Giornale del cibo

I prodotti agroalimentari di San Patrignano: la comunità, tra formazione e lavoro

PH Comunità di San Patrignano

L’indipendenza è stupefacente. Recita così il cartello posto sulla strada che porta a San Patrignano, la comunità situata sulle colline di Coriano (provincia di Rimini), che da oltre 45 anni aiuta ragazzi e ragazze a uscire dalle dipendenze. Non parliamo solo di droghe, ma di tutte le forme, tra cui alcolismo e ludopatia, e lo fa attraverso un metodo che rappresenta il simbolo di questo luogo di speranza, impegno e rinascita. Sì perché a San Patrignano, comunità gratuita che oggi accoglie circa 800 ospiti, le persone seguono un percorso di recupero e di formazione che le accompagna, passo dopo passo, a imparare un mestiere e a ricostruire gradualmente se stesse, la propria autostima e voglia di vivere. La comunità, in particolare, è molto conosciuta per la sua produzione enogastronomica. Inizialmente avviata – negli anni Ottanta – a fini di autoconsumo, questa attività oggi rappresenta uno dei pilastri di San Patrignano grazie a un’ampia proposta di prodotti realizzati dagli ospiti stessi

Con Il Giornale del Cibo abbiamo deciso di andare alla scoperta di questa realtà, che ci ha accolti per una mattinata, permettendoci di visitare i reparti produttivi, di respirare il profumo inebriante di formaggi, piade, pagnotte e vini, e di vedere negli occhi di chi ci lavora l’entusiasmo e la passione per ciò fa. Ecco il resoconto della nostra giornata a SanPa!

Rinascere a SanPa grazie al lavoro, alla formazione e alle relazioni

Lavoratori all'interno del forno della Comunità di San Patrignano
PH Comunità di San Patrignano

La persona che ci introduce alla filiera produttiva di San Patrignano e alla filosofia che c’è alla base è Federica Imbrunetti, Responsabile Marketing Agroalimentare: “La realizzazione di prodotti agroalimentari fa parte del DNA di San Patrignano. È nata da subito per l’autoconsumo, perché è un aspetto che rientra nella natura rurale del territorio in cui è dislocata la comunità, ma anche in quelle che erano le vocazioni del fondatore, Vincenzo Muccioli, che aveva un background contadino. Si tratta di qualcosa che è andato di pari passo con la crescita della comunità stessa. Successivamente, grazie all’apporto di maestri artigiani venuti dall’esterno, siamo anche riusciti a proporre prodotti che rispondessero alle esigenze di mercato. Ovviamente, però, queste attività produttive hanno sempre come primo scopo la formazione e il recupero degli ospiti”. 

Del comparto agroalimentare, ci spiega l’intervistata, fanno parte la cantina, il caseificio, l’allevamento di bovini (curati dai ragazzi), il forno, ma anche la produzione di miele e olive. A questo si aggiungono la pizzeria e bottega SP.accio e i ristoranti Vite e Talea. I prodotti realizzati vengono venduti in GDO (perlopiù legata al territorio), Horeca, ma anche attraverso lo shop online e la bottega di SP.accio. 

Tutte queste attività sono fondamentali nel recupero e costituiscono uno dei mattoni essenziali del metodo di San Patrignano. Quest’ultimo – precisa l’intervistata non si riferisce a un modello di letteratura, ma si è costituito nel tempo, con l’esperienza, imparando dagli errori. La filosofia su cui è fondata la comunità si basa sull’importanza di tenere impegnati i ragazzi, insegnare un mestiere e trasferire loro una dignità che permetta di poter dire ‘quel prodotto l’ho fatto io, con le mie mani’. La vicinanza con la natura e la manualità sono importantissimi, sotto diversi aspetti. Prima di tutto, perché le persone riacquistano il contatto con la realtà e poi perché, tenendosi occupate ed emancipandosi dalla dipendenza, costruiscono mattone per mattone il proprio futuro”. 

PH Comunità di San Patrignano

La Responsabile Marketing Agroalimentare afferma che, rispetto ad altri metodi di recupero, quello di San Patrignano è un modello di successo perché “quasi il 73% degli ospiti, dopo il percorso in comunità, entro 3 anni non ricade nella dipendenza. Averli formati per quasi 3 anni dà loro l’opportunità di rivendere una professionalità, una volta fuori, e quasi tutti si inseriscono nel settore in cui si sono specializzati in comunità. Tanti pizzaioli che sono passati per SP.accio hanno poi aperto una loro attività, ad esempio, così come molte persone che sono state formate al ristorante Vite si sono reinserite in strutture simili. Far vedere ai ragazzi che, grazie al lavoro svolto, è possibile raggiungere livelli di qualità elevati li spinge a uscire dai loro problemi. Per questo San Patrignano investe molto in formazione, non solo in quella ricevuta quotidianamente sul lavoro, ma anche in corsi di formazione costanti”.

