In Salento non si butta via niente. “Per questo non è mai esistita la carestia, e non si è mai sofferta troppo la fame”: perché anche dai pochi ingredienti presenti si è sempre riusciti a creare qualcosa. E che cosa! Inoltre, in ogni stagione tra strade e campagne si raccolgono erbe e verdure spontanee, presenti qui in grande quantità e varietà. Dunque, oggi andiamo alla scoperta della cucina (tutt’altro che) povera salentina, spesso di recupero e riciclo e, per di più, totalmente vegetariana. “La friseddrha è la nostra carne” ci dice il grandissimo Pino De Luca, tra i primi informatici d’Italia (“per la precisione sono il 451esimo”), professore ed etno-gastronomo che abbiamo intervistato sul tema in quanto esperto e appassionato di cucina locale. “Sono stato giovane e magro, poi ho scoperto che potevo essere felice e così ho deciso di dedicarmi al mondo del cibo”.
La cucina (tutt’altro che) povera salentina
Prima di presentarvi i piatti tanto poveri quanto geniali della cucina salentina, sarà bene fare una precisazione. Dobbiamo chiarire infatti, che non si può parlare di “un” Salento in generale, poiché si tratta di un territorio molto ampio e vario, con radici e influenze diverse: romane, bizantine, messapiche, greche. Se poi queste sono state in parte unificate è grazie al famoso gastronomo Vincenzo Corrado, che ha scritto il primo ricettario sulla cucina salentina, “Il Cuoco Galante”, un testo di riferimento per le tradizioni alimentari locali. Grazie a lui sappiamo anche come sono cambiate le cose nel tempo: alcuni piatti contadini, infatti, che in passato erano ritenuti appunto poveri e di recupero, sono stati messi da parte durante tutto il medioevo culinario italiano perché non in sintonia con il progresso consumistico. Oggi, invece, sono diventati roba da ricchi, per pochi eletti, sempre più rari, richiesti e costosi. È il caso di molte foglie mbische, cioè verdure selvatiche, come ad esempio le zangune o la zavirnia, ossia lo smirnio; questo viene chiamato anche “alessandri” dal prezzemolo alessandrino, una pianta già usata ai tempi dei Romani che ormai si trova solo in Salento e nel nord Europa, dove viene utilizzato anche per la produzione del gin. O ancora, i cardonceddhri che sarebbero i cardi selvatici, da non confondere con i funghi: “ne raccogli mille per mangiarne uno, infatti costano più di 7 euro al chilo. E poi la fatica e il tempo per pulirli!”. Ma ripagano con il loro sapore, specialmente se dopo la cottura vengono passati al forno con uova e pecorino, e una gratinatura di pane… Insomma, una vera delizia, che si riserva solo agli ospiti d’onore o per le occasioni veramente speciali.
Gli ingredienti e i piatti “poveri” e di riciclo
Dunque, vediamo invece quali piatti sono rimasti ancora veramente poveri e di riciclo, nel senso che si possono preparare a costi bassi. E per di più, come anticipato, sono tutti vegetariani, se non in molti casi addirittura vegani. Ricordiamo, infatti, che qui un ingrediente come il burro è pressoché inutilizzato e la carne si mangiava solo le domenica (con le sagne ‘ncannulate, come vedremo). Ma in Salento non ci si è mai persi d’animo, anzi, della povertà se n’è sempre fatta una ricchezza in cucina. Questo perché qui si pensa sempre al presente, tant’è che nel dialetto salentino non esiste praticamente il tempo futuro dei verbi. “Siamo una zona tra due mari, soggetta a invasioni continue, non si poteva pensare al futuro” ci racconta Pino. “Si pensava al presente, al mangiare qui ed ora”.
Sciuscello in brodo
Non chiamatele polpette, perché di carne il sciuscello non ne ha mai vista. Nell’impasto solo pane, formaggio, di solito ricotta e tante erbe aromatiche, ovviamente ogni volta diverse, tanto ce ne sono; pensate che in Salento ne sono state trovate ed etichettate più di 130 varietà differenti! Poi, queste che potremmo definire polpette di “magro”, vengono cotte e immerse nel brodo. “Brodo di qualcosa!” precisa Pino, “nel senso di quello che c’è, spesso con i carciofi”. A questo punto vi starete chiedendo il perché del nome: sciuscello deriva dal verbo sciusciare che in dialetto salentino significa “succhiare il brodo”, così come qualsiasi altro liquido. Infatti, si utilizza anche quando si beve molto vino: “in passato si beveva tutti da un unico recipiente comune; si usava mettere in bocca un finocchio o un’asparagina sia per evitare di bere troppo, sia per la scarsa qualità del vino, per cui si succhiava e poi si diceva hai sciusciato tutto il vino con avidità!”.
