in termini di patrimonio storico e culturale. Di questa vulnerabilità e delle strategie per riadattare il settore caseario, in particolare quello artigianale e di qualità, si è discusso nella conferenza “Cronache del clima che cambia, anche sui pascoli”, in occasione della terza giornata di Cheese 2023, l’evento internazionale di Slow Food sui formaggi.
Come ha ricordato Federico Varazi, vicepresidente Slow Food Italia e moderatore del dibattito, “spesso dimentichiamo che ci sono zone più colpite dal Global warming, dove gli effetti sono più gravi e visibili, non soltanto a livello ambientale ma con ripercussione su molte attività umane legate alla montagna”. Primavere siccitose, estati sempre più torride e precipitazioni rare, più intense e concentrate, ma anche inverni secchi e quasi senza neve: con questi eventi pastori e agricoltori sono costretti a confrontarsi, ripensando le scelte e la realtà dei territori. Nelle ultime estati in molti alpeggi l’acqua è stata portata con le autobotti, mentre le erbe fresche e tenere dei pascoli diventano secche e legnose, poco adatte per nutrire adeguatamente gli animali. Anche la produzione di miele è danneggiata dall’alternarsi di siccità e piogge eccessive. Se i pascoli alpini sono gli ecosistemi più delicati, anche in Appennino l’ambiente sta cambiando.
Alla luce dei cambiamenti in corso, come è possibile dare un futuro alla pastorizia e alle altre attività fondamentali per l’equilibrio dell’ecosistema della montagna? L’analisi ha contestualizzato le dinamiche della crisi climatica nel contesto europeo, avvalendosi dei contributi di docenti e ricercatori, che hanno presentato soluzioni possibili e attuabili a seconda dei diversi ambienti dalle Alpi agli Appennini.
[elementor-template id='142071']Gli ambienti montani sono sistemi complessi che richiedono cura e attenzione
Se la situazione dei pascoli è in evoluzione, per comprenderla a pieno occorrono analisi scientifiche dettagliate, e in questo campo opera Sara Burbi, ricercatrice presso il Centro di Scienze delle Piante – Gruppo di Agroecologia della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, che ha contribuito al capitolo 13 dell’ultimo Report IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico). Dobbiamo sottolineare il fatto che “per la prima volta il rapporto dell’ONU ha considerato seriamente i sistemi complessi, che comprendono anche i pascoli. Si tratta di realtà con molti elementi diversi, e i ricercatori che studiano i cambiamenti climatici e le soluzioni per migliorare la produzione devono mettere insieme tutti questi fattori. Fino a poco tempo fa le proiezioni e gli scenari che venivano delineati si basavano principalmente su risultati che non consideravano adeguatamente la complessità di un sistema, seguendo ancora il paradigma delle monoculture e dei mono-allevamenti”.
“Fortunatamente – prosegue Burbi – ci si è resi conto che contrastare il cambiamento climatico è un lavoro molto articolato, che ha soluzioni complesse. Pertanto, abbiamo bisogno di un approccio a tutto tondo, ecosistemico, che metta insieme varie specializzazioni quali botanica, zootecnia e veterinaria, caratterizzate da studi e metodologie molto diverse. Nel capitolo sull’Europa abbiamo prima di tutto puntualizzato che il nostro continente ha zone pedoclimatiche assai differenziate tra loro, quindi si aggiungono livelli di complessità. Nel capitolo 13 del report IPCC abbiamo fatto il punto della situazione per cercare di capire quali soluzioni sono attuabili e quali sono già in atto in alcune zone. Uno degli esempi è l’arco alpino, dove il versante Nord è abbastanza diverso da quello Sud, che interessa il territorio italiano. Di conseguenza, cambia anche il comportamento delle aziende che operano nella parte settentrionale o meridionale”.
“Da questo punto di partenza – aggiunge Sara Burbi – se non si considera a sufficienza la complessità di tali sistemi, questi risulteranno meno produttivi. Il pascolo è un ambiente caratterizzato da una ricca biodiversità e da una stretta interazione tra i vari elementi del sistema. Dobbiamo puntare su questi ambienti, che possono portare a un miglioramento della condizione degli ecosistemi e vanno supportati anche dal punto di vista socio-economico e legislativo, e non solo da quello produttivo. Tutto questo incide sui tempi che si dovranno dedicare alla transizione di questi sistemi. Rispetto alle soluzioni, quelle che si basano su principi agro-ecologici e riprendono come punto di partenza la biodiversità, dove si trovano alberi, culture e animali, hanno anche una più alta probabilità di successo e un impatto positivo migliore. A livello internazionale si è finalmente compreso che è sbagliato continuare nell’ottica delle monocolture e occorre integrare le conoscenze di diversi settori. Potremmo quindi dire che il clima è cambiato tra gli scienziati. Ora il pascolo viene considerato come una delle possibili soluzioni per la gestione dei terreni, anche dal punto di vista socio-economico, perché mantiene comunità, porta avanti eccellenze e tradizioni e ha un approccio multidisciplinare”.
