Giornale del cibo

Beata ignoranza, ma quanto ci costi?

dav

La cultura costa, ma quanto costa invece l’ignoranza? Se le voci di spesa in cultura ci appaiono nette e quantificabili, è possibile misurare il costo dell’ignoranza? E non solo in termini filosofici, ma proprio concretamente: quanti soldi ci costa nel breve e nel lungo periodo la “svalorizzazione della cultura”?

Un incontro al Festival di Internazionale di Ferrara

Questo il tema dell’incontro pubblico che si è tenuto a Ferrara, organizzato da CIR food in collaborazione con il sito web di informazione Senzafiltro.it. Per la seconda volta CIR è presente al Festival di Internazionale con una formula articolata in due momenti: un cultural lab che ha riunito attorno ai tavoli di lavoro studenti universitari, persone di impresa e accademici, seguito da un incontro pubblico per confrontare i dati emersi e per un’ulteriore riflessione sul tema. L’anno scorso si parlava di welfare d’impresa, quest’anno l’attenzione si sposta sulla cultura; in particolare ci si chiede se e quanto il calo degli investimenti – da parte di pubblico e privato – possa essere correlato al calo di produttività e competitività di un paese.

Non c’è sviluppo senza cultura

ferrara-festival-internazionale

Secondo Giuliano Gallini, direttore commerciale e marketing CIR food e promotore dell’iniziativa, è evidente che a determinare il trend economico negativo non è una sola causa, ma piuttosto una costellazione di fattori: “Negli ultimi mesi sono apparse numerose analisi sul calo di produttività del nostro paese. Lo stesso Paul Krugman (premio Nobel per l’economia) ha parlato di ‘misterioso collasso della produttività italiana’. Altri economisti hanno provato a individuarne le cause nell’Euro, nella riforma del mercato del lavoro o nel federalismo… Tutti sono però concordi sul fatto che non ci sono evidenti relazioni di causa ed effetto: si tratta solo di indizi”.

Se di indizi si parla, allora secondo Gallini vale la pena metterne uno in più sul tavolo della discussione: “Soprattutto in questi ultimi vent’anni abbiamo visto la svalorizzazione della cultura riflettersi pesantemente sulla scena dei mezzi di comunicazione di massa, sul calo degli investimenti, sulla diminuzione delle spese individuali in lettura, cinema, teatri, musei. I dati ci dicono che gli italiani leggono sempre meno, mentre non è così in Germania e in Francia ad esempio, paesi che hanno continuato a crescere e, allo stesso tempo, ad investire in cultura e istruzione. Se le imprese, lo stato e i singoli individui continuano a investire poco in cultura sarà un problema: un problema per l’individuo, prima di tutto, per l’impresa e per il Paese. Non c’è sviluppo senza cultura”.

Investire nei luoghi della cultura

Ma qual è il significato di cultura? Nel suo intervento Antonella Agnoli, consulente bibliotecaria e membro del Consiglio Superiore dei Beni Culturali e Paesaggistici, si è soffermata  sulla necessità di integrare il contributo di una pluralità di soggetti per dare vita a investimenti culturali a lungo termine: “Servono piani e politiche condivise che a partire dai bisogni culturali della società, spingano le imprese a investire in luoghi in cui si produce cultura. Piani che si basino sulle reali necessità della popolazione, che mettano al centro l’individuo e che andrebbero definiti in modo sinergico da tutti i soggetti coinvolti: istituzioni, imprese, cittadini. Questi programmi dovrebbero servire alle aziende per decidere dove investire le loro risorse, senza dispersioni e con l’idea che la cultura serva, a prescindere dal ROI. Se ad esempio in un Paese manca la biblioteca – ha aggiunto Antonella Agnoli – o non c’è neanche un museo, perché non potrebbero essere le imprese a finanziarne la costruzione? Perché non ci si potrebbe mettere d’accordo per creare dei progetti che vadano in questa direzione?”

La cultura incorporata nel prodotto: la forza del Made in Italy

Marco Bettiol è docente di Internet Marketing a Padova e si occupa di PMI e di Made in Italy. Ritiene che il rapporto tra cultura e impresa sia cambiato nel tempo: “Lo scorso secolo ci ha consegnato due mondi completamente separati tra loro. Il mondo dell’impresa e il mondo della cultura procedevano su binari che difficilmente si incontravano. Oggi invece sono profondamente intrecciati e questo è particolarmente evidente in Italia”.
Il nostro Paese e povero di risorse e materie prime e quello che ci tiene ancora a galla – questa la riflessione di Bettiol – è il valore culturale dei prodotti, il Made in Italy: “La cultura è un fattore fondamentale perché trasforma prodotti ordinari in prodotti straordinari. La nostra competitività è completamente legata al contenuto culturale: noi non produciamo telefonini o hi-tech, ma siamo forti nel design, nella moda, nell’agroalimentare”. Anche se oggi c’è più consapevolezza sull’importanza dell’elemento culturale, secondo Bettiol c’è ancora molto lavoro da fare, soprattutto nel campo della comunicazione: “Il nostro export di prodotti agroalimentari potrebbe raddoppiare se solo imparassimo a raccontarlo meglio”.

Cercasi esperti in contaminazioni culturali

“Una fotografia del modo di fare impresa oggi mostrerebbe come è cambiato anche l’occhio di chi deve selezionare il personale. Credo ci sia una grande fame da parte delle aziende di trovare persone che non abbiano una conoscenza puramente specialistica”. Massimiliano Nucci, Responsabile Risorse Umane di Kemet Electronics, sostiene che oggi l’impresa guarda ai suoi dipendenti in modo diverso, cerca in loro non dei semplici esecutori ma anche degli “ambasciatori”.

Per questo motivo il livello culturale risulta essere un elemento fondamentale in fase di selezione: “Non bastano più le competenze tecniche. Difficile ormai creare dei prodotti o avere delle idee completamente nuove; tutto ciò che è innovazione non può che venire dalla contaminazione fra mondi diversi. Penso, ad esempio, a quando Google qualche tempo fa cercava collaboratori che ‘non sapessero nulla di algoritmi’. Una provocazione? O cercavano, in altre parole, di essere contaminati da altre culture e da altre conoscenze”.

Pubblico, privato, cittadini: chi deve investire in cultura?

Un’altra domanda fondamentale, più volte emersa durante il dibattito è: chi ha il compito di stimolare, creare, sostenere la cultura? Lo Stato? La famiglia? Le aziende? I singoli cittadini? Certo, il Pubblico dovrebbe essere in prima linea, e questo, di nuovo, è un problema culturale. Insomma, un cane che si morde la coda: quanta cultura serve per considerare prioritaria la cultura?

Il tema del costo della cultura è certamente di difficile soluzione e chiama in causa anche nuove forme di mecenatismo. Sempre di più le aziende dovrebbero iniziare a considerare gli investimenti in cultura come investimenti necessari per la propria sopravvivenza, superando la logica della sponsorizzazione e della mera visibilità del marchio. Infine, la famiglia e i cittadini: quale responsabilità ha il singolo in tutto questo? Cosa può fare? Certamente può continuare a ‘pretendere’ cultura, per tenere alta l’asticella della domanda, cercando di non abituarsi all’assenza di possibilità culturali nel proprio territorio.

Ci interessa molto la vostra opinione a riguardo. Pensate che la cultura nella sua accezione più ampia – quella che una volta chiamavamo cultura generale – possa avere un rapporto diretto con la produttività e con lo sviluppo economico di un paese? Avete esempi di aziende o storie da segnalarci a prova del fatto che la cultura aiuta la produttività e la competitività ?

Exit mobile version