Le parole hanno un potere enorme, e sono in grado di plasmare non solo il nostro presente ma anche i comportamenti dei singoli individui, instaurando risposte consce e inconsce. Viviamo in un mondo in cui, quando andiamo a fare la spesa, al bar o al ristorante, guardiamo la televisione o accediamo al web e ai suoi infiniti servizi e possibilità, veniamo indirizzati costantemente come “consumatori”, e cioè come semplici “utenti di beni economici” alla fine di una lunga catena produttiva. Questa parola, però, non è neutra e sottintende un atteggiamento passivo da parte delle persone: in particolare, in campo alimentare, il ruolo dell’individuo quindi è spesso ridotto all’atto di comprare e consumare cibo, senza porsi troppe domande. La sua unica azione è quella di scegliere tra i prodotti e i servizi offerti, pensando solo a soddisfare un proprio bisogno. Questo atteggiamento però è limitante e racconta una storia parziale, perché sappiamo bene che il cibo è molto di più: dietro, ci sono aspetti che vanno dal problema dell’accessibilità al benessere degli animali, dai diritti dei lavoratori all’impronta ambientale, e così via.
Ma cosa accadrebbe, invece, se trovassimo una nuova parola per definirci? Se cominciassimo a pensarci come “cittadini” consapevoli e attivi al centro di un sistema alimentare comunitario, che tiene conto di una maggiore vicinanza, connessione e trasparenza tra attività di produzione, trasformazione e, appunto, consumo del cibo? In questi ultimi anni, soprattutto a partire dal Regno Unito, sono emersi nuovi bisogni che hanno dato avvio a quella che è stata definita the era of the food citizen, ossia l’“era della cittadinanza alimentare”, per far fronte ad alcune problematiche urgenti – sociali e ambientali – che ci riguardano sempre più da vicino. Ma in cosa consiste esattamente? Che cosa significa essere “cittadini alimentari”?
Disuguaglianze alimentari, sprechi e sostenibilità: i problemi al centro del dibattito
Come ha spiegato anche Lucio Cavazzoni di Good Land, la produzione di cibo non è limitata soltanto alla nutrizione e al puro e semplice soddisfacimento di un bisogno. È in realtà molto di più e deve tenere conto di tutta una serie di temi ambientali e sociali fondamentali per essere considerata “buona”.
In primis, c’è il problema della fame e dell’accessibilità al cibo sano che, oggi più che mai, è al centro del dibattito mondiale, a causa della pandemia che ha esacerbato le ingiustizie legate alle disuguaglianze alimentari. Vi abbiamo raccontato già come, stando al più autorevole rapporto sui progressi compiuti in questa direzione The State of Food Security and Nutrition in the World pubblicato dalla FAO nel 2020, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, nel 2019 quasi 690 milioni di abitanti del pianeta hanno sofferto la fame. Quasi 3 miliardi di persone, inoltre, non hanno la possibilità socio-economica di seguire una dieta salutare, e il rapporto lancia anche un allarme relativo all’emergenza sanitaria, aggiungendo che altri 130 milioni di abitanti potrebbero cadere nella morsa della malnutrizione cronica e che ben 10 dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 sono stati compromessi. La povertà alimentare, quindi, sta coinvolgendo sempre più fasce di popolazione che prima ne erano del tutto estranee, come vi abbiamo raccontato anche riguardo all’Italia intervistando Don Francesco Soddu, direttore di Caritas Italia.
A tutto questo si aggiungono altri due problemi davvero impellenti: quello degli degli sprechi alimentari – soprattutto in fase di trasformazione e distribuzione – e quello della sostenibilità ambientale. Sempre la FAO, ha calcolato che ogni anno si sprecano indicativamente 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, pari a un terzo della produzione totale destinata al consumo umano. Mentre per quanto riguarda il secondo aspetto, abbiamo visto come, secondo il rapporto del WWF, il 10% della deforestazione globale è causata dai consumi dell’Unione Europea – in particolare, la produzione di caffè, carne bovina e suina.
Ripensare all’intero food system: la nascita di nuove forme di cooperazione
Tutto questo ha fatto emergere quanto sia necessario – e urgente – cambiare rotta e ripensare all’intero sistema delle filiere agroalimentari, al mercato e all’impatto che certi cibi hanno a livello ambientale. Fortunatamente, negli ultimi anni una maggiore consapevolezza su queste tematiche ha portato a nuove forme di cooperazione tra i “consumatori” e i produttori, in cui i primi svolgono un ruolo più attivo. Oltre alle iniziative come i GAS, i gruppi di acquisto solidale o a quelle di giardinaggio urbano collettivo, un esempio importante, di cui vi abbiamo raccontato recentemente, è quello che riguarda le CSA, ossia le “Comunità che Supportano l’Agricoltura”, che propongono un innovativo modello socio-economico di prossimità e di fiducia reciproca.
Tutte queste iniziative di partecipazione agricola, alimentare e sociale possono essere racchiuse sotto a un movimento che sta prendendo sempre più piede, quello della Food Citizenship, che potremmo appunto tradurre con “cittadinanza alimentare”. Vediamo di cosa si tratta.
