Lo scorso anno, ha avuto grandissima risonanza internazionale la notizia del primo “negozio climatico” al mondo. Il progetto è stato portato avanti da Felix, il più importante marchio alimentare svedese, che ha pensato di aprire nel pieno centro di Stoccolma un negozio temporaneo, The Climate Store, dove i “prezzi” degli alimenti riflettevano il loro equivalente in anidride carbonica e dove i clienti pagavano con una speciale valuta ambientale stampata per l’occasione. Ognuno di loro aveva a disposizione un “budget” di 18,9 kg di CO2 da poter spendere, quantità pari al consumo settimanale personale massimo delineato nell’accordo di Parigi 2030. Un esperimento che ha avuto grande successo e che ha aiutato anche a riaccendere il dibattito su una questione importante, ossia la necessità di sensibilizzare maggiormente i consumatori sull’impatto ambientale di ciò che portano a tavola.
Un modo per farlo potrebbe essere iniziare a introdurre una vera e propria etichetta climatica, che mostri il “costo” degli alimenti in termini sia di emissioni di gas serra che di consumo di risorse naturali (soprattutto acqua e suolo), aiutando gli acquirenti a fare scelte più consapevoli. Uno strumento che, secondo alcune ricerche, potrebbe aiutare concretamente la transizione ecologica nel sistema agroalimentare.
Facciamo il punto sulla questione e vediamo alcuni esempi.
Gli effetti del sistema agroalimentare sull’ambiente
Fino a qualche anno fa, quando si pensava ai principali fautori del cambiamento climatico, era scontato pensare subito alle grandi attività industriali, come ad esempio quelle petrolifere, oppure ai sistemi di trasporto mondiali (aerei, macchine e così via). Oggi, invece, sappiamo che la realtà è molto più complessa, e che anche il sistema produttivo alimentare concorre direttamente a esacerbare questo problema. Ciò che decidiamo di portare a tavola, infatti, non ha un impatto soltanto su di noi a livello nutrizionale, ma anche sull’ambiente.
Stando a uno studio del Gruppo Consultivo per la Ricerca Internazionale sull’Agricoltura (CGIAR), i food system, ossia i “sistemi alimentari”, sono responsabili per circa il 30% delle emissioni di gas serra. Significa quindi che l’intera filiera del cibo – dalla coltivazione e allevamento, dalla lavorazione all’imballaggio, dal trasporto fino al consumo e allo smaltimento dei rifiuti – produce all’incirca 13,7 miliardi di tonnellate di gas serra. Quota destinata ad aumentare, per sostenere la rapida crescita demografica che, secondo le stime, nel 2050 dovrà soddisfare quasi 10 miliardi di persone. Una ricerca di Science ha mostrato anche in che percentuale le diverse fasi del sistema agroalimentare contribuiscono all’impatto climatico, la filiera legata ai prodotti di origine animale (carne, uova e prodotti lattiero-caseari) è la ragione principale dietro questi effetti indesiderati. Dando qualche numero: nel 2017, secondo il WWF e la FAO (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura), per la produzione di un chilo di carne bovina svizzera venivano emessi da 12 a 13 chili di CO2 equivalenti, contro gli 0.7 chili di CO2 previsti nel caso delle lenticchie per lo stesso quantitativo.
Oltre alla filiera della carne, però, anche lo spreco alimentare e l’utilizzo di fertilizzanti e pesticidi chimici sono individuati come principali responsabili del climate change. A questo proposito, lo sapevate che produciamo più cibo di quanto ne servirebbe per sfamare l’intera popolazione mondiale? Eppure, l’insicurezza alimentare continua a colpire tantissimi Paesi al mondo, soprattutto Africa e Asia, e circa un terzo di tutto il cibo prodotto viene buttato.
L’agricoltura biologica e una dieta per lo più vegetale sono viste come possibili soluzioni per salvaguardare il suolo e la biodiversità degli ecosistemi e, quindi, anche la sicurezza alimentare mondiale come evidenziato dalla FAO.
Le “etichette climatiche” aiutano a responsabilizzare il consumatore? I risultati della ricerca danese
Insomma, appare chiaro che qualcosa non sta funzionando come dovrebbe e che è fondamentale iniziare a essere più consapevoli del cibo che si compra e di quello che comporta lungo tutta la filiera. Ma come fare a sensibilizzare i consumatori? Uno strumento potrebbe essere proprio la climate labeling, ossia l’etichetta climatica. A dirlo, un ristretto – ma importante – studio dell’Università di Copenhagen e dell’Università svedese di Scienze Agricole, che ha evidenziato come si ridurrebbe notevolmente l’emissione di CO2 se i consumatori fossero realmente a conoscenza dell’impatto ambientale dei cibi, perché sarebbero portati a cambiare le proprie scelte d’acquisto.
