Chi modella le scelte alimentari per ridurre il proprio impatto sull’ambiente ormai da un po’ di tempo ha trovato una definizione: climatariano. Da quando questo termine è stato usato per la prima volta dalla stampa statunitense, nel 2015, la tendenza si è diffusa in tutto il mondo, specialmente tra i giovani e partendo dai Paesi anglosassoni e nordici. Ma cosa mangiano i climatariani? E per cosa si distinguono da vegetariani, vegani e dagli altri stili alimentari che già conosciamo? Rispondiamo a queste domande ricostruendo le origini di una tendenza di cui si sta di nuovo tornando a parlare, nell’ottica della transizione ecologica per una maggiore salvaguardia del Pianeta.
Climatariani: qual è l’origine della definizione?
Le scelte alimentari negli ultimi anni si sono diversificate sempre più, seguendo linee guida dettate dalla ricerca della salute personale, ma anche dall’etica rispetto alla produzione e alla filiera, dal campo alla tavola. Oltre ai vegetariani e ai vegani, l’opinione pubblica sta imparando a conoscere crudisti, reducetariani, pescetariani e flexitariani, una lista alla quale recentemente si sono aggiunti i climatariani, termine – climatarian – usato per la prima volta nel 2015 sul New York Times, per definire un nuovo trend allora agli albori nel mondo food. Negli anni precedenti, sempre nel mondo anglosassone, si era già parlato di ecotariani (ecotarian), per definire chi consuma solo cibo prodotto in modo sostenibile, termine che però ebbe poco successo tra gli ambientalisti. In ogni caso, va detto che tra le categorie citate esiste una certa permeabilità, e ad esempio un climatariano può essere reducetariano o vegano.
A plasmare la dieta cliamatarian, tuttavia, è prima di tutto l’attenzione per l’ambiente e per il contrasto alla crisi climatica, nella consapevolezza che quello che si mangia ha un peso sull’ambiente, quella che gli indicatori, nelle loro diverse configurazioni, riconoscono come “impronta carbonica” e “impronta ecologica”. Nella nostra intervista al professor Andrea Segrè, abbiamo approfondito le conclusioni in parte deludenti della COP26 proprio su questi temi, sia dal punto di vista dei consumi individuali delle persone sia per l’impatto dell’intera filiera agroalimentare, su scala industriale. Correggere l’alimentazione contribuisce dal basso e in modo significativo a riorientare l’intero sistema agroalimentare. Per questo occorre essere attenti alle caratteristiche produttive dei cibi e all’impatto ambientale di ogni passaggio, dalla coltivazione, all’imballaggio e al trasporto, fino allo smaltimento degli eventuali scarti. L’etichetta climatica, come abbiamo visto, può essere uno strumento utile per favorire la comprensione e la responsabilizzazione al momento degli acquisti.
Dieta climatariana: cosa si mangia?
Pensando a ciò che abbiamo avuto modo di conoscere sulla dieta vegana, si potrebbe immaginare che i climatariani ricalchino questo schema, ma non è esattamente così. L’impostazione, in questo caso, è infatti basata sulla riduzione delle emissioni legate alle produzioni alimentari, aspetto che offre qualche sorpresa a chi crede che tutto, o quasi, sia da imputare al settore della carne. Con riferimento a diverse ricerche, tra le quali una significativa del 2014 realizzata nel Regno Unito e pubblicata su Climate Change, e un’altra più recente, del 2022, pubblicata su Journal of Cleaner Production, l’approccio si mostra scientifico e lineare nel valutare l’impatto dei diversi cibi, attraverso tutti i passaggi della filiera.
In sintesi, ecco cosa indica la dieta climatariana:
- con moderazione, si può continuare a mangiare carne prodotta in modo etico e sempre nella prospettiva di una riduzione delle emissioni, limitandosi però a quella di maiale, al pollame e a una moderata quantità di pesce da pesca sostenibile;
- invece, da evitare quella dei ruminanti (manzo, pecora e capra);
- prediligere il cibo di stagione, locale e fresco;
- non consumare prodotti che viaggiano in aereo e che implicano il riscaldamento di serre, catene di refrigerazione complesse ed energivore e lunghi viaggi;
- acquistare con criterio per evitare gli sprechi alimentari, anche utilizzando al massimo tutte le parti dei prodotti.