Testimonianze dai territori e progetti in difesa dei pascoli
La realtà quotidiana delle comunità montane guida le strategie di adattamento e contrasto ai cambiamenti climatici, e in questo importante collegamento tra allevatori e pianificazione opera Mauro Bassignana, direttore della Sperimentazione dell’Institut Agricole Régional di Aosta. Occorre quindi ascoltare di più i pastori, oggi figure che spaziano dal professionismo agli hobbisti. Il progetto di scienza partecipata “PastorAlp”, seguito da Bassignana, è stato condotto sia sul versante italiano che su quello francese, e rientra a pieno nelle iniziative di salvaguardia dei prati, tema centrale a Cheese 2023, per avere un foraggio di grande qualità e di conseguenza anche latte e formaggi di pari livello.
“In Val d’Aosta – puntualizza il ricercatore – il 98% della superficie agricola è dedicata a pascoli permanenti e l’allevamento transumante tra media montagna e alpeggi è da sempre il fondamento dell’agricoltura locale. Le testimonianze più antiche di utilizzo degli alpeggi risalgono all’età del rame, parliamo quindi della preistoria. Questo sistema condiziona tutti i dodici mesi dell’anno e non solo l’estate, e le difficoltà che si manifestano nella stagione calda si ripercuotono anche sulla gestione del sistema foraggero nel resto dell’anno. In estate in alcune zone si deve ritardare la partenza e gli animali restano più a lungo a fondovalle, mangiando fieno o erba che sarebbe dovuta diventare fieno per l’inverno successivo. Con il caldo in alpeggio l’acqua scarseggia e di conseguenza anche l’erba per le mandrie, che devono scendere prima intaccando le riserve per l’anno successivo. In questo modo le condizioni difficili dell’estate si pagano in inverno”.
“Questi fenomeni – prosegue Bassignana – devono essere studiati anche attraverso l’antropologia e le scienze economiche, con una visione d’insieme. Abbiamo cercato di comprendere il punto di vista degli allevatori e tutti i 45 produttori d’alpeggio del parco Gran Paradiso del lato Valdostano e piemontese sono stati intervistati nelle stagioni 2019 e 2020. Se li avessimo interpellati l’anno scorso forse avremmo avuto qualche risposta diversa. In quegli anni il cambiamento climatico non era in cima alle loro preoccupazioni, in quanto ve ne erano altre, come il ritorno del lupo e la gestione del carico burocratico, ad avere la priorità. I pastori si sono comunque resi conto che qualcosa sta cambiando dal punto di vista meteorologico, con un andamento che vede picchi e abissi, fra annate siccitose e altre troppo piovose, e inverni molto variabili l’uno dall’altro. Per molti produttori i fondi europei sono la ragione per la quale queste attività restano in piedi, perché altrimenti il guadagno ottenuto dalla vendita dei prodotti non sarebbe sufficiente. I prezzi, considerando il lavoro, dovrebbero essere più alti”.
In questa situazione, “si cercano anche soluzioni tampone, tra queste, la ricerca di pascoli nei pressi dei boschi o l’installazione di condutture d’acqua per irrigare i prati. Se l’andamento prosegue a questo ritmo, è possibile che molte zone diventino non più adatte agli animali da latte, e in questo scenario sono coinvolti i decisori politici. In Val d’Aosta si stima che fra trent’anni la maggior parte dei ghiacciai sarà sparita, quindi bisogna trovare soluzioni per avere riserve d’acqua in alta quota: se non possono essere i ghiacciai dovranno essere laghetti o piccoli bacini, intervento che non è la singola azienda a poter mettere in atto. Molto importante è la formazione degli operatori, che numericamente si stanno riducendo in modo drammatico, e insieme ad essa sono fondamentali la cooperazione e la creazione di reti”.
L’interazione tra piante e animali e la preservazione della biodiversità in Appennino
Tornando alla base del problema ecologico che si sta creando, dobbiamo considerare i cambiamenti in corso nel rapporto tra vegetali e animali, aspetto approfondito da Andrea Catorci, ecologo e responsabile del corso di laurea in Ambiente e gestione sostenibile delle risorse naturali dell’Università di Camerino. “Questa interazione è il punto nodale per comprendere i nuovi assetti climatici che si riflettono nei pascoli. Le Alpi si stanno avvicinando alle peculiarità climatiche dell’Appennino, che da sempre conosce la siccità estiva, con specie vegetali adattate alla carenza di acqua. I nostri studi provano che molte comunità ancora non percepiscono appieno gli effetti negativi dei cambiamenti climatici, mentre altre – quelle più produttive dal punto di vista zootecnico – invece sì”.
