Se il fruttivendolo vende solo verdure, allora si può chiamare “verduraio”, o forse “verdurista” o addirittura “verdumaio”? La cheesecake è femmina perché è una torta oppure maschio perché è al formaggio? La bellezza della lingua è la sua fluida capacità di modificarsi, adattandosi ai cambiamenti sociali e culturali, ma ha le sue regole e per aiutarci a non perdere il filo esiste l’Accademia della Crusca (la più importante istituzione italiana dedicata a filologia e linguistica). E proprio alla prestigiosa istituzione si rivolgono gli italiani in preda ai dubbi in cucina o al ristorante, tant’è che i ricercatori e gli esperti dell’Accademia sono intervenuti per dirimere diverse annose questioni a proposito degli errori linguistici sul cibo. Quali? Scopriamolo insieme ripercorrendo alcuni dei dubbi più comuni per imparare tutti a parlare come mangiamo, ovvero bene e con gusto!
[elementor-template id='142071']Errori linguistici legati al cibo: 5 dubbi comuni e come risolverli
L’Accademia della Crusca non è nuova a vicende che intrecciano la linguistica con ciò che finisce nel piatto. L’esempio più classico e famoso è quello della disputa tutta siciliana tra l’arancino e l’arancina, risolta dai linguisti spiegando come siano di fatto accettabili e corrette entrambe. Dipende tutto da dove ci troviamo, se a Palermo oppure a Catania, e se, inconsapevolmente, facciamo riferimento al “frutto dell’arancio”, dunque arancino, oppure all’arancia, arancina.
Melograno, melagrana e gli altri
È curioso che proprio il frutto dell’abbondanza, il melograno, abbia una tale varietà di nomi per identificarlo. Infatti, in varie parti d’Italia è conosciuto anche come melagrana, melograno, mela granata, melo granato, pomo granato, magragno, melaingranata, per citare solo alcune opzioni. Ma quali sono quelle accettate e corrette? Innanzitutto, gli studiosi della Crusca riconoscono alcune differenze geografiche: come accade per l’uso di arancio o arancia, al Nord si tende a utilizzare il maschile per indicare il frutto di un albero, mentre al Sud prevale il femminile.
La confusione, però, è tale che anche molti dizionari hanno tramandato tutti questi nomi arrivando a individuare come “legittimo” melagrana, ma qualcosa sta cambiando. Se, infatti, in secoli di storia, melograno, il diretto concorrente, non è mai riuscito a imporsi, in questi ultimi anni sta prendendo piede per ragioni commerciali e artistiche. Infatti, da un lato le aziende produttrici di succhi di frutta sono collocate principalmente nel Nord Italia dove melograno è il termine più utilizzato, dall’altro, nell’iconografia pittorica la melagrana o melograno sono riproposte in maniera ricorrente: la Crusca sottolinea che questa ricorrenza, anche nella denominazione, ha fatto sì che tutte le altre alternative dialettali si avviassero verso il disuso.
E il plurale? Pochi dubbi: melagrane e melagrani.
Gattò e gateau sono la stessa cosa?
Alzi la mano chi non ha mai pensato che “gattò di patate” altro non fosse che una storpiatura del francese “gateau”. È un errore comune, tant’è che anche in questo caso è intervenuta l’Accademia della Crusca a sottolineare che “gattò” è a tutti gli effetti un termine tecnico della gastronomia italiana, noto e impiegato già prima del 1775. Altrettanto comprovata è la derivazione dal francese, mentre il raddoppiamento della “t” è caratteristica linguistica tipicamente partenopea. Come è arrivata la cucina francese a Napoli? È presto detto: il merito è tutto degli chef francesi alla corte degli Asburgo, presenti in città alla fine del Settecento.
Gattò e gateau, però, non sono sinonimi. Nel corso dei decenni, infatti, si è cristallizzata una specializzazione nell’uso dei due termini. Il primo, infatti, indica uno specifico tortino di patate a base di uova, formaggio e altri ingredienti preparato al forno; il secondo, invece, è un termine generico che indica una torta o una focaccia, utilizzato talvolta anche per i dolci.
