Delle intime, e importanti, connessioni tra salute e cibo siamo ormai quasi tutti consapevoli, anche se non sempre praticanti. E forse siamo altrettanto consci del potere “consolatorio” di alcuni alimenti (il cosiddetto comfort food) o del loro valore affettivo (pensiamo a certe ricette o cibi dell’infanzia).
Meno nota è probabilmente la capacità terapeutica che l’atto di cucinare può avere, soprattutto se inserito nell’ambito di precisi percorsi di recupero o sviluppo di determinate funzionalità motorie o cognitive. Ovvero, quando viene applicato come vero e proprio strumento di cura. I risvolti positivi di tale attività, nota come cooking therapy, o cucinoterapia o ancora culinary therapy, sono molteplici, così come affermato anche da Antonio Cerasa, neuroscienziato e ricercatore al CNR che, nel suo recente libro dedicato proprio a questo tema, codifica modi e metodi di un trattamento medico innovativo e dai risultati a volte sorprendenti. Scopriamo allora in cosa consiste e quali sono i suoi benefici.
Cos’è la cooking therapy?
Siamo certi di non dirvi nulla di nuovo, e forse qualcuno lo avrà già sperimentato su di sé neanche troppo tempo fa: cucinare fa bene. Prendiamo ad esempio il confinamento domestico più o meno prolungato dell’ultimo periodo: per molti di noi la cucina non è stata solo un necessario e piacevole passatempo, ma anche una pratica, a volte improvvisata, molto spesso efficace, per la gestione di inquietudini legate all’esperienza inedita di un’emergenza sanitaria su scala globale.
Ebbene, un analogo esito “rassicurante” è tra gli effetti che la cucinoterapia intende produrre, non in modo saltuario e casuale ma sistematico e sistematizzato, per ridurre i sintomi di alcune patologie cliniche o superare deficit momentanei, che agiscono sull’area cerebrale del cervelletto, deputata alla coordinazione motoria. Ci si riferisce soprattutto a disturbi cognitivi di vario tipo, dovuti a traumi cerebrali, o a demenza, Alzheimer, schizofrenia, sindrome di Down, o dismetria del pensiero; o a disturbi alimentari, come l’anoressia nervosa, o di gestione dell’ansia; o ancora a deficit di attenzione e concentrazione legate ad autismo o iperattività. In questi casi la cooking therapy può rappresentare un valido strumento di potenziamento cognitivo e motorio, oltre che di riabilitazione emotiva.
Come altri metodi di cura, anche la cucinoterapia si basa sulla ripetizione di determinate attività, via via sempre più articolate, con compiti che vanno dalla preparazione degli ingredienti all’esecuzione di una ricetta, fino alla realizzazione di un menù completo, simulando i processi di una cucina professionale. Il tutto sotto la guida attenta di chef e terapeuti che, dallo scorso marzo, hanno trovato conferma scientifica di quanto avevano già osservato e messo in pratica in modo spontaneo o poco omogeneo (è il caso, ad esempio, delle comunità di recupero di San Patrignano o dell’Istituto di alta specialità riabilitativa S.Anna di Catanzaro).
Le ricerche italiane e la nascita di un protocollo di neuroriabilitazione
È della passata primavera, infatti, il libro La cooking therapy. Come trasformare la cucina in una palestra per la mente. Applicazioni per pazienti neurologici e psichiatrici che Antonio Cerasa ha dato alle stampe per FrancoAngeli Editore. Una pubblicazione che prosegue l’indagine già intrapresa da Cerasa, in collaborazione con altri colleghi, sul cervello degli chef (dotati, secondo le sue analisi, di un cervelletto particolarmente sviluppato e, quindi, di una spiccata abilità psico-motoria) e completa un suo studio condotto nel 2019 su un paziente ischemico che, grazie alla cucinoterapia, è riuscito a recuperare parzialmente certe funzioni.