In generale, quando entrano in comunità sono gli operatori dell’accoglienza a indirizzare la persona verso il settore produttivo più adatto, in base alle esigenze psicologiche della persona, salvo che poi, nel tempo, è possibile cambiare settore.

D’altra parte, per quanto il lavoro sia importante, prima di tutto viene l’aspetto del recupero. “La giornata tipo di un ragazzo o una ragazza di San Patrignano è molto vicina a quella di qualsiasi settore produttivo simile, ma non possiamo pretendere gli stessi ritmi perché prima di tutto, in particolare il primo anno, la persona deve pensare a recuperare se stessa. Anche per questo in ogni settore c’è il responsabile di produzione, ma c’è anche l’educatore, perché l’aspetto sociale è prioritario. Lavorare insieme è fondamentale nella costruzione delle relazioni: il dialogo e il confronto sono due aspetti essenziali e rappresentano uno degli elementi del successo del modello di San Patrignano” – conclude Federica Imbrunetti

Dai freschissimi agli stagionati: ecco il caseificio di SanPa

Il primo reparto produttivo che visitiamo è il caseificio. Ad accoglierci c’è Diego, il responsabile della produzione. Diego è un dipendente esterno, ha una vita fuori dalla comunità, e insieme a un altro ragazzo segue la produzione, le fasi di confezionamento e la stagionatura dei formaggi. Originario della Valtellina ci racconta di essere “nato casaro”: “Mio nonno aveva una malga, per cui ho imparato a lavorare il latte prima ancora di andare in bicicletta. Ho seguito un percorso formativo da casaro, poi la vita mi ha portato a San Patrignano”. Qui dice di aver avuto la fortuna di essere stato inserito proprio nel caseificio e, dopo la fine del percorso in comunità, ha trovato un impiego fuori. Finché, tre anni fa, San Patrignano lo ha richiamato, chiedendogli di tornare a lavorare al caseificio in qualità di responsabile. 

PH Comunità di San Patrignano

Diego ci spiega che attualmente, all’interno del reparto, i ragazzi della comunità sono circa una sessantina, divisi nei tre settori: produzione, confezionamento, stagionatura. “Il caseificio produce circa 4.500 litri di latte vaccino al giorno, mentre per quanto riguarda il latte ovino seguiamo la stagionalità: solitamente, lavoriamo circa 3.000 litri di latte ovino a settimana. Il latte vaccino è prodotto all’interno della comunità: nella stalla, infatti, abbiamo circa 150 capi in lattazione, tra frisona e alcune Bruna Alpina, che servono ad alzare un po’ il tenore del grasso nel latte. Il latte ovino, invece, proviene da pastori che si trovano sul territorio” – racconta. Comunque, anche nel caso degli ovini, si tratta sempre di allevamenti non intensivi.

“Con il latte vaccino produciamo i formaggi freschissimi come lo squacquerone e la Muccotta, una lavorazione simile alla ricotta ma che parte dalla base latte. Per questo chiamarla ‘ricotta’ sarebbe sbagliato, perché quest’ultima si realizza con il siero. Ai freschissimi si aggiungono i semi stagionati, ovvero la caciotta e il Mucchino semi stagionato, che ha una pasta simile a quella della caciotta, ma è di forma quadrata. Il Mucchino viene venduto principalmente a gastronomie e hamburgerie, dove lo affettano per comporre i panini. Produciamo anche un lungo stagionato, prettamente destinato alla regalistica, e due formaggi misti: il meticcio, che è un misto a pasta gessata, e la caciotta mista con latte misto vaccino-ovino. Oltre alla Muccotta realizziamo anche le ricotte, sia con latte vaccino che ovino, mentre per quanto riguarda il pecorino ne abbiamo di due tipi: quello romagnolo, a pasta semi gessata a 30 giorni di stagionatura, e un pecorino stagionato, che ha minimo 90 giorni di stagionatura. Con il pecorino, inoltre, produciamo anche degli affinati: quando i formaggi raggiungono i 40-50 giorni di stagionatura li posizioniamo all’interno delle barrique utilizzate per il vino, dopo averle lavate e preparate allo scopo. Adesso, ad esempio, abbiamo quelli affinati al fieno, alla foglia di castagno e alla vinacce” – ci spiega Diego. 

