Colori Del Cibo, Prima Parte

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Molti mammiferi carnivori, come il cane, non vedono “a colori” ma soltanto “in bianco e nero” per il semplice motivo che la carne viva, di cui si cibano, ha un solo colore, il rosso, detto proprio per questo “rosso vivo”. Tuttavia essi compensano questa mancanza con una maggiore acuità visiva, che permette loro di cogliere particolari più minuti a maggiori distanze e soprattutto con un migliore olfatto. Invece, le piccole scimmie arboricole da cui discendiamo erano vegetariane e si nutrivano di bacche e frutti maturi che trovavano fra i rami. E una vista a colori è un ottimo strumento per riconoscere i frutti velenosi da quelli buoni e quelli acerbi e amari (in genere verdastri) da quelli maturi (in genere arancioni, rossi o viola) o da quelli ormai troppo maturi (in genere di colore più smorto e bruno). Così noi uomini, che dalle scimmie discendiamo, vediamo a colori ma abbiamo un odorato alquanto scadente e una acuità visiva non eccezionale rispetto ad altri animali. Ma tutto sommato, per dirla con Catalano, è meglio un film a colori da vicino che uno in bianco e nero da lontano!

Il colore è dunque per noi un prezioso indicatore della qualità del cibo e aiuta a scegliere fra quelli più adatti alle nostre necessità. Il colore si dimostra pertanto uno degli elementi naturali di scelta più preziosi. Ma da tempo l’uomo ha anche imparato a colorare i cibi per aumentarne la piacevolezza ovvero per restituire loro quei colori persi nelle fasi di cottura o conservazione, aumentandone così appeal e digeribilità.
Riguardo il colore del cibo, possiamo pertanto distinguere due aspetti differenti, uno diciamo così naturale, legato cioè al colore quale identificatore di proprietà naturali ovvero quale strumento di scelta fra le diverse possibilità che il mondo naturale mette a disposizione e un aspetto che possiamo definire culturale, legato al colore quale elemento che l’uomo aggiunge al cibo per migliorarne l’aspetto ovvero per ridargli al cibo l’aspetto originale che può essere andato perduto nelle fasi di preparazione, appunto culturale, che la cucina impone.
Al primo aspetto, quello naturale, si rifà per esempio il motivo per cui, in genere, i frutti acerbi sono verdi laddove quelli maturi appaiono rosso-arancioni o violetti o giallo carico.
Al secondo aspetto, invece, possono essere rimandati, per esempio, l’uso di acidi come il succo di limone per evitare l’imbrunimento della frutta appena tagliata ma anche il grande capitolo delle colorazioni industriali dei cibi preparati (cui appartiene, per esempio, la scelta di colorare di verde gli sciroppi alla menta che in realtà sarebbero incolori).

In questo primo articoletto ci occuperemo, anche se in maniera necessariamente approssimata, del primo aspetto, quello del colore quale indicatore naturale di determinate proprietà degli alimenti, rimandando ad un successivo articolo l’esame del colore quale elemento di miglioramento estetico del cibo.
L’importante è capire “cosa c’è sotto” per poter scegliere in maniera consapevole non solo fra gli alimenti naturali, specie quelli esotici che non conosciamo, ma soprattutto fra le tantissime offerte che ci vengono proposte dall’industria degli alimenti, che ben conosce i meccanismi psicologici innescati dai colori nella scelta. Con il giornaledelcibo, infatti, riteniamo che la conoscenza sia l’unica arma in mano a noi consumatori per poter scegliere in maniera davvero consapevole.
Poiché però i due argomenti, quello dei colori quali indicatori di proprietà naturali e quello dei colori quali artifizi culturali, si intersecano fra loro abbastanza spesso, ci potrà capitare a volte di saltare da un aspetto all’altro per meglio chiarire o per per fornire subito le giuste chiavi di lettura.
Partiamo dalla carne e dal suo colore naturale.

Il colore della carne

taglio di carne bovinaNei muscoli degli animali esiste una proteina, chiamata mioglobina, che serve per accumulare l’ossigeno necessario alle attività cellulari. È molto simile alla più nota emoglobina, che serve invece a trasportare l’ossigeno dai polmoni ai vari organi. E, come l’emoglobina, anche la mioglobina contiene un atomo di ferro. Di per sé la mioglobina sarebbe di colore rosso violaceo ma il colore che manifesta dipende molto da cosa gli sta attorno. Così, se viene a contatto con l’ossigeno dell’aria, come nel caso di una ferita, si trasforma in ossiemoglobina, che ha un bel colore rosso vivo. Tuttavia, se il contatto con l’aria si prolunga troppo, succede che l’atomo di ferro al centro della molecola si ossida, ovvero cambia un po’ la propria struttura, e la mioglobina da rossa diventa bruna. Ecco perché le carni macellate da parecchio tempo ed esposte all’aria acquistano questo colore o, per dirla in modo diverso, ecco perché possiamo dire che carni brune o grigiastre non sono state macellate di recente. Anche la cottura, oltre a cambiare la forma delle proteine (i chimici parlano di denaturazione), favorisce l’ossidazione del ferro ed infatti la carne cotta non appare più rossa ma grigia. E così operano anche la macerazione con succo di limone o aceto, tanto che queste operazioni possono essere considerate delle specie particolari di cotture a freddo.

