Dal mercato dell’olio made in Italy arrivano segnali negativi. Infatti, a causa dell’inverno rigido, delle pesanti piogge e del più famoso Burian, il vento freddo che ha congelato moltissime piante. Le coltivazioni hanno subito ingenti danni, facendo crollare la produzione di olio d’oliva del 38% rispetto al 2017. Questi sono i dati diffusi da Coldiretti che in una nota ha espresso la propria preoccupazione, commentando le previsioni divulgate dall’Ismea per l’Italia durante la Giornata nazionale dell’extravergine italiano che si è svolta a Roma lo scorso 6 ottobre.
Produzione, mercato e agenti climatici stanno rendendo sempre più difficile il cammino dell’olio italiano, ma scopriamo insieme cosa sta succedendo.
[elementor-template id='142071']Crollo produzione dell’olio di oliva italiano: le cause climatiche
Piogge torrenziali, grandine con chicchi più grandi della norma e Burian con le sue tempeste di ghiaccio durante il periodo della fioritura degli olivi hanno fatto scendere la produzione ai minimi storici, raggiungendo soltanto i 265 milioni di chili. Questo ridimensionamento della produzione non toglie però l’Italia dal podio dei produttori, classificandola come seconda a livello mondiale per l’annata 2018/19.
Le regioni produttrici di olio in Italia sono diverse e ognuna ha registrato cali nella produzione a causa degli effetti climatici devastanti. Sono in totale 25 milioni le piante danneggiate, dalla Puglia al Lazio, con picchi che arrivano anche al 60% nelle zone più colpite dal maltempo.
Più colpite le regioni del Centro e Sud Italia
Le regioni che più hanno visto crollare la produzione sono, per quanto riguarda il sud Italia, la Puglia con un -58% (produzione di 87 milioni di chili), la Calabria -34% (47 milioni di chili), la Sicilia -25% (39 milioni di chili) e la Campania con un -30% (11,5 milioni di chili).
Al centro il trend rimane negativo, con ’Abruzzo che ha subito un crollo del -20% (11,6 milioni di chili di produzione) e il Lazio -20% (14,9 milioni di chili). La Toscana è invece un’eccezione e, insieme al nord Italia, riserva le sorprese più grandi, dato che le percentuali tornano positive con un +15% per la regione di Dante e in generale un +30% per l’Italia settentrionale.
Una delle soluzioni per recuperare il deficit di produzione italiano prevede di aumentare nei prossimi 4 anni la superficie coltivata da poco più di un milione di ettari a 1,8 milioni di ettari, con un conseguente incremento delle aree irrigue con tecniche innovative di risparmio dell’acqua. Questo piano vuole potenziare un filiera che coinvolge più di 400.000 aziende agricole specializzate e che vanta ben 43 DOP e 4 IGP, il maggior numero di olio extravergine di oliva a denominazione in Europa, e il più vasto tesoro di biodiversità del mondo con 250 milioni di piante e 533 varietà di olive.
Import ed export dell’olio di oliva italiano
Il nuovo piano di aumento della superficie coltivabile è anche “una necessità per rispondere alla crescita record dei consumi mondiali di olio d’oliva nel mondo che in una sola generazione hanno fatto un balzo di quasi il 49% negli ultimi 25 anni cambiando la dieta dei cittadini in molti Paesi, sulla scia del successo della Dieta Mediterranea dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco” racconta il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo.
La richiesta di olio di oliva made in Italy è molto alta, ma le problematiche relative alla produzione e alle nuove norme per il commercio estero stanno cambiando le carte in tavola. Si continuano infatti a registrare dati positivi, come ad esempio la crescita del 41% del mercato cinese, con un giro d’affari di oltre 40 milioni di euro, e quello dei Paesi Scandinavi, in particolare la Svezia che dal 2008 al 2017 ha visto crescere l’import di olio d’oliva del +58% e vede l’Italia in cima alle preferenze, con una quota di mercato del 54%.
