Sofferenze negli allevamenti: è possibile evitarle con la desensibilizzazione genetica?

desensibilizzazione genetica animali

 

Da tempo le sofferenze alle quali sono sottoposti gli animali negli allevamenti richiamano l’attenzione dei consumatori, tanto da influenzarne le abitudini alimentari, infatti sappiamo che l’aumento dei vegani e dei vegetariani in gran parte è motivato dalla crescente sensibilità verso questi argomenti.

Al fine di ottenere un miglioramento delle condizioni di vita in ambito zootecnico e anche alla luce della variazione degli stili alimentari, la ricerca scientifica si interroga sull’opportunità di mettere in campo un’altra soluzione – rivoluzionaria, radicale e quantomeno discutibile – per evitare il malessere e lo stress. Si tratta della desensibilizzazione genetica degli animali, ovvero la selezione di esemplari privati della capacità di provare dolore. Ha senso seguire questa strada? Nel prossimo futuro il genetic disenhancement sarà realtà? Considerando gli studi, i pareri degli esperti e le implicazioni etiche, cercheremo di saperne di più.

Desensibilizzazione genetica negli animali: è una strada possibile?

Il sistema produttivo degli alimenti di origine animale viene accusato per i danni ecologici dei quali è responsabile e per le sofferenze negli allevamenti intensivi, come hanno testimoniato le inchieste che abbiamo citato nei nostri approfondimenti. L’entusiasmo della seconda metà del secolo scorso, quando l’industrializzazione del cibo era vissuta come un grande progresso, oggi è virato verso un sentimento di sfiducia e diffidenza, e non di rado anche di disprezzo, per un modello che in tanti vorrebbero cambiare o superare.

Le possibilità per evitare – o perlomeno limitare – il malessere dei capi allevati sono essenzialmente due, una più moderata e un’altra drastica. Se nella prima possono rientrare la predilezione per i cibi biologici e i prodotti da allevamenti estensivi (all’aperto), nei quali il benessere degli esemplari è uno dei principi fondanti, nella seconda individuiamo invece la scelta di rinunciare ai prodotti di origine animale, parzialmente nel caso di una dieta vegetariana e completamente per un’alimentazione vegana.

allevamento intensivo suini
rtem/shutterstock.com

La scienza, tuttavia, si interroga sulla possibilità di offrire una terza via, che, almeno negli intenti, si pone l’obiettivo di rimuovere alla radice il problema delle sofferenze negli allevamenti. Su queste basi si fonda l’idea della desensibilizzazione genetica degli animali, modificandone il sistema nervoso – ancora non è chiaro come – per creare capi incapaci di provare dolore, una possibilità controversa e finora solo teorico-sperimentale.

Il saggio di uno studente fa discutere

Il dibattito sulla desensibilizzazione genetica negli ultimi anni si è avvalso dei contributi di Paul Thompson, Clare Palmer, Arianna Ferrari e Adam Henschke, solo per citare le pubblicazioni più recenti. A partire dal 6 marzo 2018, però, il tema ha trovato spazio sui media internazionali, quando l’Università di Oxford ha assegnato a un suo studente, Jonathan Latimer, un premio in Pratica etica per aver scritto un saggio dove sosteneva questa soluzione. Il testo espone un punto di vista pragmatico, che ritiene giusto eliminare scientificamente le sofferenze negli allevamenti, pur mantenendo una visione antropocentrica, dove l’essere umano governa un sistema alimentare industrializzato, che continua a basarsi sui cibi di origine animale.

Per rendere più comprensibili le sue riflessioni, Latimer inizia col presentare quelle che considera le tre obiezioni utilizzabili per opporsi alla desensibilizzazione genetica degli animali, nel caso in cui la si valuti dannosa e immorale. Ecco quali sono.

  1. La disabilità è intrinsecamente negativa; la desensibilizzazione causa disabilità per gli animali, perciò è sbagliata.
  2. L’allevamento intensivo e industrializzato è immorale indipendentemente dal dolore che provoca. La desensibilizzazione non cambia questo sistema, quindi non è una soluzione giusta.
  3. Il genetic disenhancement può sostenere o avvantaggiare gli allevamenti-fabbrica. Invece, dovremmo sostenere la fine di questo modello, pertanto privare gli animali della possibilità di provare dolore è controproducente.

