Food influencer: è giusto fidarsi? Il punto dopo le inchieste

food influencer

I cosiddetti food influencer negli ultimi anni hanno acquisito popolarità fra un pubblico crescente di appassionati di cucina e gastronomia. Queste nuove figure, soprattutto grazie ai social network, si sono ritagliate una posizione da opinion leader, attirando l’attenzione degli investitori pubblicitari. Tempo fa abbiamo intervistato Anna Maria Pellegrino, presidente dell’Associazione italiana food blogger, che ha descritto le dinamiche di un settore in evoluzione. Questa volta, alla luce di recenti inchieste e dibattiti, ci concentreremo sull’attività degli influencer, spesso osteggiata dal giornalismo alimentare e dalla critica gastronomica professionale. Con una visione più completa, inoltre, esprimeremo alcune considerazioni sul rapporto fra comunicazione e mondo del food ai giorni nostri.

Da food blogger a food influencer

Il fenomeno dei food influencer rientra in un percorso che in poco tempo ha rivoluzionato la comunicazione alimentare, creando nuove figure difficilmente etichettabili rispetto agli standard dell’informazione professionale. I primi blog di cucina nascono dieci anni fa, quando sconosciuti appassionati iniziano a proporre ricette e consigli per destreggiarsi ai fornelli. Cavalcando abilmente l’espansione dei social network, però, i food blogger di successo riescono anche ad accreditarsi come personaggi pubblici, ai quali i lettori e i follower attribuiscono competenza e autorevolezza nel loro ambito. Quando il numero di seguaci su Web diventa considerevole, ecco che si può parlare di food influencer, che poi scrivono libri, hanno spazio in tv e sono invitati agli eventi culinari, con una visibilità sempre più ricercata dalle aziende per scopi pubblicitari. Su questo versante – ancora poco chiaro sul piano normativo e professionale – si è concentrata un’inchiesta di Report di alcuni mesi fa, che in seguito ha stimolato un dibattito peraltro già caldo.

food influencer

Food influencer: l’inchiesta di Report

La puntata di Report del 24 aprile scorso ha indagato nel dietro le quinte del mondo dei food influencer. L’attività professionale di queste nuove figure, non essendo ancora legalmente disciplinata, lascia sostanzialmente campo libero all’iniziativa individuale, con gli aspetti positivi e negativi che ciò comporta. L’inchiesta ha cercato di fare luce su questa indeterminatezza, focalizzandosi soprattutto sulla pubblicità – più o meno occulta – che può intrecciarsi a questa attività. Una grossa dote di seguaci sul Web, come detto, fa gola agli investitori, tanto che spesso la crescita e il successo dei food influencer è legato proprio alle partnership con determinate aziende. In rete non di rado si possono riconoscere siti o blog dove lo spazio dell’informazione è funzionale o quantomeno subordinato alla pubblicità di prodotti o servizi, aspetto che nel campo della cucina e della gastronomia è piuttosto frequente. L’inchiesta ha presentato alcuni dati relativi al mondo dei food influencer, eccoli in sintesi.

  • In Italia sono circa 400, prevalentemente donne.
  • Nel complesso, pubblicano mediamente 1.400 post al giorno sui social network e sono seguiti da più di 11 milioni di persone.
  • L’indotto pubblicitario che muovono si attesta intorno ai 6,3 milioni di Euro.

Un mondo senza regole?

Al netto delle implicazioni etiche, il problema sta nel fatto che i lettori possono considerare l’attività dei food influencer alla stregua del giornalismo. Questa confusione può diventare una vera ibridazione, nel caso in cui si curino rubriche non precisamente disciplinate all’interno di testate giornalistiche, un’eventualità che più frequentemente può verificarsi in televisione. Nel panorama della comunicazione contemporanea – sempre più liquida, personalizzata e personalizzabile – l’incontro e lo scambio fra stampa e blogging è comunque inevitabile e non necessariamente negativo.

Sul piano normativo, al momento, le differenze sono però nette. I food influencer non hanno l’obbligo di attenersi alle norme deontologiche della stampa, stabilite dal Testo unico dei doveri del giornalista, che vietano di prestare il nome, la voce e l’immagine per la pubblicità. Le testate registrate, invece, non possono pubblicare contenuti pubblicitari che non siano chiaramente dichiarati e ben riconoscibili dai lettori. Va detto che le forme di informazione commerciale dei content editor e del brand journalism, rispettando queste regole, sono legittime e disciplinate. Diversamente, la cosiddetta “nebulosa” dei blog amatoriali – che comprende anche i food influencer più popolari – resta uno spazio franco e autodeterminato. Bisogna precisare, però, che sono allo studio provvedimenti per regolare l’attività di web influencer, e non mancano le iniziative di controllo dell’Istituto di autodisciplina pubblicitaria (IAP). Allo stato attuale, comunque, il giornalismo professionale tende a vedere con diffidenza queste figure emerse dalla Rete.

