Sono anni ormai che la cucina nipponica è entrata a far parte delle nostre abitudini: pranzi e cene all you can eat di sushi, sashimi, maki e nigiri saziano i nostri voraci appetiti sempre più di frequente. Ma, in realtà, cosa sappiamo davvero della cultura culinaria giapponese? Contrariamente a ciò che in molti pensano, nel lontano Sol Levante non si mangia quotidianamente sushi o sashimi, ed è possibile trovare decine e decine di pietanze diverse che vanno dai meravigliosi ramen alle pregiate carni di Wagyū e Kobe, dal natto all’okonomiyaki, passando per una varietà infinita di salse e condimenti, come il wasabi. E non mancano poi cibi popolari che cambiano a seconda delle stagioni o delle festività, come i dango, o legati a tradizioni secolari, come quella del momijigari, ossia della “caccia alle foglie d’acero, che vengono poi fatte in tempura.
Insomma, il cibo in Giappone non è mai solo “cibo”, ma è legato alla storia, alla stagionalità e a una fortissima componente estetica. Proprio per la bontà degli ingredienti, per le regole di impiattamento, la ritualità del pasto, oltreché per il fatto di essere un’alimentazione tra le più salutari al mondo, nel dicembre 2013 il washoku, ossia la cucina tradizionale nipponica, è stata inserita dall’UNESCO nei Patrimoni immateriali dell’umanità.
Oggi quindi abbiamo deciso di farvi “volare” fino in Giappone per scoprire alcune delle sue specialità.
La cultura culinaria giapponese: un po’ di storia
La cultura culinaria giapponese come la conosciamo oggi, nasce dall’interazione con la tradizione gastronomica della vicina Cina.
Tra il VI e il VII secolo, infatti, i traffici commerciali tra i due paesi, fecero sì che la cucina nipponica si permeasse dei valori e dei principi buddhisti, adottati dal popolo cinese. Il buddhismo zen, credo religioso basato sulla valorizzazione e sul rispetto di qualsiasi forma di vita, determinò l’assunzione di uno stile di vita prettamente vegetariano.
Con la caduta della dinastia Tang, verso la metà del IX secolo, l’influenza cinese arrivò al termine: iniziò così il periodo più florido del mondo giapponese, durante il quale raffinatezza ed eleganza entrarono a far parte dell’arte del mangiare e del servire il pasto.
L’importanza dell’estetica nella realizzazione dei piatti
Se volete realizzare una cena in pieno stile Giapponese, allora dovete sapere che secondo la cultura nipponica il pasto assume un valore molto importante, che va al di là del semplice bisogno nutritivo.
Per questo motivo, il cibo deve essere innanzitutto bello a vedersi, anche prima che esso sia cucinato. Moritsuke è infatti la parola che indica l’arte giapponese dell’impiattamento e che tiene conto di un’attenzione maniacale allo spazio, alla forma e al colore.
Già dalla preparazione dei piatti dovrete quindi tenere a mente che l’estetica gioca un ruolo fondamentale: le fette dovranno essere tagliate in modo regolare, le guarnizioni dovranno avere i colori giusti, le stoviglie dovranno essere adeguate al piatto che presenterete. O ancora, i piatti non dovranno essere riempiti fino all’orlo, ma lasciare almeno un terzo vuoto per creare uno stimolo che dall’occhio raggiunge il palato, facendo venire la voglia di riempire il vuoto con il pieno.
Piatto, cibo e utensili, in totale armonia cromatica tra di loro, dovranno costituire una vera e propria opera d’arte. Questa filosofia trova la sua massima espressione negli osechi ryori preparati per il Capodanno: si tratta di una serie di pietanze e contorni disposti in piccoli piatti, molto colorati e scenografici, che solitamente sono conservati in jubako, dei raffinati contenitori di legno laccato che ricordano le scatole per il bento, il pranzo da asporto giapponese.
[elementor-template id='142071']Alcuni piatti tradizionali della cucina giapponese
In generale, washoku potrebbe essere tradotto con “armonia di cibi” e consiste in una vera e propria filosofia del cibo che favorisce la consumazione di vari ingredienti naturali, locali e di stagione, come riso, pesce, verdure e piante selvatiche commestibili, oltreché un’attenta preparazione e presentazione delle pietanze ed esaltazione dei loro sapori. Ma cosa si può gustare in Giappone? Ecco qualche pietanza, oltre al sushi!