“In Appennino – aggiunge l’ecologo – il Global warming in realtà si sta manifestando come un riscaldamento invernale. Nei nostri studi abbiamo rilevato un innalzamento delle temperature medie annuali di 1,7 gradi centigradi, tutto a carico dell’inverno: non nevica più e le riserve d’acqua scarseggiano. Quindi, non abbiamo più un accumulo di riserva idrica che permetta in primavera di avere terreni intrisi d’acqua, fondamentali per un forte riscoppio vegetativo primaverile. Oltre a questo, un effetto curioso del riscaldamento è la morte per freddo degli insetti tipici delle praterie alto-appennine. L’assenza della neve, infatti, priva i terreni della protezione che, come una sorta di coperta, permette agli invertebrati di restare protetti durante l’inverno, mentre oggi i versanti sono esposti al vento e a grandi sbalzi termici. Senza queste piccole ma importanti creature, però, le piante non si possono riprodurre allo stesso modo, un fattore che si aggiunge ai tanti problemi già in essere”.
Catorci prosegue sottolineando che “occorre un’intelligenza gestionale e organizzativa per prevenire ed evitare l’abbandono dei territori, e parliamo di paesaggi che sono monumenti storici, con testimonianze di civiltà insediate sin dal Neolitico. La storia della cultura italiana è legata alle praterie dell’Appennino, che erano il motore economico dell’Italia centrale. L’economia del Rinascimento, infatti, trae le sue origini dalla pastorizia, un sistema culturale potentissimo che ha creato l’Italia per come la conosciamo, quindi non possiamo perderlo. Le tradizioni sono belle, ma gli allevamenti devono entrare nel terzo millennio, non possiamo più avere nostalgia del buon pastore di una volta perché quell’ambiente non c’è più, dobbiamo pensare a imprenditori che operano nella contemporaneità. La zootecnia nell’Italia centrale ha una storia di oltre duemila anni, la transumanza in Italia ha origini preromane, ma oggi dobbiamo renderci conto che è necessario cambiare per adattarsi al nuovo scenario. Se non sarà così e se si dovesse proseguire come in passato, in un decennio la zootecnia potrebbe sparire dall’Appennino”.
Per intervenire con consapevolezza e criterio, secondo Catorci, “innanzitutto occorre ribaltare il paradigma della normativa gestionale: chi deve fare le norme gestionali? Sono pastori e allevatori a conoscere meglio le necessità delle loro aziende e la realtà del territorio, quindi è indispensabile coinvolgerli al massimo, contribuendo a creare e sostenere delle comunità”.
Un nuovo modello di allevamento per gestire gli effetti del cambiamento climatico e quelli del pascolamento
Per la conservazione della biodiversità è fondamentale poter intervenire sulla gestione dei pascoli. Come puntualizza Catorci, infatti, “gli effetti dei cambiamenti climatici e quelli del pascolamento si sommano in negativo, e se la gestione non è corretta i danni possono essere catastrofici. Il rischio è avere pascoli poveri di biodiversità e non utili per nutrire il bestiame. In Appennino ogni 100 metri quadrati abbiamo mediamente 100-120 specie vegetali diverse, una tale ricchezza possiamo averla solo nelle foreste tropicali. Abbiamo a che fare con quello che viene definito hotspot di biodiversità, uno dei più importanti al mondo, che quindi va trattato con cura, attenzione e una profonda ricerca scientifica. I sistemi sono così complessi che non possono essere trattati solo sulla base delle tradizioni, dobbiamo mettere in campo un nuovo modello di allevamento per mantenere il presidio umano, economico e culturale insieme a questo patrimonio incredibile di biodiversità”.