Anche i giornalisti e gli chef, però…

vino

L’inchiesta trasmessa su Rai 3, tuttavia, non risparmiava neanche giornalisti e chef, mostrando un panorama sconsolante del giornalismo gastronomico, dove non mancano rapporti d’interesse o di favore con le aziende e i ristoranti. Le stesse guide più accreditate si gioverebbero di un circuito di legami con i produttori di alcuni noti brand alimentari, un sistema che coinvolgerebbe anche molte celebrità dell’alta ristorazione. In un precedente articolo abbiamo recensito il romanzo Gli sbafatori, nel quale Camilla Baresani accomuna food influencer e critici gastronomici in un quadro ben poco lusinghiero. Criticando questa visione, le aveva risposto la blogger Angela Maci in un’altra nostra intervista.

Sul piano etico e professionale, comunque, per i giornalisti questo comportamento opportunistico è certamente più grave, anche se apparentemente piuttosto diffuso, come si evidenzia nella puntata di Report. Questi temi sono stati dibattuti in occasione di incontri di settore, come il Festival del giornalismo alimentare e Doof – L’altra faccia del food. Quest’ultimo appuntamento, che rientra in un progetto di comunicazione più ampio, nasce proprio allo scopo di recuperare e valorizzare l’etica nel lavoro del giornalista gastronomico. Secondo questa visione più che condivisibile la discussione sul cibo e sulla ristorazione deve uscire dal circolo vizioso e viziato degli chef d’alto bordo, dei piatti da copertina, della cucina in tv e della malcelata pubblicità. Promotore di Doof è il “critico mascherato” Valerio Massimo Visintin, che per preservare la sua obiettività e il suo agire in incognito si mostra in pubblico solo bardato di nero, dalla testa ai piedi.

Giornalismo alimentare Vs Food influencer?

Lo stesso Visintin, saggiamente, sottolinea l’inutilità e l’anacronismo di una contrapposizione fra giornalismo e blogging. Le due categorie, come si accennava, tendono a contaminarsi sempre di più, nel bene e nel male. L’ambiente giornalistico, peraltro, non si è mostrato immune ai conflitti d’interesse e agli scambi di favori. Al di là delle classificazioni professionali, la mancanza di etica e di competenza possono essere trasversali: il discrimine resta quello della qualità. Le garanzie offerte dal giornalismo, ad ogni modo, vanno preservate e considerate come meritano.

Alta ristorazione e cucina in Tv: fuori dalla realtà?

Al netto della questione dei food influencer, occorre riflettere lucidamente sull’attuale narrazione del cibo, e come questa abbia contribuito a cambiare il settore, anche aprendo la strada a nuove professionalità. Il successo della cucina in tv ha contribuito ad aumentare la consapevolezza e la cultura alimentare, causando però anche gli effetti collaterali della sovraesposizione e della gentrificazione del cibo. In altre parole, sembra essere passata in secondo piano l’anima popolare e quotidiana del mangiare, in favore di un approccio artefatto e distaccato dalla realtà di tutti i giorni. L’essenza autentica della gastronomia, in particolare di quella italiana, sta invece nella semplicità, che può sposarsi ottimamente anche con la nuova consapevolezza e con l’aumentata sensibilità diffuse ai giorni nostri.

In cucina si fatica

 

chef influencer

La visibilità e l’immagine della cucina sui media ha modificato anche la percezione di questo settore nell’opinione pubblica, rendendo sempre più ambite le professioni a esso legate, e di conseguenza aumentando il numero di giovani che studiano per intraprenderle. In un’intervista, il presidente della Federazione italiana dei pubblici esercizi ci aveva parlato dei rischi che corre chi vuole aprire un ristorante. Sono moltissime, infatti, le attività troppo improvvisate che finiscono per chiudere dopo poco tempo, come sottolineava anche Visintin. Nel libro Carne trita, l’antropologo e cuoco “pentito” Leonardo Lucarelli descrive i lati peggiori del lavoro ai fornelli, celati dalla narrazione edulcorata che va per la maggiore. In un’intervista a Report, Lucarelli parla di lavoro nero, sfruttamento, paghe scarse e doppi turni come prassi accettata, per non parlare della diffusione di alcol e droghe come conseguenza dello stress. Secondo l’autore, saranno la noia dovuta alla sovraesposizione e la saturazione a placare la frenesia che ruota intorno al food. Se così accadrà, speriamo che l’intero settore ne esca comunque migliorato.

Dopo questo approfondimento sui food influencer, può essere interessante leggere il nostro articolo sui food blogger in tv.

Fonti:
Report
Testo unico dei doveri del giornalista
Istituto di autodisciplina pubblicitaria – IAP
Doof – L’altra faccia del food
Leonardo Lucarelli, Carne trita. L’educazione di un cuoco, Garzanti, 2016.
Camilla Baresani, Gli sbafatori, Mondadori, 2015.

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