Zuppa di Miso
In Giappone le zuppe vengono consumate quasi a ogni pasto a volte come piccolo digestivo. Ne esistono di diversi tipi, ma forse quella più conosciuta è la zuppa di miso. Il Misoshiru (è questo il suo nome tradizionale) è costituito da brodo dashi, mischiato con miso, una pasta di soia fermentata particolarmente utilizzata nelle cucine giapponesi, e talvolta pezzetti di tofu.
Secondo la tradizione, le zuppe devono essere risucchiate dalla tazza in modo rumoroso, così da dimostrare il proprio gradimento.
Okonomiyaki
È una frittata, cucinata sulla griglia, che può essere preparata con qualsiasi alimento. Infatti, non a caso, il nome di questo piatto si traduce con ciò che vuoi (okonomy) alla griglia (yaki). Addirittura in Giappone è possibile trovare alcuni ristoranti nei quali ogni tavolo è dotato di piastra calda, cosicché ogni cliente possa prepararsi il proprio okonomiyaki autonomamente secondo i propri gusti.
Ramen
Anche se è diventato uno dei simboli della tradizione culinaria giapponese, questo piatto trae le sue origini dalla cultura cinese. Si tratta di un tipo di pasta di frumento, simile agli spaghetti, servita in un brodo di carne o di pesce insaporito con con salsa di soia o miso. Spesso viene guarnito con alghe marine secche, kamaboko, cipolla verde o mais. Ma per scoprire tutti i segreti del dovete assolutamente guardarvi Ramen Heads!
Onigiri
Si tratta di una pietanza molto cara ai giapponesi: se non li avete mai assaggiati vi sarà sicuramente capitato di vederli, soprattutto in un anime, ossia uno dei cartoni animati di questo Paese! In cosa consiste? In una sorta di polpetta di riso dalla forma triangolare, con alla base una striscia di alga nori (o addirittura avvolti dall’alga) che permette di tenerla comodamente in mano senza avere le mani appiccicose. Infatti, si prestano a essere gustati come snack da passeggio e sono molto popolari tra le strade delle città del Sol Levante. Il ripieno varia molto, ma generalmente è a base di pesce cotto al vapore o pesce crudo; non mancano le versioni vegetariane e tra queste la più famosa è quella a base di prugne umeboshi.
Yakitori
Questi spiedini di pollo fanno parte della tradizione popolare giapponese. Di yakitori (letteralmente “pollo alla piastra”) hanno origini antiche, ma è solo durante il periodo della Restaurazione Meiji e il sopraggiungere delle usanze dai paesi europei che diventano un piatto molto diffuso: prima, infatti, il popolo giapponese era molto legato alle credenze buddiste e mangiare carne era quasi del tutto vietato. All’epoca, venivano venduti negli yatai, piccole bancarelle mobili su due ruote di solito collocate sui ponti o lungo le vie per i santuari durante le feste, dove era più facile trovare persone alla ricerca di uno spuntino veloce. Ne esistono diverse versioni e sono apprezzati sia per il sapore che per la praticità nel mangiarli per le strade, senza l’uso di bacchette.
Taiyaki
Il nome di questo piatto si traduce con orata alla piastra, tuttavia del pesce ha solo la forma. Si tratta infatti di un delizioso dolce, il cui ripieno più comune è l’anko, una pasta di fagioli azuki zuccherati.
Dorayaki
A proposito di dolci e di pasticceria giapponese, non si può non citare i dorayaki, i famosissimi simil-pancake farciti, per lo più, con una crema a base di fagioli azuki. Sapete che questi dolcetti sono legati a una leggenda? Innanzitutto, dora in giapponese significa gong, e quindi pare che il nome sia dato dalla forma che ricorda appunto lo strumento musicale utilizzato dei templi giapponesi. Fatta questa premessa, la leggenda vuole che un samurai di nome Benkei avesse dimenticato il suo gong a casa di un contadino presso il quale si nascondeva: il contadino, non sapendo che farne, lo utilizzò per preparare il primo Dorayaki della storia.
E ora che vi siete immersi nella cultura culinaria giapponese, non vi resta che provare uno di questi deliziosi piatti…
Articolo scritto con il contributo di Deborah Ascolese.