Roma è una città davvero particolare, che offre spesso la possibilità di potersi lasciare alle spalle tutte le sue contraddizioni semplicemente percorrendo pochi metri: esistono tanti luoghi che sembrano portarti altrove, in atmosfere che nulla hanno a che vedere con il caos metropolitano della capitale. Uno di questi è Villa Laetitia, il palazzo della famiglia Fendi, che ospita il ristorante “Enoteca La Torre”. Il breve spazio che separa questo posto dal trafficato Lungotevere rende davvero sorprendente la sensazione di pace e tranquillità che si può vivere nel giardino esterno, tra sedute in ferro battuto, piante e il cinguettio degli uccellini. Proprio qui, in una location che sembra ideale per girare le scene di un film, mi accoglie Domenico Stile, lo chef che da 3 anni guida la cucina di un locale che ha saputo meritare il riconoscimento di una stella da parte della guida Michelin.
Domenico Stile: gli inizi in famiglia
Una storia di successo ha molto spesso un inizio legato all’ambito familiare o a un lavoro portato avanti da generazioni, tramandato attraverso le interpretazioni e le evoluzioni che i più giovani hanno introdotto. Anche Domenico non sfugge alla “legge della famiglia”, ma in questo caso il suo primo approccio con il mondo della cucina è davvero particolare: “se ora sono qui, lo devo principalmente a mio zio, che adesso ha 60 anni e ancora lavora nel mondo della ristorazione; alcuni anni fa, quando ero bambino, lui si cimentava con l’intaglio dei vegetali e di altri ingredienti per la realizzazione di vere e proprie sculture”.
Vedere lo zio trasformare zucche, angurie e forme di parmigiano in piccole opere d’arte folgora il giovanissimo Domenico, che decide di cimentarsi con questa particolare forma d’arte. Prima piccole sculture realizzate con la margarina (“che è più resistente del burro alle alte temperature”), quindi la partecipazione ad alcuni concorsi e il conseguimento della medaglia d’oro per la “Cucina artistica under 23” agli Internazionali d’Italia.
La formazione e le prime esperienze
Il suo primo mentore, lo zio, è la persona che continua a influenzare Domenico anche successivamente, suggerendogli di approcciare la cucina ad un livello superiore, per poterla trasformare in un lavoro duraturo nel tempo. Si adopera quindi per fargli cambiare classe nell’istituto alberghiero che frequenta e fare in modo che il professor Cosentino (“l’inventore dello Scialatiello”) possa occuparsi della sua formazione. “Una persona decisiva – lo descrive così Domenico -, che aveva un’impostazione particolare, faceva lavorare gli alunni come la brigata di una cucina professionale”.
Seguendo i consigli del suo professore, lo chef Stile decide di iscriversi all’università, ma dopo 5 esami al corso di laurea in Tecnologie alimentari deve desistere, perché lo studio mal si concilia con il lavoro in cucina. “Oggi non mi pento di questa scelta, perché vedo alcuni miei amici, studenti brillanti, che hanno conseguito la laurea e si ritrovano a fare i pizzaioli a Londra, dopo esser stati sfruttati come tecnologi per soli 800 euro al mese”.
Bottura, Baiocco e Vissani
Aver lavorato per banchetti e grandi eventi, essersi ritrovato a fare “lavori da battaglia” ha fatto capire a Domenico che cercava un altro tipo di approccio, la possibilità di esprimere con una cucina differente, derivante dalla meticolosità che il professor Cosentino gli ha trasmesso: “curo ogni particolare, controllo che i ragazzi della brigata siano attenti ; non bisogna essere trasandati, altrimenti un cliente non avrà voglia di tornare in quel ristorante”.
Vivere la ristorazione a tutto tondo gli ha fatto capire cosa prendere da determinate esperienze e in che direzione andare: “ho preferito andar via dall’Osteria Francescana dopo il periodo di stage, nonostante Massimo Bottura volesse trattenermi per affidarmi la partita dei primi, perché trovo si faccia solo ristorazione, del miglior livello possibile, ma fine a sé stessa, e sono andato a Ischia per imparare ogni tipo di situazione relativa alla cucina. Ho appreso come fare le colazioni, il servizio per le camere, la spesa per i banchetti, conoscendo le giuste quantità da prendere”. Ogni singola esperienza che ha fatto è stata scelta in prima persona, dagli inizi a 18 anni al Buco a Sorrento (1 stella), dove già gestiva da solo una partita, a quelle successive. “Mi ha sempre appassionato la cucina di Baiocco, che da qualche anno ha 2 stelle, perché lui c’è stato davvero in cucina, ha fatto battaglia, noi del settore sappiamo chi si è sacrificato, e io avrei avuto piacere di lavorare con lui”.