Le conseguenze dei cambiamenti climatici sull’alimentazione degli animali
Dopo aver considerato le conseguenze della crisi climatica sui pascoli e sull’economia dei territori, non si possono trascurare gli effetti diretti sulla nutrizione degli erbivori alla base della produzione casearia. Il contributo di Paola Scocco, docente della Scuola di Bioscienze e Medicina veterinaria dell’Università di Camerino, si è concentrato proprio su questo aspetto. “L’erba dei pascoli va via via seccandosi, aumentando sempre di più il contenuto di fibra, che arriva a diventare lignina, una sostanza vegetale indigeribile. Il cambiamento climatico anticipa sempre più il momento in cui il pascolo è meno ricco, e quindi meno nutriente per gli animali. Si accorcia il periodo tra il momento di massima nutrizione e la fase in cui il pascolo si secca completamente. Di fatto questa erba diventa inutilizzabile, quindi l’animale ingerendola introduce nel suo stomaco meno sostanza, e soprattutto gran parte di questa è dura e coriacea. Questo tipo di alimentazione provoca un mutamento nel rumine degli animali, che deve adattarsi all’impatto meccanico dovuto allo sfregamento con queste erbe secche e legnose. Per difendersi, l’epitelio si ispessisce, ma aumentando le capacità di protezione diminuisce quelle di assorbimento dei nutrienti, peraltro in un momento in cui c’è già poca sostanza nel foraggio”.
I cambiamenti climatici, quindi, “stanno mettendo gli animali in una condizione di difficoltà, perché il pascolo non è più in grado di sostenere il benessere e lo stato di forma del bestiame, dal punto della salute e ai fini della produttività. Sono conseguenze drammatiche non solo per gli animali ma anche per gli allevatori, perché l’attività di pascolamento si può mantenere solo se è garantito un certo reddito aziendale o se viene messo in condizione dalle scelte politiche di ottenere un supporto economico che consenta di poter sostenere l’allevamento in montagna”.
La sostenibilità ambientale, come sottolinea la professoressa Scocco, “deve andare di pari passo con una sostenibilità economica degli allevatori. Con le nostre ricerche abbiamo cercato di mettere a sistema una gestione conservativa dei pascoli, per mantenere la biodiversità e il valore pastorale nel territorio con le sue basi culturali. Una gestione accurata passa anche per il mantenimento del benessere animale, che consente di avere una quantità e una qualità ottimale di prodotto, necessarie per il sostentamento economico delle aziende. Come abbiamo rilevato nei nostri studi, una soluzione può essere il pascolo turnato con recinti che vengono spostati, per uno sfruttamento migliore e un mantenimento nel tempo di questa risorsa, ma anche la turnazione delle specie animali”.
L’integrazione alimentare per compensare la perdita nutritiva dei pascoli
Oltre a quelle appena menzionate, Scocco aggiunge che “si possono mettere in pratica azioni gestionali dirette che coinvolgono gli allevatori, come le integrazioni alimentari. Come abbiamo sperimentato, fare arrivare gli animali meno affamati sul pascolo aiuta a ridurre la competizione fra gli esemplari nella ricerca di nutrimento e consente al rumine di mantenere lo strato assorbente più sottile ed efficace. Va considerato, inoltre, il contenuto nutrizionale finale dei prodotti che finiscono sul mercato. Nel momento di secchezza, infatti, il pascolo influisce negativamente sul latte, che perde alcune peculiarità chimiche, ad esempio diminuiscono i grassi polinsaturi a scapito di quelli saturi, e calano le vitamine A ed E, che hanno valore nutraceutico. Queste caratteristiche si ripercuotono nei formaggi, come nelle possibilità di vendere i prodotti a un prezzo maggiore”. Come abbiamo visto occupandoci di cereali, i cambiamenti climatici possono impoverire gli alimenti.
Tutto questo, conclude Scocco, “è possibile grazie alla ricerca multidisciplinare ma è necessario operare sull’informazione di tutti gli attori coinvolti. All’Università di Camerino abbiamo attivato il corso in Ambiente e gestione sostenibile delle risorse naturali, perché al momento non esistono professionisti preparati a gestire questi sistemi in maniera complessa. Gli operatori di settore, le associazioni di categoria e i consumatori devono sapere se un formaggio è stato preparato su un pascolo con le pecore libere. Acquistare un alimento con questi requisiti significa mantenere la biodiversità dei pascoli, il benessere degli animali, l’eredità culturale del pastoralismo e una maggiore attrattività a livello turistico dei territori. Curare il benessere animale significa anche evitare dei costi aggiuntivi e difendere il benessere dell’allevatore e dei consumatori che acquistano i prodotti”.
Come abbiamo visto, la gestione dei pascoli nell’era dei cambiamenti climatici è uno sforzo articolato, che deve tener conto di molte variabili per adattarsi ai nuovi scenari. Gli esperti intervenuti concordano sull’importanza di un approccio multidisciplinare e sul coinvolgimento di pastori e allevatori per ottenere risultati soddisfacenti nel tempo. A questo si aggiunge il ruolo determinante dei consumatori nella scelta dei prodotti, con la consapevolezza del valore ambientale e territoriale di cui anche i formaggi sono portatori.
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