taglio di carne di agnello con il rosmarinoL’associazione mentale fra carne rossa e carne “fresca” è, come dicevamo all’inizio, basata su un fatto reale -la mioglobina appena ossidata è rossa- e l’uomo ha sempre impiegato questa associazione visiva per sceglierla. In realtà, quest’associazione sarebbe ancora più utile oggi, visto che non sappiamo molto sull’origine di ciò che mangiamo, ma le tecniche di conservazione l’hanno resa del tutto inefficace ed, anzi, fuorviante. Infatti per far sì che la carne conservata –parliamo soprattutto di salumi e prosciutti- rimanga nel tempo bella rossa e non acquisti un colore grigiastro poco invitante, si aggiungono ad essa nitriti o nitrati, questi ultimi come fonte di nitriti. Così nelle carni crude si ottiene un bel colore rosso, esaltato dalle luci rossastre dei banchi frigoriferi delle macellerie. Nelle carni cotte, come nel caso dei pubblicizzatissimi prosciutti cotti, si ottiene invece un delicato colore rosa, ritenuto molto “pagante” da un punto di vista commerciale.

Peccato che la natura, a volte, sia matrigna e a lungo andare, nonostante l’aggiunta di nitriti e nitrati, anche sulla superficie di questi prodotti, se esposti per troppo tempo all’aria, si formano composti bruni, dovuti all’ossidazione del ferro da parte dell’ossigeno dell’aria. Per questo, se non si vuole cioè che le fette di salame o di prosciutto, arrossate dai nitriti, imbruniscano miseramente, occorre conservarle al riparo dell’aria. Così vengono avvolte in più strati di carte plastificate che aderiscono perfettamente alla loro superficie. In questo modo si preserva il colore già artefatto e si aggiunge al rischio di ingurgitare nitriti anche quello di assorbire i solventi organici presenti nelle plastiche… Ma non sarebbe meglio rinunciare a un po’ di vividezza cromatica in cambio di un po’ di salute in più? Ecco in ogni caso perché la prima fetta di un salamino appare grigia o nerastra mentre all’interno la polpa rimane bella rossa: l’ossigeno ha lavorato solo in superficie e non è ancora riuscito a penetrare all’interno. Se si trattasse solo di migliorare l’aspetto delle carni conservate, l’uso di questi composti sarebbe auspicabile. Sappiamo tutti, infatti, che l’occhio vuole la sua parte e che la digestione è influenzata anche da un aspetto piacevole. Il problema è che purtroppo nitriti e nitrati reagiscono con le ammine naturalmente presenti nel nostro organismo, formando le famigerate nitrosammine, che sono sostanze cancerogene. Questo è davvero un buon motivo per non esagerare con questi prodotti o, se si può, per scegliere quelli che ne sono privi.

Un’ultima cosa riguardo il colore della carne è il colorito giallognolo o addirittura verdastro che essa può assumere in caso di cattiva conservazione. Il colore verde dipende dall’attacco della mioglobina da parte di acido solfidrico, la sostanza che dà il caratteristico odore alle uova lesse e che può provenire dalle carni stesse o da sostanze vicine. Il colore giallo invece può essere dovuto ad alcuni batteri che sviluppano acqua ossigenata, la quale si lega alla mioglobina donandole questo caratteristico e poco invitante colore. In questi casi la pattumiera è l’unica soluzione…

Il colore dei vegetali

caspo di bananeI coloranti naturali di molti fiori, frutti e bacche, hanno composizione chimica abbastanza simile, anche se molto complessa: si tratta di prodotti che contengono polifenoli, oggi tanto di moda perché ritenuti –e non a torto- forti antiossidanti e quindi dotati di caratteristiche anti-invecchiamento e addirittura anti-cancro. Queste sostanze, di cui varrà la pena parlare più estesamente in un’altra occasione e di cui ci siamo già occupati parlando del tè, svolgono in natura diversi compiti, fra cui il più evidente è quello di rendere amari, acerbi e astringenti i germogli e i frutti appena sbocciati, affinché gli animali non se ne cibino. Col tempo, ovvero con la maturazione dei frutti, questi stessi composti vengono degradati in zuccheri dal sapore dolce che hanno il compito opposto, quello cioè di attrarre gli animali per essere mangiati affinché poi i semi siano dispersi in giro attraverso le deiezioni. È la strategia antica ed efficacissima che le piante adottano per “muoversi” e propagarsi in ambienti sempre più vasti.