Domenico Stile ha fatto anche altri stage in posti che voleva conoscere, come da Crippa, dove ha trovato una cucina che punta sul vegetale, che non sentiva sua, ma voleva comunque carpirne la filosofia e ha scoperto ricette che ha poi adattato al suo stile. Da Vissani a un “locale da battaglia” a Capri (400-500 coperti al giorno), quindi Crippa, Bottura e Cannavacciuolo, e infine Allinea a Chicago, dove “non ho imparato molto dal punto di vista culinario, perché non hanno il nostro gusto, alcune cose erano buone, altre troppo differenti. Ma ho appreso la mentalità, l’organizzazione, come far funzionare un ristorante”.
La “scuola” Di Costanzo
“Sono affascinato dal metodo di Nino Di Costanzo: i suoi piatti sono troppo strutturati, anche barocchi, personalmente non li riprodurrei, ma per me il suo approccio è il migliore”. Stile crede nell’insieme del piatto, che deve lasciare qualcosa di piacevole, “nella mia delizia al limone ci sono anche zafferano e wasabi, occorre personalizzare, non amo i piatti dove devi pizzicare le varie salse”. Forse estremo nel modo di intendere le cose, in 1 anno hanno deciso di andare via 26 persone, lo chef Di Costanzo ha però saputo trasmettere tanto a Domenico, che si è ritrovato a gestire 30 coperti da solo al Mosaico nel periodo di luglio e agosto: “Entravo alle 6 di mattina per fare i ravioli, un’esperienza che mi ha formato”, commenta.
Bottura lo voleva come capo partita dei primi all’Osteria Francescana dopo 1 solo mese di stage, e la cosa provocò le invidie di chi era lì da tanto tempo. “Avevo dato la parola a Di Costanzo, però, bisogna essere uomini prima ancora che professionisti, non potevo tirarmi indietro. Oggi alcuni ragazzi di 25-26 anni non si presentano a lavoro perché hanno problemi con la fidanzata, una cosa inconcepibile”. A 24 anni Stile era in un 2 stelle di un albergo 5 stelle, come secondo chef, imparando a gestire ogni cosa, anche costi e personale. “Lui (Di Costanzo, ndr) ha fatto il mio nome per farmi venire qui”.
L’arrivo all’Enoteca La Torre
“Sono arrivato all’Enoteca La Torre a 26 anni. Ho accettato principalmente per istinto, pensandoci oggi posso dire che forse era ancora presto, ma sono sempre stato ambizioso”. Ma anche per un altro motivo: “in un diverso momento storico avrei aspettato almeno fino a 30 anni, ma ora vedo un gran numero di persone che a 25-26 anni hanno occasioni che spesso non meritano. Spuntano chef prodigio ovunque e ho notato che si fa largo sempre di più la figura dello chef autodidatta. Personalmente, credo possa esserci un’artista autodidatta, ma in cucina è diverso: per fare una salsa Bernese perfetta bisogna aver assistito alla preparazione fatta da un bravo chef, per sfilettare alla perfezione un pesce occorre osservare più e più volte. Ho imparato queste cose dopo aver visto all’opera decine di chef, che tra l’altro lo fanno in maniera differente l’uno dall’altro”.
Per Stile una parte della “colpa” può essere assegnata alla critica, che spesso tende a creare dei fenomeni. Vedere che alcune persone avevano responsabilità per le quali non erano del tutto preparati gli ha fatto temere che aspettando troppo avrebbe perso occasioni importanti: “ero già stato in vari 3 e 2 stelle, non mi mancava nulla a livello di preparazione professionale e ho accettato”.
Enoteca La Torre: una cucina che deve soddisfare
“La mia mano si vede nella cucina mediterranea, fresca e non pesante, cucina di ispirazione campana. Se nasci con certi prodotti e alcune ricette, dalla mozzarella di bufala al ragù, dalla Genovese alla Minestra maritata, questi piatti non possono non far parte della tua proposta culinaria”. Stile cerca di dare un’impronta riconoscibile con un elemento ‘simpatico’, particolare, sorprendente, che possa far ricordare il piatto. Si confronta con i suoi ragazzi, con il barman, con il responsabile di sala per trovare il senso di alcuni abbinamenti. Ogni proposta è studiata per dare soddisfazione al palato, al cliente, per avere un equilibrio importante.
