“Da mangiare con gli occhi”: potrebbe essere questo il mantra che accompagna una delle professioni più stimolanti, eppure meno note al grande pubblico, del settore food. Stiamo parlando dei food stylist, letteralmente gli stilisti del cibo, ovvero coloro che – per conto di aziende e agenzie – si occupano di rendere appetibile un prodotto affinché possa essere fotografato o ripreso. Anche se non sempre ce ne accorgiamo, siamo circondati da immagini che nascondono lo zampino di uno di questi professionisti dell’estetica del cibo: sono quelle che si trovano, ad esempio, nei packaging degli alimenti, sulle pagine pubblicitarie, negli spot in TV e persino al cinema. Per capire di più di questo mestiere insolito e goloso, abbiamo intervistato una delle sue rappresentanti più affermate, la food stylist Paola Pozzi: ecco cosa ci ha raccontato del dietro le quinte del suo lavoro.
Food Stylist: cos’è e come lo si diventa
“Beh, diciamo che in linea di massima sono una delle prime rimaste ancora al lavoro”, così ci racconta Paola, una donna energica e ironica, con quarant’anni di esperienza alle spalle e collaborazioni eccellenti, in Italia e all’estero. Dopo una breve frequentazione della fotografia per le riviste (i cosiddetti redazionali), ha preso la strada della pubblicità vera e propria, senza più tornare indietro. È sua, ad esempio, “la patatina di Cracco” (formula con cui è stata bonariamente stigmatizzata la campagna pubblicitaria di qualche anno fa della San Carlo, con protagonista il famoso Chef), così come alcuni scatti per Santa Lucia, Ferrero, Giovanni Rana, Coca Cola…Tutte aziende che hanno saputo riconoscere la necessità di un food stylist e di valorizzarne la presenza sul set, cosa sempre meno scontata in un mondo in cui la food photography è ormai considerata a portata di tutti e figure recenti del panorama digitale, come food blogger e influencer, rischiano di surclassare i veri professionisti della mise-en-place.
Ma come si diventa food stylist? “Non ci sono delle formule precise che ti possono spiegare e preparare alle richieste del mercato, i clienti o le case di produzione” afferma Paola, “i corsi possono aiutare a spiegare il lavoro e a fornire alcune dritte utili, però poi è solo il campo che può dare le basi vere per riuscire ad andare avanti”. Insomma, il grosso si impara andando a bottega e creandosi il proprio bagaglio di conoscenze. “Il mio lavoro ormai lo fanno tutti” prosegue, “magari persone che hanno maggiore peso di me a livello di notorietà e potere mediatico” e che talvolta vengono preferite ai food stylist, perché il committente di turno subisce la fascinazione dei mezzi di comunicazione, anche se non sempre rimane soddisfatto della scelta. Esistono, infatti, alcuni tratti distintivi del vero food stylist, che lo contraddistinguono dagli altri operatori: il gusto e la conoscenza tecnica dei prodotti, “perché ci sono alimenti e modalità di presentazione che non sono così lineari e scontati come si potrebbe credere. Basta pensare alla carne in scatola: non è così semplice fotografarla in modo che sia bella!”. Ed è qui che entrano in gioco l’esperienza, l’ingegno e la creatività. Oltre che qualche trucco del mestiere.
Post produzione, trucchi del mestiere e nuove tendenze
Se, da un lato, non esistono metodi universali di trattare la materia, dall’altro è pur vero che ci sono escamotage piuttosto diffusi per raggiungere determinati risultati. La pasta, ci ha confessato Paola, si tende a usarla decisamente indietro di cottura e, per darle quel colore giallo che solo la pasta cruda possiede, si aggiunge un pizzico di zafferano per rinvigorirne un po’ il tono. “Personalmente sono abituata a lavorare molto con il vero, cioè utilizzando elementi tipici della cucina, miscelando le tecniche, ma ricorrendo anche a ossidanti e altri elementi chimici che già normalmente vengono impiegati nell’industria alimentare. Solo che io lo faccio in maniera un po’ più forzata per rispondere all’esigenza estetica del momento. Perciò, niente resine, acrilici, ecc… questo è un altro lavoro ancora, ovvero il creatore di mock-up, veri artisti che ci aiutano quando è impossibile lavorare con la materia al naturale”. E il vero è anche quello che Paola cerca di riprodurre evitando di affidarsi troppo alla post produzione che, soprattutto per i video, ha costi e tempi non sempre compatibili con il budget e le scadenze del progetto.
Da questo punto di vista, i food trend attuali favoriscono tale approccio: “non c’è più questa ricerca esagerata di perfezione” prosegue, “è ammessa una certa naturalità e quasi impurità, che permette di mantenere l’appeal e la golosità di certi alimenti”. Tra i cibi più complicati da trattare Paola cita, ad esempio, il cotechino, che definisce il suo “scoglio”, superato solo quest’anno a seguito di uno spot per Negroni (“mio cliente adorato”): proprio il rispetto delle caratteristiche del prodotto ne hanno fatto un soggetto “bellissimo, aggraziato, piacevole” e finalmente anche il cotechino e lo zampone le hanno dato soddisfazione, “grazie naturalmente a una sapiente regia che ha saputo valorizzare il lavoro di tutti”.
E anche se nella sua attività di food styling guarda soprattutto a quello che accade all’altro capo del mondo, traendo ispirazione dai magazine australiani per via della loro “mano molto fresca”, Paola Pozzi non può fare a meno di notare che parallelamente stanno tornando gli anni Ottanta con i loro fondali scuri e i piatti neri. La differenza rispetto ad allora? “Oggi si cerca un nero materico, come l’ardesia, la porcellana lavorata, magari grezza, opaca… mentre negli anni Ottanta erano in voga le superfici perfette, patinate, di un nero lucido e a specchio. Oggi invece è tutto un po’ più raw, crudo e con un carattere quasi tattile”.
