Giornale del cibo

Farmageddon: la verità sugli allevamenti intensivi nel viaggio-inchiesta di Philip Lymbery

Il viaggio-inchiesta di Philip Lymbery alla scoperta di cosa si nasconde dietro la patina pubblicitaria della carne a basso prezzo parte dalla Ciwf (Compassion in World Farming), un’organizzazione fondata nel 1967 da Peter Roberts, un piccolo produttore di latte dell’Hampshire. 

La Ciwf, di cui Lymbert è oggi direttore generale, è un’organizzazione per il benessere degli animali da allevamento fra le più importanti al mondo, con sedi in Europa, Usa, Cina e Sudafrica, ma quando Roberts la fondò negli anni ’60 era non più grande di una famiglia di piccoli allevatori inglesi e non più rumorosa di un vagito di allarme nel frastuono assordante di un’industria in rapido sviluppo, gestita dalle politiche nazionali e supportata da aziende chimiche e farmaceutiche.

 

La lenta e inesorabile invasione dell’agricoltura intensiva

Allevamenti

Roberts non cedette alle lusinghe dei consulenti agricoli, secondo cui l’unica possibilità di salvare la sua azienda era quella di adottare i metodi intensivi provenienti dall’America, entrare nel circuito industriale, abbandonare i pascoli erbosi, i concimi naturali e la quotidiana lotta ad erbe infestanti e insetti per entrare a far parte della grande rivoluzione agricola. Ma per gran parte dei contadini e degli allevatori la trasformazione era già iniziata, il che significava per loro scegliere tra chiudere l’attività o spostare i polli e le mucche nei capannoni, farli crescere in fretta in spazi angusti e insalubri per rivenderne la carne a basso costo sugli scaffali dei nuovi luccicanti supermercati, sostituire il letame con fertilizzanti chimici e sfruttare al massimo ogni ettaro di terra inondandolo di sostanze che l’industria chimica non vedeva l’ora di vendere.

 

Come tutto è iniziato

Nel secondo dopoguerra alcuni dei paesi più ricchi al mondo misero in atto provvedimenti a favore dell’agricoltura, convertirono i mezzi di distruzione di massa dell’industria bellica, soprattutto chimica, in tecnologie per la produzione agricola di massa, approvarono pacchetti di leggi a sostegno dell’aumento della produzione e dello sfruttamento intensivo delle colture e degli allevamenti. Secondo Lymbery le intenzioni erano buone, ma, come spesso accade nei sistemi complessi, qualcosa deve essere sfuggita di mano. Perché un’industria che era nata con il nobile obiettivo di sfamare le popolazioni ha fatto così tanti errori? Che conseguenze ha avuto tutto questo per le persone, gli animali, la natura? Che prezzo paghiamo in realtà in termini di qualità del cibo, salute e sostenibilità ambientale quando un pollo, un hamburger o un salmone ci costano solo pochi euro?

A queste domande prova a rispondere l’autore, che per due anni ha visitato, insieme a Isabel Oakeshotte, responsabile per la politica del “Sunday Times”, alcuni dei siti più rappresentativi della vasta rete di coltivazione, allevamento e produzione intensiva del Pianeta, dai futuristici impianti caseari californiani ai super allevamenti di maiali della Cina, passando per il Perù, con le sue fabbriche di farina di pesce destinate a nutrire le vasche ittiche, e l’Argentina, il più grande esportatore al mondo di soia GM per la mangimistica, fino alle gabbie da batteria dei polli del Northumberland e agli allevamenti intensivi di salmone della Scozia.

 

Il vero prezzo del basso costo della carne

Due terzi dei settanta miliardi di animali che ogni anno ‘lavorano’ per noi – dice Lymbery – provengono da allevamenti intensivi. Sono trattati come dei macchinari, spinti continuamente oltre i loro limiti per produrre sempre di più, e consumano complessivamente un terzo della produzione mondiale di cereali, il 90% della farina di soia e il 30% del pescato. Ci sarebbe di che sfamare miliardi di persone. Molto spesso nel sistema intensivo il rapporto tra il cibo che entra e il cibo che esce è negativo sia in termini di quantità (ci vogliono tra le tre e le cinque tonnellate di pesci piccoli usati come mangime per produrre una sola tonnellata di trota o salmone d’allevamento) che di qualità (la carne di animali allontanati dall’erba del pascolo è più povera di nutrienti e più ricca di grassi saturi).

Gli spazi mefitici in cui vengono ammassati, inoltre, sono ambienti ideali per la proliferazione di malattie e per ovviare a questo viene impiegata una quantità di antibiotici pari alla metà di tutti quelli usati al mondo. Senza dimenticare che l’alta concentrazione di animali in uno spazio circoscritto produce una quantità di letame che la natura difficilmente riesce a smaltire.