Paparine cu o senza lu lapazio
Sono i papaveri non fioriti, che si raccolgono a febbraio e marzo. Di solito le paparine si fanno ‘nfucate, cioè saltate in padella con aglio, olio, peperoncino e olive nere, rigorosamente Celline del Salento. Ma meglio ancora se cu lu lapazio, un’altra erba selvatica, che dà ancora più sapore al piatto. “Lo mettono quando ti vogliono veramente bene!” aggiunge Pino.
Cecamariti o ‘mpanata con muersi o morsi
Spieghiamo prima di tutto il perché di questo nome curioso, i cecamariti. Una delle ragioni è la seguente: “sembrano un piatto complesso ma non lo sono, per cui le donne potevano cecare i mariti, cioè imbrogliarli fingendo di aver cucinato tutta la mattina quando invece non era così. Possiamo dire che sono l’ultima risorsa se avevano passato tutta la mattina a ciarlare!”. La seconda motivazione, invece, è che trattandosi di una preparazione con molto peperoncino, era ritenuto afrodisiaco, per cui le mogli cecavano i mariti nel senso di sedurli, ammaliarli”. Ma in realtà il nome cambia spesso da un comune all’altro, ad esempio più a nord del Salento viene chiamato ‘mpanata: per cui vi descriviamo direttamente com’è fatto, in modo che sarete voi stessi a riconoscerlo quando (fortunati) ve lo troverete davanti, comunque venga chiamato. Di base si tratta di un piatto di recupero con tre ingredienti principali: i muersi o morsi, cioè pane raffermo fritto, che in passato veniva “fritto dall’interno” ci spiega Pino, ossia prima bagnato nell’olio e poi messo sul fuoco (non come oggi che è il contrario); poi un legume, di solito i piselli, in una delle tre varietà più diffuse che sono riccio, nano o di Vitigliano, ma successivamente anche con fave o fagioli; e infine le foglie ‘mbische che c’erano, cioè le verdure miste come le cime di rapa. “E pensa che i contadini la mangiavano anche per colazione!”
Ciceri e tria
Veniamo ora ai grandi classici: la tria, una delle paste più antiche che ci sia, se non la più antica in assoluto. È all’origine della pasta secca, portata dagli Arabi con la conquista della Sicilia, e poi diffusa anche in altre regioni come la Puglia, dove il sodalizio con i ceci è stato tanto vincente quanto definitivo. In questo piatto, una parte della pasta viene cotta normalmente, un’altra invece viene fritta, caratteristica principale di ciceri e tria. Poi c’è anche chi la condisce con acciughe, olio, aglio, peperoncino, perché alla fine ognuno se la fa un po’ gli pare. Si mangia tutto l’anno, ma in particolare il 19 marzo, in occasione della festa di ringraziamento per San Giuseppe nei quattro comuni di Minervino, Giuggianello, Uggiano, Casamassella, dove non si chiama tria ma massa.
Polpette di seuche
Le seuche, così come si chiamano in dialetto, sono una sorta di bietole selvatiche, che si raccolgono soprattutto nel periodo invernale. Una delle ricette più gustose per valorizzarle al meglio e sentire appieno tutto il loro sapore sono le polpette: si inizia pulendo e sbollentando le seuche, poi vanno tritate e mischiate con uova, pangrattato, formaggio, un po’ di pane raffermo bagnato in acqua o latte, prezzemolo, sale e pepe. Ma attenzione, tutto in proporzioni minime perché si devono sentire le seuche. Infine, si fanno delle polpette da friggere in abbondante olio e… vedrete che goduria, per di più a un costo bassissimo!
Pittule
Con l’impasto del pane che avanzava, quello un po’ più liquido e meno lievitato, per la gioia soprattutto dei più piccoli, si facevano le pittule. Nel tempo si è iniziato a unire anche altri ingredienti, come il baccalà, le olive, il pomodoro, il cavolfiore, la cipolla e in generale quello che rimane. “Tanto tutto ciò che è fritto è buono” ripete Pino. Oggi si mangiano sempre, ma in passato a seconda del paese, si preparavano in particolari occasioni, come ad esempio nei giorni dell’Immacolata o di Santa Lucia. Purtroppo recentemente è stato inventato quello che per Pino è il simbolo del male: lo sparapittule, “una macchina malefica con friggitrice che fa uscire pittule tutte uguali, perfettamente tonde. In questo modo, i bambini non possono più immaginarvi delle figure fantastiche come facevano prima, quando avevano tutte forme diverse”.