Food Styling e rapporto con il cliente
Come in molti altri mestieri che interessano cibo e immagine, anche il food stylist deve fare i conti con i desideri del cliente e quelli del food “sono tra i più difficili da accontentare, soprattutto in Italia”. Secondo Paola, infatti, qui da noi il cibo è trattato con una sacralità che difficilmente si ritrova in altri posti ed è celebrato in maniera del tutto originale: pertanto, riuscire a rendergli giustizia soddisfando clienti (e consumatori) così esigenti non è affatto banale. “Il che si traduce spesso in una visione piuttosto tradizionale e in una serie di modalità abbastanza codificate” aggiunge Paola. In altre parole, i margini per la creatività sono comunque limitati e definiti su basi convenzionali, “per quello è difficile fare lavori un po’ particolari… però può capitare, soprattutto nel cinema”. Proprio il cinema è uno dei grandi amori di Paola, che lo ha frequentato in passato con Giuseppe Tornatore, e anche di recente, con un’altra collaborazione eccellente che l’ha entusiasmata e che ancora non si può svelare. “Il set cinematografico è una cosa veramente emozionante” dice, “e le produzioni americane sono impressionanti: è tutto tanto!”.
Gli italiani non sono gli unici per cui lavora Poala che, al contrario, ha numerosi clienti esteri, come Russi e Arabi Sauditi: adattarsi a cucine diverse dalla nostra diventa pertanto una necessità, assecondabile solo attraverso un lungo processo di documentazione, preparazione, prove ed errori. Poi, non sempre questo basta: “Magari ti danno una referenza di una foto, tu la riproduci e però salta fuori che la loro mamma la fa diversamente. Perché il cibo”, continua, “si porta sempre dietro un discorso emotivo, familiare, per cui non esiste un’obiettività… e invece nel nostro lavoro dobbiamo cercare proprio di essere obiettivi”. A suo parere, infatti, almeno in pubblicità “un piatto funziona se è il piatto di tutti”.
Il food styling aiuta o inganna il consumatore?
Giunti a questo punto, non potevamo non porre a Paola un paio di domande “scomode”: la prima, inerente proprio il rapporto tra la collettività e l’immagine del cibo che si fornisce. Quella del food style è una forma di informazione per l’acquirente finale oppure, nel suo generare scatti così perfetti, diventa una specie di inganno e di manomissione della realtà?
“Io credo che l’approccio tipicamente americano di utilizzare solo il prodotto reale sia una una forma di ipocrisia”: ci ha risposto Paola, dopo una breve esitazione. “Anche perché”, ha continuato, “per fare una foto non aprono una sola confezione, ne aprono duecento, finché non trovano il pezzo che cercano. Ma il consumatore non troverà mai quel pezzo così o ci sarà una percentuale molto bassa di probabilità”. È inevitabile, quindi, che ciò che riguarda le rappresentazioni pubblicitarie non può che avere uno scopo illustrativo e, in ultimo, commerciale, facendo leva anche su meccanismi tipici del marketing e del neuromarketing, come l’aspetto accattivante del cibo.
Allo stesso tempo, però, è vero anche tutte le aziende con cui ha lavorato Paola sinora cercano il più possibile di tutelare se stesse e il consumatore finale, soprattutto quando si tratta di ricette composte. “Mi è capitato di lavorare con aziende che ci tenevano molto a far sì che le mie composizioni rimanessero coerenti con il contenuto del loro prodotto, perciò, ad esempio, se nel tale pacco di pasta precotta e surgelata erano presenti solo sette gamberetti, io potevo impiegare esattamente solo quella precisa quantità. Per cui è vero che il food stylist migliora le cose, però si ha spesso alle spalle aziende che cercano di rimanere fedeli alle loro proposte”.
Food Style e spreco alimentare: un connubio (im)possibile?
Il secondo quesito che abbiamo rivolto a Paola interessa invece un altro punto altrettanto universale e attuale, ovvero come tutto questo lavoro fatto di estetica del cibo si possa conciliare anche con l’etica del suo impiego e, per certi versi, del suo spreco. “È sicuramente una questione che mi tocca e mi tocca da tanti anni” conferma Paola, che aggiunge: “Il problema, però, è che è molto difficile gestire gli avanzi”. Per la sua esperienza, infatti, non è semplice piazzare gli alimenti una volta aperti, nonostante la qualità evidente e il loro utilizzo limitato. E questo perché le associazioni – nel rispetto delle normative vigenti – accettano solo cibi sigillati sani e non porzioni aperte, anche quando questo cibo potrebbe essere destinato non agli uomini ma agli animali, come nel caso delle associazioni legate ai canili. “Questo mi mette in grande difficoltà, perché io posso anche essere molto attenta, ma magari per tagliare due fette di salume di un certo tipo apro quattro prosciutti”. Eppure, nemmeno le aziende produttrici possono riprendersi la materia prima utilizzata anche se solo parzialmente, perché le leggi sono piuttosto restrittive. Evidentemente, si tratta di una realtà che non può essere affrontata singolarmente, ma che avrebbe bisogno di un approccio sistematico e diffuso.
Prima di salutarci Paola ci ha svelato il progetto che, quando smetterà di occuparsi di food style a tempo pieno, potrebbe realizzare: “forse quando mi ritirerò, scriverò un libro sulla mia esperienza”. E lì, ne siamo certi, se ne leggeranno delle belle!
E voi, conoscevate questa professione?