Dalla metamorfosi di Kafka a Moby Dick, la letteratura ha sempre raccontato e trasmesso i valori sociali e culturali del cibo attraverso le sue opere. Per valorizzare e testimoniare questo legame, abbiamo voluto rilegare, in senso metaforico, una serie di racconti legati al cibo, frutto della mano e dell’animo creativo di talentuosi scrittori.
I raccontini saranno pubblicati su Il Giornale del Cibo ogni mercoledì, non perdeteli!
Lei
di Franco Faggiani
Lei, donna in carriera. Io, uomo in corriera. Lei, norvegese di Bergen, indaffarata con le ricerche petrolifere nei mari del Nord. Io, pendolare tutti i giorni da Anguillara Sabazia a Roma, dove approdavo prima delle undici. Con la Cotral Bus, appunto. Non è che me la prendessi comoda, perché mi alzavo tutte le mattine alle sei e andavo per orti e pollai. Pigliavo pomodori, carciofi, basilico e sedani, fagiolini e zucchine, secondo la stagione. Poi uova ancora calde e polli ruspanti per davvero. E conigli secchi come purosangue ma saporiti come pernici grasse. A volte, quando la nottata era stata buona per calare le reti, prendevo anche un cartoccio di coregoni, che sono i pesci di lago che preferisco. Arrivato a Roma mi chiudevo nella cucina dell’Hostaria Al Gladiatore. Quella di fronte al Colosseo, inutile quasi dirlo. Aiuto cuoco. Niente Bottura o Andrià, avevo imparato da mia nonna, ad Anguillara. Un marito, sette figli maschi, altrettante nuore, una quantità imprecisata di nipoti famelici sempre in giro per casa.
Lei l’avevo vista lì, al tavolo otto, quello col panorama migliore. Era in vacanza, naturalmente. A Roma di pozzi ce ne sono tanti ma da nessuno zampilla petrolio. Robe schifose sì, ma petrolio nisba. Quella sera aveva esagerato con il vino, un Brunello di Montalcino da 140 euro. Aveva preteso – si sa come sono certe nordiche manager – che le fosse servito freddo anzi, ghiacciato; roba da cacciarla via solo per questo. Fatto sta che il vino ghiacciato va sempre giù come niente. A lei aveva dato un equilibrio assai precario. Così, visto che eravamo in chiusura, il capo m’aveva detto di darle una mano a raggiungere l’albergo, non tanto lontano.
Per un paio d’anni ho vissuto a Bergen. Con lei e con la promessa che mi avrebbe finanziato un localino per cucinare italiano. Una pizzeria no, ce n’erano già, tutte in mano agli egiziani. Anche lì. Con lei, fisicamente, andava bene. Andava però per le lunghe la faccenda del localino. Perché nel frattempo aveva cambiato incarico, era finita nei trasporti navali. Aveva un sacco da fare e non la vedevo quasi più. Siccome ho un po’ di dignità, mi ero trovato un posto in un ristorante nel distretto di Ytrebygda, che solo a pronunciarlo mi si sgancia il ponte che sostiene il primo e il secondo molare superiore. Tutti i giorni avevo a che fare con il rakfisk, la trota fermentata, il grawlasks, il salmone con sale e zucchero, i krabbelag, granchi grandi come la pizza Margherita. E klippfisk, il baccalà, a tutto spiano. Carne, ogni tanto. Quando andava bene il farikal, agnello e cavolo, sennò stufati di renna o alce. Pomeriggi interi a tenerli d’occhio nella sommessa ma prolungata cottura.
Poi c’era Bergen, fiordi plumbei davanti e sui fianchi e montagne sopra la testa. “La città della pioggia” la chiamano. Basta a rendere l’idea.
Un pomeriggio, mentre andavo al lavoro in autobus, la vidi. Fuori era buio pesto, per quanto fossero nemmeno le 15. La gente seduta imbacuccata, silenziosa, occhi fissi come quelli delle bambole, facce tristi. Nemmeno una parola, un cenno di sorriso, un cenno qualunque. Però alzai lo sguardo e la riconobbi al volo. Un pugno al cuore. La Rosetta. Non una donna, ma quel piccolo pane romano vuoto all’interno, tondo, croccante, col “bottone” sulla testa. Mia nonna me la dava a merenda con dentro la frittata spessa o la mortadella. Solo a vederla ne sentivo il profumo, il calore, persino il sapore. La rosetta e la “mortazza”. Rotonda, grande, profumata, che quasi si scioglie nel pane appena sfornato. Anche se lì la Rosetta era su carta lucida, nella pubblicità di un Italian Bakery che presto avrebbe aperto i battenti in via Stromgaten, proprio in centro. A guardarla bene, nella forma e nel colore mi ricordava pure il sole che al tramonto indorava la campagna romana. La mattina dopo presi l’aereo.
Rieccomi alla vita di prima. Senza lei. Per fortuna mi hanno ripreso Al Gladiatore. Sempre aiuto cuoco. Il menù, grazie alla mia esperienza internazionale, comunque si è arricchito. Con “le polpette di pesce alla vichinga”. Simili a quelle dell’Ikea. Le faccio io. Però con il coregone.