Trianata di Surbo
La Trianata è un piatto eccezionale, solo ed esclusivamente di Surbo. Già a pochi chilometri di distanza, nel comune vicino, è difficile che sappiano persino che cos’è. Di base di tratta di un prodotto da forno, anche perché Surbo è il paese dei forni; si faceva a partire dall’impasto che restava del pane o delle sagne ‘ncannulate, la pasta fresca al sugo per eccellenza della domenica in Salento. Con questo impasto venivano tirati come dei maccheroni, messi poi in forno in una tajeddhra, cioè una teglia, con patate, pomodori, olive, cipolla e erbe varie come timo, prezzemolo, e così via. Il tutto su due strati, con il risultato di avere un livello di pane più ammorbidito dagli altri ingredienti, come se fosse una scarpetta; e uno in alto superiore molto croccante. Insomma, una specialità unica, destinata a restarvi impressa.
Piscialetta di Surbo
Altra specialità tutta e solo di Surbo, dove non si butta mai via niente. La piscialetta è un sempre un prodotto da forno, un tarallo che si fa con i resti del pane appena lievitato, cioè con tutte quelle parti e bricioline che restano attaccate sul ripiano di impasto. Questa è la versione originale, poi nel tempo hanno iniziato ad aggiungerci anche altri ingredienti come capperi o erbe varie. A Surbo, ogni estate, a luglio, si tiene la sagra in onore di sua maestà la piscialetta.
[elementor-template id='142071']Fave: cicoria, muersi e pasta
Quello delle fave è un discorso e un percorso lungo. La prima volta si cucinano per abbinarle con le note cicorie; poi quelle che avanzano, come forse avrete ormai capito, vanno con i muersi; infine, se restano ancora è il momento di abbinarle con la pasta. “In ogni caso, se le frullate con il minipimer vi denuncio” precisa Pino. “Le fave, che siano bianche o con il cappotto, vanno prima tenute a bagno 2-3 ore, poi messe a cuocere in acqua a fuoco basso. Quando prendono colore, vanno schiumate, cioè bisogna levare la schiuma con la schiumarola, ma senza levarle dalla loro acqua (come molti criminali fanno), in cui vanno cotte”. Durante la cottura bisogna continuare a girare con un cucchiaio rigorosamente di legno, finché non diventano un purè e infine condite. Sul tema ci sono varie scuole di pensiero: ci sono i puristi che non aggiungono nulla; poi c’è chi ci mette olio, carote o cipolla fritta; o chi ancora le trasforma in fave cresciute con l’aggiunta di farina o patate.
Cime di rape (da non confondere con cavolo rapa)
“Nfucata o lessa era e sarà per tutta la vita”. In Salento le cime di rapa sono le cime di rapa, si mangiavano non raramente anche a colazione, con li muersi. Si possono fare sia saltate in padella con olio, aglio e peperoncino, cioè ‘nfucate, che lesse con olio e limone: “è comunque un piatto di riguardo per l’ospite, perché non bisogna scambiare la semplicità con la mancanza di gusto, anzi” aggiunge Pino. Da non confondere con il cavolo rapa, che è un’altra verdura ancora, di cui si mangiano sia le teste, cioè le rape, di solito prima lesse poi condite in insalata con olio, aceto o limone; sia le foglie, bollite, anche se un tempo venivano date agli animali.
Purmitori scattarisciati
La semplicità assoluta, la resa massima, questo è il piatto con cui Pino ha vinto il concorso Fornelli Indecisi, di Pierpaolo Lala, che per cinque edizioni alla Masseria Ospitale ha visto cuochi non professionisti cucinare piatti secondo le loro personalissime ricette, nella convinzione che non esista una ricetta assoluta, ma che ognuno abbia giustamente la sua, appunto indecisa. Si tratta dei pomodori gialli invernali, che vengono saltati in padella con olive nere, olio, peperoncino, sponsale (cipolla porraia) e tanto, tanto tempo, ma soprattutto amore; poi c’è anche chi ci mette un uovo in mezzo. Pino è innamorato dei purmitori scattarisciati: “è un piatto per chi ama stare bene, per chi non ha ansie da prestazione, per chi ama amare ed essere amato. È il piatto delle coppie anziane, in lunghe serate d’inverno”.
Porceddhruzzi
Ma altro che cucina povera: in Salento non si sono mai fatti mancare nemmeno il dolce. In particolare, questo di origini greche si trova in vari comuni sempre con nomi differenti: a Roffano si chiamano carancioli, a Otranto sannucculizi, e così via. Di base di tratta quasi sempre di piccoli dolcetti natalizi chiamati così per la forma, che ricorda un po’ quella del naso dei porcellini. Vengono preparati con farina, succo e bucce di agrumi, vino bianco, zucchero, lievito, olio e sale, ma ricordiamoci che come sempre ognuno, per fortuna, li fa poi a modo suo. Provateli a Lu Furnu Te la Masseria di Frigole!
Allora vi abbiamo fatto venire voglia di portare un po’ di cucina povera salentina sulle vostre tavole?