Food Citizenship: che cos’è e cosa significa la “cittadinanza alimentare”?
Da anni, per racchiudere queste nuove forme cooperative, negli Stati Uniti e nel Canada si parla di “agricoltura civica”, come di “un’agricoltura profondamente responsabile fondata su pratiche sociali, economiche ed ambientali sostenibili”. Da questo concetto ne sono poi emersi altri, come quello della “cittadinanza ecologica” (ecological citizenship), che incoraggia gli individui, le comunità e le organizzazioni in quanto cittadini del mondo a considerare i diritti e le responsabilità ambientali, a cui si intreccia quello ancora più ampio della food citizenship e cioè della “cittadinanza alimentare”, che nel Regno Unito ha portato alla creazione di un vero e proprio movimento di organizzazioni.
Con questa definizione tutti gli attori della filiera sono chiamati a fare comunità e rete: produttori e consumatori non sono più, quindi, entità indipendenti tra loro, ma collaborano e cooperano come cittadini in un’ottica di sostenibilità e solidarietà. Dal punto di vista del consumatore, quindi si va ben oltre il privilegio di scegliere del cibo “buono”, ma si intende la “pratica di impegnarsi in comportamenti legati al cibo che supportano, piuttosto che minacciare, lo sviluppo di un sistema alimentare democratico, socialmente ed economicamente giusto e sostenibile dal punto di vista ambientale”. L’obiettivo, quindi, è quello di creare un sistema alimentare più equo e resiliente.
Da consumatori passivi e cittadini attivi
Come raggiungere l’obiettivo? Il primo passo è creare un nuovo linguaggio per parlare di cibo e di agricoltura, come hanno sottolineato anche Le Donne dell’Ortofrutta riguardo l’importanza di rinnovare l’alfabeto nella comunicazione del settore per cambiarne la percezione e evidenziarne il valore.
Ebbene, secondo chi fa parte del movimento, è infatti fondamentale ridefinire il grado di coinvolgimento degli attori all’interno della filiera, partendo proprio dalla parola “consumatori”. Stando alla ricerca del New Citizenship Project, un laboratorio di innovazione sociale istituito nel 2014 nel Regno Unito, il semplice fatto di rivolgersi alle persone come “cittadini” – piuttosto che “consumatori” – rende più propensi a prendersi cura l’uno dell’altro, ad agire collettivamente o a partecipare in maniera attiva alla società. Viviamo in una realtà in cui siamo, appunto, etichettati come “consumatori”, il che ci rende totalmente distaccati dal nostro ruolo all’interno di questioni come il benessere animale o ambientale, le disuguaglianze alimentari e gli sprechi, mentre il cittadino alimentare si fa “responsabile”, si preoccupa che tutti abbiano accesso a cibo sano e sostenibile e agisce per ridurre l’impatto negativo dei suoi consumi.
Cosa definisce un “cittadino alimentare”?
Sempre Lucio Cavazzoni ha spiegato che, “quando ci si sente responsabili di qualcosa, si diventa responsabili”. Il concetto di cittadinanza alimentare è quindi legato a quello di consapevolezza, responsabilità ma anche azione. Non basta essere solo consumatori “consapevoli” e quindi ancora passivi, ma cittadini attivi, che, attraverso le proprie scelte di acquisto – che hanno un proprio valore politico – e una maggiore collaborazione reciproca (tra loro e i produttori), non sono più ai margini della filiera alimentare. Sono invece attori protagonisti verso il cambiamento sociale, che andranno sempre più coinvolti da parte di aziende e nuovi modelli di governance, condividendo intenti e obiettivi. Una maggiore attenzione da parte delle persone, ad esempio nei confronti dei metodi di produzione o della sostenibilità del packaging dei prodotti alimentari, sta portando le aziende stesse a muoversi – seppur lentamente – in questa direzione.
Quindi, un food citizen è:
- attivamente consapevole dei problemi che investono il settore dell’agrifood;
- ha un interesse nel definire ed esercitare le sue preferenze alimentari e partecipa in qualche modo ad azioni collettive orientate in questa direzione;
- supporta un processo democratico di coinvolgimento delle persone nelle dinamiche del sistema alimentare;
- sceglie il cibo in base alla sua origine, a come viene prodotto e a chi lo produce;
- influenza molti aspetti del sistema alimentare, compresa la giustizia socio-economica e la sostenibilità ambientale, grazie alle scelte di acquisto.
Tornando alla questione dell’importanza delle parole, dunque, abbiamo visto come il modo in cui pensiamo a noi stessi può avere un impatto notevole sulla società che ci circonda, dotandoci di un nuovo potere in cui siamo noi i fautori del cambiamento e liberando la nostra capacità di guidare il sistema alimentare verso uno che sia più equo per le persone, gli animali e il pianeta. E forse, questo movimento non dovrebbe rimanere confinato al Regno Unito o all’estero, ma dovremmo anche noi cominciare a spingere verso questa direzione creando nuovi modelli cooperativi, perché, come recita il movimento inglese Food Citizenship, “siamo cittadini, non solo consumatori”.