Al contempo, però, ci sono fluttuazioni negative a causa delle “etichette a semaforo”, il nuovo metodo di etichettatura che utilizza i tre colori caratteristici (verde, giallo e rosso) in base alla quantità di calorie, grassi, zuccheri e sale presenti in 100 grammi di prodotto. Questa nuova metodologia è stata diffusa non solo in Inghilterra, ma anche in Francia, e infatti entrambi i paesi hanno subito una fluttuazione negativa per quanto riguarda l’import di olio di oliva. L’export italiano nel 2017 ha registrato un calo del 13,5% in Gran Bretagna (non solo a causa della svalutazione della sterlina) e del 18,6% in Francia.
Federolio, Coldiretti e Unaprol hanno deciso di affrontare il problema dell’etichettatura costituendo il progetto “olio certificato”, per offrire al consumatore un prodotto sempre più rispondente alle sue specifiche aspettative e bisogni, le cui caratteristiche distintive siano facilmente riconoscibili e comprensibili nell’ambito dell’offerta dell’extravergine.
Contrastare la concorrenza sleale e le contraffazioni
Se la produzione non riuscirà a soddisfare il mercato interno (così come quello esterno), si avranno sempre più esempi come quello dell’olio di oliva tunisino: “L’Unione Europea – afferma la Coldiretti – deve respingere al mittente la richiesta del Governo di Tunisi di rinnovare la concessione temporanea di contingenti d’esportazione di olio d’oliva a dazio zero per 35 mila tonnellate l’anno, scaduta il 31 dicembre 2017, oltre alle 56.700 tonnellate previste dall’accordo di associazione Ue-Tunisia – spesso, infatti, – si tratta di produzioni di bassa qualità svendute a prezzi insostenibili ma commercializzate dalle multinazionali sotto la copertura di marchi nazionali ceduti all’estero; questo per dare una parvenza di italianità da sfruttare sui mercati, a danno dei produttori e dei consumatori.” Un pericolo, precisano da Coldiretti, che “tocca il tema della concorrenza sleale, che non rispetta le stesse regole dal punto di vista sanitario, ambientale e sociale.”
La questione dell’olio tunisino inizia nel 2016, quando l’UE per sostenere la difficile situazione socioeconomica della Tunisia a seguito della rivoluzione prima, e degli attentati poi, concede a Tunisi due contingenti temporanei a dazio zero per le esportazioni di olio dirette. Da quel momento il dibattito è rimasto aperto, anche a seguito delle richieste di maggiore controllo da parte dell’Italia e quelle da parte del primo ministro tunisino per rinnovare l’accordo.
Valorizzare la tracciabilità: Olivicola e #stopcibofalso
Per valorizzare la tracciabilità dei prodotti alimentari e rendere il consumatore sempre più informato le azioni “dal basso” non si sono fatte aspettare. Come, ad esempio, Olivicola, la prima organizzazione dell’olivicoltura italiana nata dalla fusione tra il Consorzio nazionale degli olivicoltori (Cno) e Unasco che rappresenta 250 mila produttori pari al 50% degli olivicoltori italiani. Olivicola infatti si pone 4 diversi obiettivi: concentrare l’offerta, migliorare il reddito dei produttori, costruire una filiera olivicola moderna e coesa, difendere il made in Italy contro le frodi e le contraffazioni. A difesa del made in Italy per tutta la filiera agroalimentare si schiera anche Coldiretti e la Fondazione Campagna Amica con la petizione #stopcibofalso che ha raccolto più di 200.000 firme e che vede tra i suoi maggiori punti di interesse proteggere la salute del consumatore da cibi non controllati, tutelare l’economia italiana che perde nel mercato delle imitazioni dei prodotti alimentari italiani un business da 60 miliardi di euro, fermare le speculazioni sul cibo per una maggiore trasparenza e infine proteggere l’agricoltura sostenendo la qualità dei prodotti made in Italy.
Siete sempre sicuri di consumare sempre olio buono? Lo comprate al supermercato o preferite acquistarlo dal produttore, così da aiutare chi si trova in situazioni di emergenza, come in questo momento?