“Vado dal verduriere”
Anche in questo caso, Regione che vai, usanza che trovi. Se l’uso del termine fruttivendolo mette tutti d’accordo, quando si parla di sole verdure sono tanti i nodi che vengono al pettine. Secondo quanto riportato dai risultati del questionario LinCi “La lingua delle città”, la suddivisione è la seguente:
- verdumaio è usato solo in Sicilia e parzialmente diffuso in tutto il Meridione;
- verduriere uniformemente al Nord;
- verduraio nel Centro Italia e in Sardegna.
Tra i tre, il termine più antico è con tutta probabilità “verdumaio”, diffuso già nell’Ottocento, mentre gli altri termini sono più moderni e sono comparsi in libri e riviste solo durante la prima metà del Novecento. Manca tutt’ora però un accordo nazionale, tant’è che la Crusca conclude così: “Verduraio e verduriere, sebbene siano parole morfologicamente ben strutturate e di facile derivazione semantica, rimangono ancora etichettate come regionalismi e dunque si dovrebbero privilegiare forme come fruttivendolo, riconosciuto su tutto il territorio italiano, o erbivendolo, che comunque risulta, rispetto a quest’ultimo, meno vitale. Ma con la crescita dei grandi supermercati nei centri commerciali, il composto metonimico ortofrutta (che indica non tanto il venditore, ma piuttosto il negozio, o meglio il reparto, in cui si possono acquistare frutta e ortaggi) sembra destinato a prevalere.”
“Il” o “la” per i dolcetti americani?
Ormai sappiamo che la cheesecake ha origini olimpiche, oppure che anche la storia dei pancake non è propriamente a stelle e strisce. Tuttavia restano tanti dubbi su come utilizzare correttamente in italiano tutti i termini di origine straniera, soprattutto quando si parla di dolci diffusi e molto amati in tutta Italia. Un’incertezza assolutamente lecita perché, per ammissione della stessa Accademia della Crusca, non esiste una regola univoca: il trucchetto è chiedersi se prevale l’idea che ciò che stiamo per mangiare sia una torta oppure un dolcetto.
Ecco qualche esempio:
- LA apple pie;
- IL bagel;
- IL brownie;
- LA carrot cake;
- LA cheesecake;
- IL cupcake;
- IL donut;
- IL muffin;
- IL pancake.
Adattarsi alla forma più utilizzata e che “suona meglio” è, dunque, una buona soluzione, mentre è sempre un errore fare il plurale di questi (e di tutti i termini stranieri). Si tratta, infatti, di termini invariabili che restano identici qualsiasi sia la quantità a cui facciamo riferimento. In altre parole, “un pancake, dieci pancake” è corretto, mentre “una cheesecake, due cheesecakes” è scorretto.
Appetizers per apericena
Il termine “apericena” è nato nel 2002 e in meno di 20 anni si è conquistato uno spazio tutto suo tra le parole più detestate della lingua italiana, ma è riuscito ugualmente a diventare di uso comune. Ancor più ironico, per gli appassionati del mondo del food, è scoprire che si tratta di quella che gli studiosi definiscono una parola “macedonia”, ovvero frutto dell’unione tra due termini distinti, in questo caso “aperitivo” e “cena”. Altri esempi sono metalmeccanico o discopub.
Sebbene tutti siano concordi sul detestare questa parola e sul suo significato, non c’è la stessa armonia quando è necessario definire il genere di apericena: maschile o femminile? Secondo Il dizionario Devoto-Oli 2018 è un sostantivo maschile invariabile, mentre lo Zingarelli 2018 ammette l’utilizzo anche al femminile. Una confusione che, secondo la Crusca, è data dal fatto che non è ancora ben definito quali dei due elementi, se il bere dell’aperitivo o il mangiare della cena, prevalga in questo appuntamento ancora “nuovo”. Si potrebbe, allora, far prevalere la riflessione del professor Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca che, oltre ad apprezzare questo neologismo macedonia, sostiene che userebbe “il maschile […] perché se fosse una cena ridotta sarebbe un qualcosa di sgradevole; è un aperitivo arricchito, quindi è preferibile il maschile.”
Svelati gli arcani e risolti alcuni dei dubbi più comuni, non ci resta che arricchire il vocabolario e utilizzare alcuni di questi aneddoti alla prossima cena tra amici. Ci sono altre questioni irrisolte? Scrivetecelo nei commenti!