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Non si tratta certamente dei primi o degli unici esperimenti in materia, al contrario: è del 2017 la revisione realizzata da un gruppo di ricercatori del National Institutes of Health Clinical Center (Bethesda, USA) delle principali ricerche condotte sino a quel momento in questo campo. Un documento che, pur mettendo in discussione la veridicità di alcuni risultati, attesta l’esistenza di effetti positivi, a livello psicologico, per chi partecipa a sessioni di cucina.
Tuttavia, Cerasa ha il merito di aver formalizzato, almeno in ambito italiano, alcuni aspetti pratici e teorici di questa metodologia (vero e proprio protocollo di neuroriabilitazione), a cominciare dai suoi benefici.
I benefici della cooking therapy
Nell’ambito dell’incontro dedicato proprio ai contenuti del libro per l’edizione 2020 di Bookcity Milano, è emersa la particolare valenza che la cooking therapy ha sul piano motorio. Una valenza garantita però solo a seguito di un allenamento costante (da qui la “palestra” del titolo), in cui la reiterazione di determinate operazioni e la necessità di coordinare se stessi in relazione alla singola mansione svolta, al processo completo e rispetto agli altri, esercita sia il corpo che, a livello cerebrale, il famoso cervelletto.
E questo non è l’unico, seppur fondamentale, beneficio della cucinoterapia che, infatti:
- è multitasking e, per questo, stimola lo sviluppo di abilità non solo fisiche, ma anche cognitive, legate alla programmazione delle proprie azioni e alla loro prefigurazione;
- aiuta l’autostima: vedersi capaci di realizzare qualcosa o di eseguire determinate azioni può aiutare a migliorare la consapevolezza di sé;
- è coinvolgente e immersiva, anche dal punto di vista emotivo e sensoriale. Certe azioni, come ad esempio impastare con le mani, possono infatti generare sensazioni di piacere; mentre odori e sapori possono evocare ricordi e memorie del passato, particolarmente significative nel caso di pazienti affetti da Alzheimer, ad esempio (qualcosa di simile lo avevamo già incontrato nel caso del giapponese Ristorante degli ordini sbagliati);
- può determinare un migliore rapporto con il cibo e un comportamento alimentare più regolare, specie in presenza di disturbi legati all’assunzione di cibo;
- favorisce la socializzazione e l’interazione, soprattutto all’interno di gruppi di persone che si trovano a imparare insieme, in una condizione di parità e solidarietà;
- aiuta a concentrarsi e a esercitare qualità personali collaterali, come la pazienza (nell’attesa che una pietanza si cuocia) o la gestione degli imprevisti (in cucina, si sa, non sono poi così rari);
- è qualificante, anche dal punto di vista lavorativo: aspetto che, per fortuna, oggi viene valorizzato anche da ristoratori attenti come il Tortellante di Modena.
Particolarmente efficace per la crescita di chi partecipa, e gratificante, è poi la possibilità di mangiare ciò che si ha cucinato.
Mindful cooking vs cooking therapy
La cucina conferma quindi il suo potenziale terapeutico che, come si diceva all’inizio, non è estraneo alla vita di tutti: quando prepariamo una ricetta tendiamo a distrarci dalle preoccupazioni del momento, concentrandoci invece nella creazione di qualcosa di nuovo (e a volte anche di buono). Proprio grazie a questa capacità intrinseca di allontanare, almeno temporaneamente, lo stress è derivata una pratica meditativa su cui, però, è importante fare chiarezza: mindful cooking e cooking therapy non sono la stessa cosa.
Nel caso della cucinoterapia, lo abbiamo visto sin qui, si tratta di un metodo terapeutico, ancora in fase di analisi e omologazione certo, ma che ha rilevanza soprattutto per la riacquisizione o il potenziamento di specifiche capacità fisiche e neurali.
Con mindful cooking, invece, si intende quella serie di azioni e accorgimenti atti a stimolare un rapporto più consapevole con il cibo e un’esperienza più piena e gioiosa di cucina: qualcosa di molto simile alla meditazione e alla ricerca e affermazione del proprio io interiore. In questo senso, quindi, non presuppone deficit clinici, per quanto possa non escluderli.
E voi, sapevate dell’esistenza della cooking therapy?