Pur comprendendo un’ampia gamma di cibi, la dieta climatariana si basa soprattutto sui vegetali – legumi e cereali, verdura e frutta – sempre con l’attenzione di scegliere prodotti a km 0 e biologici, possibilmente sfusi e privi di imballaggi voluminosi, a maggior ragione se di plastica.
Perché no alla carne di ruminanti?
Valutandolo nell’insieme, si tratta quindi di un regime alimentare che non comporta particolari rinunce e può essere molto vario. A spiccare, sostanzialmente, è il divieto sulla carne di ruminanti, che come indicato dalle ricerche citate causa emissioni di gas serra molto più elevate rispetto ad altri cibi di origine animale. Questa tipologia di animali da pascolo – che include bovini, ovini e cervidi – ha un impatto climatico molto più elevato rispetto ad altre specie. Il cibo che ingeriscono, infatti, fermenta nel loro sistema digestivo, causando eruttazioni di gas metano. Inoltre, il loro allevamento, compreso quello estensivo, comporta un utilizzo molto maggiore di terreno – incentivando la deforestazione, come nel caso del Brasile – e necessita di un’alimentazione più energivora, oltre a produrre più letame e scarti rispetto a polli e maiali. La resa finale in carne, quindi, in proporzione è nettamente meno vantaggiosa in termini di quantità se confrontata a quella del pollame e dei suini. Rinunciando a quella dei ruminanti, secondo le ricerche, si potrebbero ridurre di tre quarti le emissioni dovute alla produzione di carne.
[elementor-template id='142071']Anche alcuni vegetali vanno evitati
Da notare, inoltre, sono le differenze di principio di queste linee guida rispetto a un regime vegetariano o vegano. Tra i prodotti che i climatariani evitano, infatti, figurano anche molti vegetali, se prodotti a grandi distanze e in modo non sostenibile. Tra questi, ci sono i frutti tropicali, compresi quelli più diffusi – banana, ananas, cocco, mango, ecc. – ma anche un must delle diete vegetali degli ultimi anni: l’avocado. In un nostro articolo abbiamo visto come la coltivazione di questo frutto, oggi molto popolare e richiesto nel mondo, richieda grandi quantità di acqua e nei Paesi di origine, in America Latina, sia spesso legata alla deforestazione e al depauperamento dell’ambiente. Per ovviare a tutto ciò, meglio preferire i frutti di produzione nazionale, e sappiamo come il Sud Italia sia ormai climaticamente idoneo alla coltivazione di prodotti di cui un tempo i Tropici detenevano l’esclusiva.
Tra i vegetali ai quali i climatariani in genere prestano attenzione ci sono anche le mandorle, e i prodotti da esse derivati, come le bevande vegetali, sempre più diffuse. In California la produzione intensiva di questi semi, come abbiamo visto, richiede molta acqua – favorendo la siccità in territori già a rischio – e talvolta compromette la vita delle api, fondamentali per l’equilibrio degli ecosistemi agricoli.
Come si è evoluto il trend dei climatariani?
Partita dagli Stati Uniti alcuni anni fa, la dieta climatariana ha preso piede prima nei Paesi anglosassoni e nordici per poi diffondersi nel mondo, grazie alla crescente attenzione per la crisi climatica, specialmente da parte dei giovani. Questa tendenza, nata dai movimenti ambientalisti, insieme ad essi ha guadagnato visibilità, riuscendo però a trovare consenso anche in un pubblico più vasto, come conferma la crescita registrata durante e dopo il periodo pandemico nell’ambito dei trend legati all’alimentazione.
Per rispondere alle richieste di questa clientela, negli USA catene della grande distribuzione e ristoranti si sono già adeguati, con linee e menù specifici, che utilizzano materie prime locali e seguono le indicazioni riportate in precedenza. In Italia, pur in mancanza di una piena istituzionalizzazione commerciale del fenomeno, sappiamo che le abitudini di acquisto risentono dei concetti che abbiamo descritto, nelle loro diverse sfumature sul piano etico ed ecofriendly. Anche le politiche alimentari europee, su tutte la strategia Farm to fork, hanno peraltro recepito gran parte di questi principi.
Al di là delle definizioni e delle ripercussioni sul mercato alimentare, bisogna essere consapevoli dell’impatto ambientale delle proprie scelte alimentari. Per quanto radicale, quindi, un approccio come quello climatariano può stimolare a informarsi e ad avvicinare le proprie abitudini alla sostenibilità.
Le vostre scelte alimentari sono diventate più sostenibili negli ultimi anni?