“I piatti che faccio ora non sono quelli che pensavo e proponevo all’inizio: adesso parto dalla sicurezza che ho acquisito donando, però, un elemento in più, anche azzardando”. Si rende conto che in Italia si tende a voler stupire, una cosa che non ama perché non vuole forzare i piatti: per Domenico tutto deve essere valutato, provato, non bisogna eccedere, il suo motto è “non stupire, ma soddisfare“. La gente viene al ristorante per mangiare e quindi per lo chef è inutile cercare giochi e giochetti. “Non devo accontentare giornalisti e critici, devo andare incontro al cliente. Non voglio seguire le mode, non posso far fermentare tutto, non posso sferificare tutto, l’identità del mio Paese deve essere evidente, presente, fondamentale”. L’elemento di azzardo deve dare un valore aggiunto ma non può essere quello principale. A suo avviso, la più alta forma di intelligenza è rendersi conto che se la propria filosofia di cucina risulta essere ostica per i clienti bisogna essere in grado di mediarla, renderla comprensibile per gli altri.
Il rapporto con i fornitori
“Alcuni piccoli fornitori sono limitati nella produzione di quantità, non credo a chi dice di affidarsi completamente a loro, perché non sempre sono in grado di rispettare le tempistiche e di assicurare la completa fornitura”. La piazza di Roma è indubbiamente difficile e, se per alcune materie prime Stile riesce a dialogare con i piccoli produttori, per altre deve necessariamente relazionarsi con i grandi distributori. Poi c’è anche l’aspetto relativo alla correttezza e all’onestà: “All’inizio ho dovuto cambiare 3 pescherie perché non mi davano materia prima di qualità, cercavano di rifilarmi dei prodotti non all’altezza di quanto richiesto, e questa cosa la trovo davvero scorretta”. Ci si può affidare al piccolo produttore sapendo però di doversi assumere il rischio di dover eventualmente comunicare ai clienti una sera che un prodotto non è disponibile. “Preferisco quindi affidarmi a loro per prodotti che mi servono con più costanza, di cui posso fare dispensa e lavorare in tranquillità”, mi confida lo chef, ma è difficile trovare il giusto equilibrio tra piccoli e grandi fornitori, con i quali “c’è la continuità, ma non la qualità”..
Sostenibilità e rapporto con la Sala
Per quel che concerne la sostenibilità, il contesto romano porta a pensare ad essa come ad un qualcosa di utopico. Sono difficili i continui movimenti necessari per chi vuole relazionarsi in prima persona con i piccoli produttori, c’è poca o quasi nulla assistenza da parte delle istituzioni. “Se poi vogliamo parlare di sprechi, quello è un altro discorso, e per quanto possibile lavoriamo in cucina per riuscire a utilizzare tutto ciò che può aver una utilità per i piatti del menù, senza però eccedere, perché alcune parti delle materie prime sono effettivamente inutili”. Quando possibile, ad esempio, gli scarti di lavorazione vengono impiegati per i pasti della brigata.
Voltando pagina, e discutendo della Sala, lo chef mi dice che a suo avviso questa è importante, non si tratta solo di una moda del momento, “i veri professionisti disponibili sono pochi, qui siamo messi bene grazie al sommelier e al Direttore di Sala, che parla 4 lingue”. Il personale di Sala dell’Enoteca La Torre ha la capacità di relazionarsi al meglio con i clienti, capire le loro esigenze, entrare in sintonia con gli ospiti per consentire loro di passare un momento molto piacevole nel ristorante. “C’è bisogno di un grande servizio all’italiana, che sappia interpretare le esigenze dei clienti senza seguire in maniera rigida linee preimpostate”.
I social e la Michelin
“Il lavoro in cucina è stressante, richiede un impegno continuo, tante prove, ma vedo sempre più che oggi viene richiesto anche altro, come la presenza sui social, la partecipazione ad eventi, cose poco compatibili con la necessità di passare tempo in cucina, ma non far parte del giro ormai è deleterio, perché non si parla di te. Si può fare una cucina eccezionale, ma questa non viene valorizzata o non se ne parla, e per me è inconcepibile, cerco di forzarmi per far parte del giro, ma è un modo di fare che non mi appartiene”.
Domenico conclude la nostra chiacchierata con una riflessione sulla Guida Michelin e suoi parametri utilizzati per valutare l’operato degli chef: “apprezzo molto il lavoro che sta facendo ultimamente la Michelin, cioè premiare chi merita davvero, non quelli che sono sulla bocca di tutti, valorizzare solo il lavoro della cucina”, dice. Per Stile non devono e non possono esserci chef intoccabili, chi non merita non deve essere tutelato solo perché appoggiato dalla stampa. “Sono sicuro che questo periodo nel quale si valutano elementi esterni alla cucina finirà presto – conclude – e resteranno in piedi solo quelli che hanno davvero imparato questo mestiere”.