frutti di boscoI colori violetto, blu, rosso ciliegia e rosa di uve nere, prugne, mirtilli, more, melograni, ribes, lamponi, ciliegie, ma anche di melanzane o cavoli, sono dovuti a una specifica classe di polifenoli, le antocianine. Il colore di questi composti è molto sensibile all’acidità e così la maturazione naturale, che ne diminuisce l’acidità, fa sì che cambi anche il loro colore (i chimici, con lirismo insolito, amano dire che il colore “vira”). È il fenomeno che permette alle scimmie che vivono sugli alberi, ma anche a tutti noi al supermercato, di riconoscere lo stato di maturazione della frutta o di alcuni ortaggi con una semplice occhiata. Ancora una volta, come nel caso della carne rossa, siamo davanti a una antichissima associazione mentale, basata sull’esperienza, fra colore e appetibilità.

Altri polifenoli, questa volta del gruppo dei chinoni, subiscono modificazioni strutturali e quindi colore, quando sono esposti all’azione di particolari enzimi presenti nelle stesse piante. Quando una banana o una mela, che sono ricchi di questi composti, subiscono un’ammaccatura, gli enzimi vengono a contatto con questi chinoni, e il frutto cambia colore. Lo stesso accade se i frutti vengono tagliati: immediatamente gli enzimi attaccano i chinoni, colorando di bruno la superficie esposta al taglio. L’aggiunta di antiossidanti, come gli acidi citrico e ascorbico, contenuti nel succo di limone, può interrompere per un po’ questa reazione enzimatica (per questo si aggiunge succo di limone o di arancia alla macedonia) ma alla lunga la reazione avviene comunque (e la macedonia perde il suo aspetto “fresco”).

aranceA un particolare gruppo di chinoni, i cosiddetti flavoni, appartengono molti coloranti del regno vegetale. Ad essi è dovuto per esempio il colore dorato del tè, del mais, dell’uva bianca e di alcune mele chiare, ma anche di cedri, limoni, mandarini e arance e perfino di prodotti a cavallo fra regno vegetale e animale, come il miele, fatto dalle api con il polline dei fiori. A tutt’altro tipo di composti chimici appartengono i carotenoidi e le xantofilline, responsabili dei colore arancione delle carote ma anche di quello rosso dei pomodori e dello zafferano che, come è noto, a piccoli dosaggi appare giallo. Queste sostanze sono responsabili anche dei bellissimi colori fra il giallo e il rosso dell’autunno. Sono infatti contenute nelle foglie assieme alla clorofilla verde ma sono oscurate da queste ultime e non si vedono se non quando, a fine estate, la clorofilla si decompone, scolorandosi. Queste sostanze gialle o rosse, in realtà, non sono esclusive del regno vegetale, essendo presenti anche in alcuni alimenti di origine animale, come nel dorato tuorlo dell’uovo ma anche nel fegato.
Un po’ diversi sono i coloranti del gruppo delle flavine, sempre di colore giallo, diffuse nel regno animale e che si riscontrano, per esempio, nelle frattaglie e in alcuni lieviti.

cavolfiori bianchi, verdi e violaUna classe di coloranti naturali molto differente, è invece quella delle melanine, che sono nere o bruno scure. Le melanine sono molto diffuse nel regno vegetale, soprattutto nei semi (chi non conosce i nerissimi semi di anguria o delle comunissime mele e pere?) ma si ritrovano anche nel regno animale e, senza volerlo, sono alla base di una delle forme più odiose di discriminazione, quella fondata sul colore della pelle. La ragione della loro presenza è sempre difensiva: nei semi delle piante, per esempio, proteggono la parte più delicata della pianta, quella in cui è contenuta l’informazione genetica, dall’aggressione dei potenti raggi ultravioletti solari, che altrimenti potrebbero alterare il patrimonio genetico. Le melanine animali esplicano un’azione simile, ovvero fotoprotettiva nei confronti del sole, sia sulla nostra pelle che nelle pupille degli occhi. In altri casi hanno funzione mimetica, come nel nero di seppia o nei pigmenti che rendono neri insetti come le mosche e le formiche, affinché si confondano meglio con le ombre delle cavità nelle quali si nascondono.