Lo slogan dei prodotti enogastronomici di San Patrignano è “buono due volte”. Questo perché alla qualità di ciò che viene fatto si aggiungono il significato e la valenza che questo tipo di lavoro ha per gli ospiti della comunità. “Lo scopo è far rientrare i ragazzi nella società come persone motivate. Se a loro non venisse insegnato nulla, nel momento in cui escono dalla comunità probabilmente tornerebbero a ciò che facevano prima di entrare. Questo tipo di impiego permette alla persona di capire che è in grado di fare qualcosa di valido. Insegnarle un mestiere in cui deve anche ‘mettere del suo’ – perché il latte è una materia viva, così come anche il lievito, se pensiamo al reparto forno – le consente di comprendere che può realizzare qualcosa che viene apprezzato e, magari, vincere anche dei premi, come ci è successo con lo squacquerone, eletto come miglior freschissimo d’Italia all’Italian Cheese Awards. Tutto ciò aumenta l’autostima dei ragazzi e li rende più propensi a fare qualcosa di positivo nella propria vita”.

Il segreto del forno? Un lievito madre con più di 30 anni

PH Comunità di San Patrignano

“Nel forno di San Patrignano si cuociono sia prodotti dolci che salati. La punta di diamante sono i prodotti da ricorrenza, come il panettone, a cui si aggiungono tutti i lievitati, dal pane fresco ai panini per gli hamburger e per gli hot dog. La regalistica, infatti, in generale è uno dei comparti fondamentali e uno dei settori trainanti dell’agroalimentare” – ci racconta Federica Imbrunetti facendo una panoramica di questo settore. 

La prima persona con cui abbiamo il piacere di parlare all’interno del forno è Paolo: lavora qui da 3 anni e fa da tramite tra i ragazzi e il responsabile del reparto. Paolo, insieme a Fabio, il responsabile di produzione, ci mostra Attila, il lievito madre utilizzato in gran parte delle preparazioni. “Attila ha circa 30 anni e lo utilizziamo sia per il pane sia per i panettoni. Lo abbiamo creato attraverso la fermentazione di una mela rossa e una mela verde. Oltre a questo, abbiamo un pezzo del lievito del maestro del nostro maestro – si chiama Ciro e ha 100 anni – e un terzo lievito madre nato nel 2011” ci dicono. Gran parte della qualità che sta dietro le produzioni da forno di San Patrignano, e anche del valore di questa esperienza sui ragazzi, è racchiusa proprio all’interno di questo elemento. Fabio spiega che “anche chi non è appassionato viene catturato dalla quotidianità e dalla sensibilità che richiede la cura del lievito. In questo periodo dell’anno, ad esempio, che è un momento clou per via della produzione dei panettoni (la nostra visita è avvenuta nel mese di ottobre, ndr) c’è una grande responsabilità dietro alla cura del lievito madre. Per questo tipo di preparazione, infatti, serve un lievito equilibrato, e se si sbaglia qualcosa il prodotto finale non viene come deve essere. Non a caso, ci sono 4-5 ragazzi che si occupano solo di questo e che si devono organizzare, tramite turni, per gestire questo aspetto. Per un ragazzo poco motivato e che non credeva in se stesso, questo genere di impegno credo sia molto utile a un percorso di crescita e recupero”.

Anche Fabio, come Diego, vive da tempo fuori dalla comunità e ci lavora da esterno. “Sono qui da 20 anni e ho visto crescere questo settore, che un tempo non c’era. Una volta, infatti, esisteva solo un piccolo forno che serviva per il fabbisogno interno. Provengo da una famiglia di fornai ma ho imparato il mestiere qua dentro, quando sono entrato in comunità per il percorso di recupero. Ho avuto il privilegio di fare corsi, studiare. Qui ho anche conosciuto una ragazza, con cui ho costruito una famiglia” – ci confessa. Paolo, invece, sta seguendo il percorso proprio adesso. “A San Patrignano il lavoro viene utilizzato come strumento per fare emergere chi siamo e i sentimenti su cui dobbiamo lavorare. Qui impariamo ad affrontare problemi, paure e autosvalutazione. Ripartiamo da zero: la sostanza ha bloccato il nostro percorso di crescita, perché tutto ciò che si fa con la sostanza non è reale. Qui siamo tutti sulla stessa barca, per cui si entra nella visione che non bisogna pensare al giudizio degli altri e che dagli errori si fa esperienza” – ci dice. Quando gli domandiamo quale sia stata la sua soddisfazione più grande da quando lavora al forno, ammette che è stato proprio il fatto di aver scoperto la sua passione: Questo settore mi piace, questo lavoro mi rende felice”.