L’autore prende atto della situazione internazionale del consumo di alimenti di origine animale, che vede crescere la domanda, soprattutto nei grandi Paesi in via di sviluppo. Questo dato incontestabile, realisticamente, nel futuro prossimo comporterà l’aumento delle produzioni da allevamenti intensivi, i quali, seppure a scapito della qualità, garantiscono prezzi bassi e alla portata di tutti. Chiarendo la sua posizione personale, Latimer afferma di essere contrario a questo modello agro-industriale intensivo.

L’autore prosegue contestando la logica del punto 1, sostenendo che non sempre la disabilità va considerata un danno, ma invece andrebbe contestualizzata. Considerando la realtà degli allevamenti-fabbrica, per gli animali essere privati della capacità di percepire dolore sarebbe quindi un vantaggio.

In merito ai punti 2 e 3, Latimer afferma che la desensibilizzazione genetica di per sé non migliora l’allevamento industriale sul piano morale, ma questo non è un motivo per evitare di eliminare le sofferenza inutili degli animali, che possono essere cancellate al più presto, pur contestando il sistema attuale e impegnandosi alla ricerca di alternative. Il genetic disenhancement non rende accettabile il modello intensivo, ma si pone semplicemente come soluzione a breve termine nell’interesse degli animali, mentre per lo studente di Oxford sarebbe crudele continuare a discutere lasciando proseguire le sofferenze. La desensibilizzazione genetica degli animali, in sostanza, non sarebbe in contraddizione rispetto agli sforzi per sostituire il sistema che genera questo dolore.

Reazioni e commenti

I contenuti di questo saggio hanno attirato molte critiche, provenienti specialmente dal mondo animalista. Il commento di Karen Davis, presidente della United Poultry Concerns (UPC), un’associazione statunitense per il benessere dei polli d’allevamento e delle galline ovaiole, è stato ripreso dai media internazionali, e in buona sostanza riassume le posizioni di chi si oppone alla desensibilizzazione genetica.

L’idea di “liberare” gli animali dal dolore, secondo Davis, non è condivisibile, perché le sofferenze percepite negli allevamenti non si limitano a una capacità “meccanica”. “Distruggere il cervello, il sistema nervoso e altre parti della mente e del corpo di una creatura necessariamente infligge sofferenza, in questo caso per adattare degli animali a un sistema nemico del loro benessere e della loro naturale espressività”.

allevamento intensivo polli
Avatar_0237shutterstock.com

La presidente dell’UPC associa la desensibilizzazione genetica in funzione dell’allevamento intensivo al mito classico del “letto di Procuste”, che stirava o amputava le sue vittime in base alla loro altezza. Con questa locuzione si indica la volontà di ridurre le necessità del prossimo imponendo un unico modello, difficile da sopportare o intollerabile. In questa circostanza, quindi, significherebbe piegare del tutto le vittime animali a un sistema umano maniacale, aggiungendo la beffa al danno e giustificando questo atto ritenendolo benefico”. Davis, perciò, punta il dito contro l’ipocrisia di un sistema che, pur di non intaccare il profitto, vuole mascherare e rendere più accettabili le sofferenze inflitte dall’uomo ad altri esseri viventi.

Queste valutazioni sono condivise dalla saggista Costanza Rizzacasa d’Orsogna, che sul Corriere della Sera ha giudicato la desensibilizzazione genetica soprattutto come un espediente per lavarsi la coscienza, che rischia di frenare l’impegno contro lo sfruttamento animale. Peraltro, non ci sono totali certezze sul fatto che il genetic disenhancement possa funzionare davvero e non produca esso stesso dolore. Mentre l’etica, la scienza e l’animalismo si interrogano, la questione da porsi, secondo Rizzacasa D’Orsogna, è per quanto tempo ancora le sofferenze negli allevamenti saranno considerate una verità scomoda e da nascondere. L’antropocentrismo, che porta a maltrattare le altre creature e a devastarne l’habitat, andrebbe superato, perché le capacità degli animali di provare sentimenti ed emozioni non possono essere negate.