cavolini di bruxellesL’ultima classe di composti colorati che vale la pena di ricordare, è quella delle clorofille, responsabili del colore verde del mondo vegetale. Le clorofille naturali sono due, quella A, verde blu e quella B, verde gialla. Sono molecole complesse, contenenti al loro interno un atomo di magnesio. Durante la cottura dei vegetali verdi, il magnesio viene sostituito da due atomi di idrogeno e così il vegetale cambia colore, passando da verde brillante a verde oliva (e i composti cambiano nome: da clorofille diventano feofitine). Questo spiega perché le verdure, con la cottura, perdono la tipica brillantezza e lo smalto cromatico delle foglie fresche. Se comunque si vuole evitare la perdita di colore durante la cottura, è sufficiente aggiungere all’acqua di bollitura un po’ di bicarbonato, che agisce come sostanza anti idrogeno. È un trucco semplice, tra l’altro ampiamente impiegato nei ristoranti e nelle tavole calde.
Come detto all’inizio, ne parleremo più diffusamente nel prossimo articoletto sui coloranti aggiunti, ma qui non possiamo fare a meno di accennare ai coloranti verdi aggiunti ai cibi, proprio per richiamare la loro freschezza. Se sull’etichetta troviamo scritto E140, allora come colorante verde è stata usata semplice clorofilla naturale, estratta da qualche pianta commestibile; se invece c’è scritto E141, allora sono stati impiegati composti simili alla clorofilla ma nei quali l’atomo di magnesio è stato sostituito da un atomo di rame. Questi coloranti sono più resistenti nel tempo ma sono stati avanzati dubbi sulla loro tossicità. Se infine troviamo scritto E142 o “verde acido brillante”, allora per colorare di verde l’alimento è stato usato un colorante completamente sintetico, che nulla ha a che fare con la clorofilla o con sostanze naturalmente presenti nell’ambiente.

Per finire alleggerendo un po’ il tono, che spero non sia diventato strada facendo troppo tecnico, vorrei suggerire alcuni spunti di riflessione sul colore dei nostri cibi.

Curiosità legate al colore dei cibi

caspi di insalataUn prima curiosità è legata al colore delle insalate. Tutti i cuochi sanno che l’olio va messo all’ultimo momento, altrimenti le insalate perdono la loro vivacità, il colore diventa smorto e anche l’aspetto si fa meno invitante. Perché succede questo?
Perché l’olio penetra nel primo strato di cellule vegetali e va a riempire i “buchi” pieni d’aria che esistono all’interno delle strutture vegetali per vari motivi (sia per alleggerire la pianta che per migliorare l’isolamento termico e per altre ragioni ancora). In questo modo cambia quello che i fisici chiamano, per dirla difficile, indice di rifrazione della struttura. In parole povere viene a mancare una serie di bollicine d’aria che prima riflettevano la luce dando brillantezza alle foglie. Dopo l’aggiunta dell’olio, invece, specie se è passato un po’ di tempo, le foglie diventano opache. Inoltre l’olio, scacciando l’aria dalle foglie, ne demolisce anche la struttura fisica, che si indebolisce e, detto in termini molto semplici, la foglia si “ammoscia”, cadendo su se stessa. Questo fatto meccanico, associato alla perdita di brillantezza, dà al piatto di insalata un aspetto molo meno invitante. Il gusto rimane lo stesso (e anzi alcuni lo trovano migliore) ma l’aspetto è decisamente peggiore e siccome anche l’occhio vuole la sua parte…

burro fusoUna seconda curiosità è invece legata al burro. Molti consumatori quando comprano il burro cercano quello più giallo, pensando che questo colore sia un indicatore di genuinità. In realtà il colore giallo del burro deriva dai caroteni, ovvero da polifenoli di colore arancio che prendono il nome dalle carote in cui sono abbondantissimi, contenuti nei foraggi che alimentano le mucche che fanno il latte. Così, in effetti, il colore giallo del burro non significa assolutamente niente da un punto di vista di bontà del prodotto ma sono soltanto un indice di quello che le bestie avevano mangiato. Inoltre, proprio perché le case produttrici di burro si sono accorte di questa curiosa preferenza dei consumatori per il burro giallo, ecco che da parecchio tempo, non tutte ma molte, si sono messe a colorarlo di giallo.

uova spaccate che cuocionoUna terza curiosità è infine legata alle uova. Molti di noi avranno notato che da parecchi anni le uova non hanno più il guscio bianco! L’uovo bianco, che un tempo era disegnato sui tabelloni di scuola elementare per la lettera “U”, “U come Uovo”, è infatti diventato marroncino, arancio-beige. Contemporaneamente i tuorli, che i nostri nonni ricordano gialli (ricordate un vecchio liquore a base di tuorlo d’uovo, che era giallo che più giallo non si poteva?), sono diventati arancioni se non rosso fuoco!
Ma con questa terza curiosità passiamo al colore quale elemento culturale, quale strumento di marketing… e allora ce ne occuperemo nel prossimo appuntamento.

di Gianluigi Storto

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