Pane, pinsa, panettoni, colombe, pagnotte romagnole, piada dei morti sono i principali prodotti realizzati usando il lievito madre nel forno di San Patrignano che, come ci spiega Paolo, sforna circa 1 tonnellata di pane al giorno e vede impiegati 18 ospiti della comunità. “Dietro a ogni pane ci sono la storia del ragazzo, il prodotto e la qualità. Posso capire come sta un ragazzo solo da come ha tagliato il pane” – ci rivela Fabio, prima di accompagnarci verso il reparto in cui si producono le piade, altra delizia del forno di SanPa, che però non prevede l’utilizzo del lievito madre. “Anche qui nasce tutto per scherzo, dall’impasto di mia mamma che faceva le piade nelle piadinerie di famiglia. Una sera, in comunità, provai a fare la piadina seguendo la sua ricetta e piacque tantissimo. Oggi è una delle referenze più vendute: realizziamo 7 mila piade al giorno. Le prepariamo con solo olio, solo strutto oppure 100% integrale. Il sistema stesso di produzione è stato pensato per permettere ai ragazzi di comunicare sempre tra di loro, perché l’aspetto sociale è prioritario” – conclude. 

Diventare professionisti del vino a San Patrignano 

PH Comunità di San Patrignano

Il terzo reparto che abbiamo avuto il piacere di visitare è quello del vino, dove ci ha accolto Monia Ravagli, enologa che segue i ragazzi nelle attività legate a questo comparto. “La cantina è stata uno dei primi concetti nati con San Patrignano, anche se inizialmente non si trovava dov’è collocata oggi. Quella odierna è stata costruita a fine anni Novanta/inizio Duemila e, attualmente, prevede 12 etichette su varie tipologie di vini, con tutta la filiera produttiva appartenente a San Patrignano. Abbiamo prevalentemente Sangiovese, principe indiscusso del territorio, poi varietà internazionali che facciamo in taglio bordolese, il ‘78, che è un Cabernet Franc in purezza, 3 bianchi e un rosato, che si chiama Prenna, prendendo il nome da una persona che ha trasferito tutta la sua vita alla comunità e che era molto legata alla cantina. Ciò che oggi si conosce di San Patrignano come progetto ‘cantina’, infatti, lo si deve a Piero Prenna: da qui nasce l’idea di un rosato dedicato a lui” – racconta Monia Ravagli. 

L’enologa spiega che oggi sono circa 60 i ragazzi impiegati nel settore, di cui una decina crea la propria competenza all’interno della cantina, mentre gli altri in vigna: “I ragazzi seguono tutte le operazioni agronomiche, dalle potature invernali alla vendemmia e quindi alla raccolta, che avviene manualmente. Scelgono loro la propria inclinazione, quindi se concentrarsi sul vigneto o sulla cantina”. 

Monia Ravagli evidenzia che il progetto “cantina” è nato da subito con una prospettiva ambiziosa e all’avanguardia: “Già 30 anni fa era molto avanti: poche cantine, in quegli anni, erano state sviluppate con un progetto così ambizioso, soprattutto in Romagna. Questo è stato fatto anche per cercare di formare i ragazzi verso un’idea di cantina moderna: chi esce oggi da questo percorso a San Patrignano è pienamente formato rispetto a quella che è tutta l’operatività di cantiniere. In particolare, c’è stata la volontà di poter sperimentare l’intero processo, fino all’imbottigliamento, nonostante all’epoca non ci fosse il livello di produzione attuale. Questo per fare sì che i ragazzi sviluppassero una competenza completa nel settore. Oggi, uscire dalla comunità con la capacità d’imbottigliamento, ad esempio, rappresenta un plus a livello di curriculum”.

Il vino di SanPa viene distribuito nel canale Horeca e ha diversi mercati di destinazione. “Quello italiano (soprattutto la Romagna) rappresenta quello principale. Il resto è composto in particolare da Germania, Belgio, Svizzera, Olanda e Giappone: abbiamo un importatore giapponese da oltre 15 anni” – conclude l’enologa.

Lavorare nell’agroalimentare: uno strumento di rinascita

“Oggi l’uso di sostanze è stato in un certo senso ‘sdoganato’, quasi accettato dalla società. In realtà, rimane un problema enorme per i ragazzi” – ammonisce Federica Imbrunetti. “Le storie da raccontare sarebbero tante. Ci sono quelle di dipendenza iniziate da giovanissimi, dove la persona arriva a San Patrignano considerandola come la sua ultima possibilità. Poi ci sono le vicende di chi, una volta uscito, torna al lavoro o all’azienda di famiglia di cui fino a quel momento non si era mai occupato perché grazie alla comunità capisce cosa vuol dire farsi carico di un progetto dall’inizio alla fine e assumersi delle responsabilità, ma anche quelle di coloro che, attraverso il percorso a San Patrignano, capiscono qual è la propria vocazione nella vita” – conclude la Responsabile Marketing Agroalimentare. 

Questa esperienza ci ha quindi mostrato come la realizzazione di prodotti alimentari in una realtà rurale come questa possa essere non solo un mezzo per arricchire le nostre tavole con cibi buoni e genuini. Hai mai provato i prodotti della comunità?

Immagine in evidenza di: Comunità di San Patrignano

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