In fondo a questa lunga catena c’è il cibo che arriva nel piatto e nello stomaco di un consumatore sempre più confuso e frustrato mentre tenta di destreggiarsi tra allarmanti notizie di mucche pazze e rassicuranti immagini pubblicitarie in cui altre mucche più fortunate pascolano tranquille su luminosi prati verdi in una graziosa fattoria gestita da un contadino paffuto e felice.

 

Le golden girls della California

La descrizione che Lymbery fa degli enormi allevamenti della Central Valley è a dir poco agghiacciante. Qui, a metà strada tra San Francisco e Los Angeles, a un paio di centinaia di chilometri dalle spiagge assolate della California e dai fasti patinati di Hollywood, ha sede una delle più imponenti concentrazioni al mondo di allevamenti intensivi di mucche da latte, un esercito di 1.750.000 ‘macchine’ stipate in miseri tuguri e attaccate a turno alle pompe per la mungitura. Poi, sfinite e prosciugate, vengono condotte al macello per trasformarsi in hamburger e bistecche. Oltre al latte, producono anche tanti escrementi quanti ne producono 90 milioni di persone, una quantità enorme di letame che è il risultato di mangime selezionato, diete concentrate e ormoni della crescita. Gli scarti alterati della loro misera esistenza si concentrano in gas serra e si infiltrano nell’acqua rendendola tossica e imbevibile a causa della chimica utilizzata per depurarla. Poco più in là, su un terreno che l’industria più che la natura ha voluto fertile, si estendono i mitici frutteti californiani: mandorle e arance che raggiungono le tavole di tutto il mondo.


Alloggi all’avanguardia’ per polli

Già, ma la California è lontana, o no? Secondo Lymbery la Central Valley è un modello facilmente esportabile. Per il momento l’Europa sta resistendo abbastanza bene all’invasione americana, ma anche qui da noi non mancano esempi ‘eccellenti’. Come le batterie di gabbie metalliche delle dimensioni di un foglio A4 in cui colonie di galline a stento riescono ad aprire le ali, non vedono mai il sole né sentono mai la terra fra le zampe. Se non fossero felici, dicono i sostenitori del sistema, non farebbero uova. In realtà sono state selezionate e programmate proprio per produrre, e di uova ne depongono senza sosta comunque. Quando Lymbery fu interpellato come consulente durante la presentazione di un nuovo tipo di gabbie all’avanguardia nel Northumberland, in Gran Bretagna, rimase sbalordito nel constatare che l’unico miglioramento proposto fosse un piccolo trespolo sul quale, secondo i costruttori, le galline sarebbero state felicissime di appoggiarsi.

 

Status di essere senziente

È anche un problema di percezione del problema. Che una gallina – così come qualsiasi altro animale – possa o meno essere felice è una preoccupazione che ha toccato i governi solo di recente: nel 1997 la UE ha riconosciuto ufficialmente agli animali lo status legale di “esseri senzienti” e quindi capaci di provare dolore. Da allora molti stati membri, tra cui l’Italia, hanno adottato le riforme in materia vietando l’utilizzo delle gabbie a batteria, ma la pratica è ancora largamente diffusa negli allevamenti abusivi oltre ad essere del tutto legale in molte altre parti del mondo.

 

Sistema o gestione?

La legge dell’industria, d’altro canto, è legata al profitto e difficilmente un agricoltore rinuncerà a delle tecnologie che gli garantiscono un’alta e costante produttività. Lymbery si chiede se il ‘male’ risieda nel sistema o nella gestione. Grande potrebbe non voler dire necessariamente cattivo e molte pratiche orribili avvengono sicuramente anche nei piccoli allevamenti. La chiave perciò potrebbe essere il singolo allevatore: come è gestita l’azienda e se le strutture sono adeguate per il numero di animali presenti. È però anche vero che alcuni sistemi hanno poco potenziale per un livello di benessere decente, come appunto le gabbie da batteria, un metodo talmente limitato e restrittivo che poco può fare l’allevatore per creare benessere e migliorare la condizione degli animali.

 

Questo non è un libro sui ‘poveri animali’…

Ma, come avverte lo stesso autore,  Farmageddon “non è un libro sui ‘poveri animali’ – per quanto polli, maiali, bovini se la passino male negli allevamenti intensivi. E neanche predica il vegetarianesimo. Non è un libro contro la carne, o contro gli Ogm in sé, né contro le multinazionali”. Questo atteggiamento di fondo, lontano da qualsiasi schieramento a priori, lo rende una testimonianza preziosa e un’analisi lucida e documentata che ci permette di riflettere, da cittadini e da consumatori, sui grandi paradossi che la tecnologia intensiva ha prodotto in pochi decenni. Ci pone di fronte delle domande fondamentali: questo sistema sta davvero portando l’intero pianeta al collasso, all’armageddon delle nostre illusioni di superproduttori, superconsumatori, superuomini invincibili al di sopra di tutti gli altri esseri viventi e della natura? E, soprattutto, cosa possiamo fare per contrastarlo?

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