Si chiamano “food shock” le perdite improvvise e, almeno parzialmente, imprevedibili di cibo come conseguenza di un evento straordinario. È il caso, per esempio, degli effetti dell’abbandono dei campi da parte degli agricoltori della zona per via di una guerra, ma anche i danni alle colture causate da un alluvione. Si tratta di oscillazioni fisiologiche, dal momento che guerre ed eventi meteorologici fanno parte della storia dell’uomo, ma la notizia è che i “food shock” stanno aumentando e che, soprattutto, aumentano i danni che ne conseguono. Meno cibo, dunque, e più sprechi che creano una situazione di insicurezza alimentare che riguarda tutti e cinque i continenti.
[elementor-template id='142071']Food Shock: più frequenti, più dannosi
È Slow Food a lanciare l’allarme, nel riportare i risultati di uno studio pubblicato sulla rivista Nature Sustainability. I ricercatori dell’Università della Tasmania hanno analizzato la produzione agroalimentare di 134 paesi per un periodo di 53 anni, e hanno osservato come la frequenza dei “food shock” sia aumentata progressivamente.
Richard Cottrel, uno degli autori della ricerca, ha spiegato all’Ansa che lo studio ha confermato che “gli shock produttivi per il cibo sono diventati più frequenti, e mettono in grave rischio la produzione globale. Abbiamo analizzato l’intero sistema, dall’agricoltura all’allevamento di bestiame alla pesca all’acquacoltura, trovando che le prime due sono leggermente più sensibili agli shock, e che alcune regioni, come l’Asia del Sud, sono più colpite di altre”.
Le conseguenze sono danni concreti sui raccolti, una perdita di capi di bestiame, una crescita degli sprechi alimentari, ma anche problematiche sociali non di poco conto. Per le persone coinvolte emergono delle naturali difficoltà di sopravvivenza che le possono portare a spostarsi, oppure a dedicarsi ad altre attività non sempre sicure. È il caso del Lesotho dove, secondo uno studio della Columbia University, è stato registrato un aumento dei casi di HIV concomitante con i periodi di siccità spiegati dal maggior numero di donne coinvolte nel mondo della prostituzione. Una crescita del mercato del sesso che facilita, sempre secondo i ricercatori newyorkesi, la diffusione del virus.
Cosa succede se nella pianura Padana non piove più
L’area più colpita dai “food shock” è il Sud Est asiatico, tuttavia la questione tocca da vicino anche l’Europa. La pianura Padana, cuore produttivo dell’Italia, è ormai diventato un punto di riferimento e di osservazione privilegiato per capire gli effetti del cambiamento climatico. I primi dati a proposito del 2019 non sono per nulla rassicuranti: la temperatura media è cresciuta di 2,5°C a fronte di un aumento medio globale di 1,5°C e la portata del Po a gennaio era del 70% inferiore rispetto alla media stagione.
Secondo l’Anbi (Associazione nazionale consorzi per la gestione e la tutela del territorio e delle acque irrigue), ci troviamo in una situazione di siccità ben più grave rispetto a quella del 2017 che era costata 2 miliardi di euro all’agricoltura dell’Italia Settentrionale. Inoltre, l’assenza di piogge e in generale di acque dolci fa sì che stia crescendo il grado di salinità del Po: attualmente si spinge all’interno per ben 9 km modificando gli ecosistemi che si sono sviluppati in acqua dolce. Dal punto di vista idrico, dunque, le prospettive non sono rosee. Si è osservato, infatti, come nell’ultimo secolo gli episodi e i periodi di siccità nella pianura padana siano diventati più frequenti e la preoccupazione è che il deficit idrico non colpisca soltanto le attività agricole, ma anche quelle industriali e la disponibilità d’acqua domestica.
I danni della primavera in anticipo
Altrettanto gravi e difficili da quantificare sono i danni causati dalle elevate temperature che hanno interessato tutta l’area settentrionale del paese nel mese di febbraio. Accade, infatti, che i germogli si risveglino in anticipo, ma che vengano poi danneggiati dalle gelate che possono ancora interessare tutta la pianura nei mesi di marzo e aprile.
Inoltre, questo tipo di cambiamenti porta anche a una variazione dei ritmi delle coltivazioni di ortaggi e frutta. Si rischia di perdere la regolarità della stagionalità con effetti ancora difficili sia da individuare che da quantificare. Quello che, invece è già stato misurato è l’aumento dei prezzi di frutta e verdura nei supermercati che, a febbraio, hanno segnato un +18%.
Un circolo vizioso tra cambiamento climatico, conflitti e food shock
Il primo passo per attuare una soluzione, assicurano gli esperti, è quello di prendere coscienza della situazione. Sempre nel caso della Pianura Padana, per esempio, la priorità dovrebbe essere riprogrammare la produzione agricola alla luce della possibilità che gli episodi di siccità aumentino. Mantenere un sistema intensivo diventerà non soltanto difficilmente sostenibile, ma anche dannoso per il suolo.
La situazione non si presta a semplificazioni, come dimostra il caso degli ulivi in Puglia dove c’è chi ipotizza il passato a una coltivazione intensiva per poter proteggere le piante dalla Xylella Phastidiosa e dalla siccità. Una scelta che porterebbe, però, anche a un’ulteriore perdita di biodiversità che, a sua volta, può compromettere la sopravvivenza stessa della specie umana.
Il rischio è quello che ci si trovi nel bel mezzo di un circolo vizioso in cui i food shock saranno sempre più frequenti e provocheranno danni sempre più gravi, in un contesto instabile e fragile. Non è un caso che laddove l’agricoltura è già stata colpita dal riscaldamento globale si siano già diffusi fenomeni come il land grabbing e il water grabbing. Suolo e acqua non sono più risorse collettive, ma beni di valore che possono essere tolte alle popolazioni che vivono e dipendono da esse per poter essere commercializzate. Una situazione che può generare conflitti, resi più aspri dalle conseguenze del cambiamento climatico e che accelereranno i processi migratori, spostando la conflittualità su una scala sempre più ampia.
La risposta di Slow Food è nella campagna Food for Change, presentata lo scorso autunno a Torino durante il salone Terra Madre e raccontata a Il Giornale del Cibo da Serena Milano, responsabile della Fondazione Slow Food per la Biodiversità. L’idea è di promuovere e valorizzare esperienze e tecniche di agroecologia, a sostegno e protezione della biodiversità. Un esempio è quello delle colture fuori suolo, idroponica e acquaponica, sistemi innovativi di agricoltura anche urbana che permetterebbero l’avvio di un percorso virtuoso. Altrettanto importante è la tutela dell’apicoltura, vero e proprio garante della biodiversità, molto spesso minacciata da pesticidi e altre sostanze chimiche.
Senza delle azioni di contrasto è possibile che gli effetti del cambiamento climatico sull’agricoltura cresceranno e che ci troveremo di fronte a “food shock” ancora più di frequente. Situazioni che potrebbero andare a modificare l’intera organizzazione produttiva, urbana e umana di interi territori. Conoscevate questo fenomeno?