Come si è svolta la ricerca? A 803 partecipanti è stato chiesto di scegliere tra sei alternative di carne macinata e una miscela a base vegetale, ognuna delle quali non presentava però l’etichetta climatica. In un secondo momento, i ricercatori hanno domandato ai partecipanti se volessero o meno conoscere le informazioni sull’impatto climatico dei prodotti scelti, e il 33% di loro ha risposto negativamente. In un terzo momento, a tutti loro è stato chiesto di rifare le proprie scelte, questa volta sulla base però dei prodotti etichettati con tutte le informazioni a disposizione. È interessante notare quindi che a questo punto il 13% dei partecipanti ha cambiato prodotto, ma ancora più interessante è il fatto che ben il 32% di chi ha voluto sapere subito quale fosse l’impatto climatico del tipo di carne ha scelto immediatamente prodotti meno dannosi.
Secondo la ricerca, quindi, una persona su tre non desidera conoscere l’impatto climatico del cibo che mangia, ma, una volta che ne è informata, è portata a cambiare prodotto scegliendone uno meno pesante sull’ambiente.
Come funziona l’etichetta climatica
Di cosa tiene conto l’etichetta climatica? Secondi i ricercatori danesi, dovrebbe fornire rigorosi dati scientifici calcolati sulla base di ogni aspetto della filiera produttiva, quindi dall’impatto dei fertilizzanti chimici dell’attività agricola convenzionale e dei gas emessi negli allevamenti intensivi, alla trasformazione alimentare, fino all’imballaggio e al trasporto.
Sulla scia di questo, in Francia è stato introdotto recentemente l’Ecoscore, un sistema di etichettatura a semaforo che riprende il modello del Nutriscore. Il consumatore si può trovare davanti a cinque lettere di cinque colori differenti, ciascuna con un significato: la A verde scuro identifica ovviamente gli alimenti più ecologici, mentre la E rossa quelli meno amici dell’ambiente. Il punteggio è dato dall’analisi del ciclo vitale del prodotto e di altri aspetti del sistema produttivo, come il fatto di essere o meno biologico, equo-solidale, sostenibile, e gli impatti ambientali legati all’imballaggio e al trasporto.
L’etichetta climatica potrà diventare realtà per tutta l’Unione Europea?
La risposta è: sì. Anche se oggi i modelli di etichetta climatica in vigore sono pochi, in un prossimo futuro, questa speciale etichettatura potrebbe effettivamente diventare una realtà anche in altri Paesi europei. Stando a Carbon Trust, ong nata con l’obiettivo di accelerare la transizione verso un’economia sostenibile e a basse emissioni di carbonio, il 67% degli europei vorrebbe conoscere l’impronta ambientale dei cibi. Oltre due terzi dei consumatori in Europa sarebbero quindi già a favore dell’introduzione dell’etichettatura carbonica, che potrebbe migliorare la loro esperienza di acquisto. Inoltre, recentemente è stata registrata dalla Commissione Europea un’iniziativa dei cittadini europei che chiede di imporre l’uso dell’Ecoscore tra tutti i Paesi membri dell’Ue, perché, come si legge in una nota:
- si vuole permettere ai consumatori di fare scelte ponderate che tengano conto dell’impatto ambientale dei prodotti in vendita, sulla base di un’indicazione chiara e affidabile;
- allo stesso tempo, incoraggiare i produttori a ridurre l’impatto ambientale dei loro prodotti, favorendo invece quelli più rispettosi dell’ambiente;
- introdurre un’etichetta uniforme basata su un calcolo standardizzato sull’intero territorio europeo, così da evitare confusione alla luce della diffusione delle etichette ambientali.
Infatti, ciò che emerge come assolutamente necessario, è un’armonizzazione della normativa a livello europeo, che dia chiare direttive. Purtroppo, i tentativi che si stanno portando avanti oggi non mostrano ancora l’impronta ecologica in termini precisi, quindi la CO2 emessa per produrre quegli alimenti, i rifiuti generati, i km percorsi, la quantità e la fonte di energia impiegata.
Fondamentale è quindi una linea guida comunitaria, ma possiamo dire che l’etichetta climatica, a patto che sia esposta in maniera chiara e intuitiva, e che tenga conto di un calcolo completo, reale e basato su solide prove scientifiche, potrebbe rappresentare un potente strumento educativo dei consumatori, portandoli a fare scelte d’acquisto più consapevoli.
Che ne pensate? Vorreste sapere l’impatto ambientale del cibo che comprate?