Animali come macchine?

aragoste bollite vive
Arthur Villator/shutterstock.com

Le critiche animaliste alla desensibilizzazione genetica temono i rischi di uno sconfinamento etico della scienza, che potrebbe addirittura far ricadere il principio di snaturare creature viventi anche sugli esseri umani, sulla strada dell’eugenetica. Non considerare il dolore per le specie diverse da quella umana significherebbe contraddire i diritti naturali degli animali, riconosciuti dall’articolo 13 del Trattato di Lisbona modificato nel 2007, in cui si fa espressa menzione dell’animale come essere senziente. Questa “verità scomoda”, nella visione antispecista – ovvero contraria alla minore valutazione assegnata dagli esseri umani alle altre specie – porterebbe necessariamente ad attribuire agli animali diritti assimilabili a quelli delle persone. Nel nostro approfondimento sulle aragoste bollite vive, e sul divieto di attuare questa pratica entrato in vigore in Svizzera, abbiamo trattato il tema del dolore animale, citando diverse ricerche sul sistema nervoso dei crostacei.

Secondo questo approccio, pertanto, eliminare la capacità che registra il dolore ridurrebbe gli esseri viventi a mere macchine biologiche, a meccanismi vitali completamente assoggettati alla logica dell’allevamento industrializzato e di un’etica che, solo superficialmente, non vuole sentirsi in colpa per le sofferenze provocate. In termini brutalmente mercatistici, per l’industria alimentare potrebbe essere persino vantaggioso creare un marchio del tipo “prodotto senza dolore”, per poter vendere carne e latticini a prezzo maggiorato. Con buona probabilità, quindi, se il genetic disenhancement dovesse essere applicato, un intento non secondario sarebbe quello di produrre cibo con margini di guadagno superiori.

desensibilizzazione animali
zhangyang13576997233/shutterstock.com

Riguardo al punto 1 discusso da Latimer, le critiche citate obiettano il fatto che la disabilità, pur non essendo intrinsecamente negativa, non può essere imposta. In conclusione, si sottolinea che la sofferenza va oltre il dolore fisico e l’allevamento intensivo di per sé non è etico. L’applicazione di “soluzioni tampone” alle sofferenze negli allevamenti create dall’essere umano, quindi, non affronterebbe realmente il problema. Per questa logica, pertanto, l’unica soluzione concreta ed efficace è la rinuncia al consumo di prodotti di origine animale, sia essa parziale o totale.

Desensibilizzazione genetica degli animali: sì o no?

Alla luce delle riflessioni di Jonathan Latimer e delle critiche animaliste che contestano il suo saggio, non è immediato orientarsi e prendere posizione riguardo alla desensibilizzazione genetica degli animali, peraltro ancora lungi dall’essere concretizzabile. Tuttavia, possiamo evidenziare che nel suo testo lo studente di Oxford già prevedeva gran parte delle obiezioni in seguito ricevute. Per chi scrive, ciò che può essere più condivisibile è l’impronta pratica e contraria a una forma di animalismo utopica, troppo distaccata dalla realtà e dal contesto economico-sociale che viviamo. Il merito principale del saggio in questione, in effetti, può essere quello di aver sollevato un tema delicato e universalmente sentito – seppure in modo differenziato e con risposte diverse – con un approccio non scontato, provocatorio e discutibile, ma stimolante.

L’idea di mettere in pratica una soluzione estrema come la desensibilizzazione genetica non può che dividere, ma va confrontata con le alternative possibili e soprattutto con la realtà di un sistema la cui esistenza dipende dalle nostre scelte di acquisto. Il giudizio in merito, inevitabilmente, sarà personale e affidato alla sensibilità di ciascuno.

 

E voi cosa pensate della possibilità di alleviare le sofferenze negli allevamenti con la desensibilizzazione genetica degli animali?

 

Fonti:

Latimer, J., Why We Should Genetically ‘Disenhance’ Animals Used in Factory Farms
United Poultry Concerns
Il Corriere della Sera
SpringerLink
Trattato di Lisbona

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