Alimentazione e settima arte ricoprono un ruolo importante nella vita dell’uomo: il cibo è un bisogno fisiologico, mentre il cinema fin dalla sua nascita soddisfa il bisogno umano di sfuggire per un attimo alla realtà, sognando ad occhi aperti.
Così diversi, eppure così simili: nel cinema come nel cibo proiettiamo i nostri desideri e le nostre paure. In un certo senso sono entrambi bisogni irrinunciabili e antropologici. Facendo attenzione troviamo molti altri caratteri comuni fra questi due mondi: il cliente di un ristorante è disposto a pagare per usufruire di un servizio a cui è spinto da un bisogno, esattamente come lo spettatore di un film. Sia cinema che cibo sono pietre miliari della comunicazione sociale e dello sviluppo relazionale: il primo appuntamento romantico da ragazzi guarda caso è proprio al cinema, oppure a cena.
Sullo schermo come in cucina l’evoluzione nasce sempre dalla sperimentazione. Ecco una carrellata di termini che ritroviamo in entrambi i settori: “pizza” è il nome in gergo della pellicola; è di uso comune l’espressione “cucinare un film” o “dare in pasto agli spettatori”, spesso una creazione cinematografica può essere definita “pesante”, “indigesta” o “sciropposa”. Fino ad arrivare alla consapevolezza che ormai le due sfere si stanno confondendo. L’ambizione dei cuochi e della gastronomia moderna non è più “sfamare” ma far sognare l’ospite allo stesso modo delle opere d’arte cinematografiche.
In quale modo cinema e cibo si sono legati nel tempo? Tutto ebbe inizio nel 1895, in una dei primi lavori dei fratelli Lumière intitolato “Le répas de Bebè”, dove venne ripresa una delle scene di vita familiare più intime: un bambino imboccato dai genitori. Il cibo non a caso diventa subito protagonista dello schermo a partire dalle prime pellicole fino ai giorni nostri; durante tutti questi anni l’alimentazione ha ricoperto le più svariate simbologie: storiche, sociali, culturali, erotiche, nevrotiche e spirituali. Diceva Eugenio Montale:
“Non potendo studiare l’uomo in tutte le sue facoltà ed abitudini, ho scelto la più duratura ed anche la più piacevole: la nutrizione. Dal modo di mangiare degli altri, dalla loro scelta, dal loro modo di comportarsi, in questa quotidiana ritualità io traggo considerazioni in ordine generale, risalgo alla Cause e ai Fini.”
Verifichiamone la veridicità intraprendendo questo excursus cine-gastronomico attraverso le scene più celebri dei miti della nostra cucina.
La Pasta
“Maccarone, m’hai provocato e io ti distruggo adesso, maccarone! Io mo te magno, ahmmm!”
(Un Americano a Roma, 1954)
Ai Primi e alla nostra amata Pasta sono dedicate la maggior parte delle scene cinematografiche che ci rappresentano nel mondo. La frase sopra citata -l’avrete sicuramente riconosciuta- appartiene alla scena di “Un americano a Roma” (1954), dove Nando Mericoni (Alberto Sordi), estenuato dalla dieta americana, minaccia un piatto di pasta per poi avventarsi su di esso. Ci troviamo nell’Italia degli anni 50, dove sta dilagando il mito della cultura americana e tutto – modo di vestire, di parlare e di mangiare – sembra adeguarsi al modello oltreoceano. In questo caso la pasta è la rivincita del modo di vivere italiano su quello straniero: il protagonista del film arriva addirittura a sostituire il termine italiano “bucatini” al dispregiativo americano “maccaroni”, ma non può resistere alla loro bontà!
Stessa voracità, causata da differenti circostanze, è quella che spinge i personaggi di“Miseria e Nobiltà” (1954) ad assalire un piatto di Vermicelli al pomodoro. Il film, ricordato per la scena degli spaghetti mangiati con le mani e messi in tasca, è l’emblema di Totò, maschera della fame del cinema italiano per eccellenza. Il piatto verace e popolare che viene mangiato senza dar conto alle buone maniere, in questo caso, rappresenta l’antico rituale che lega uomo e cibo, come riempimento e appagamento. Dietro alla pittoresca immagine ripresa dal “mangiamaccheroni” napoletano, oltre alla rappresentazione della fame vera, c’è anche una grande rivincita: quella della creatività contro la sfortuna.
Completamente diverso è il contenuto rappresentativo del famoso Timballo di maccheroni del “Gattopardo”(1963), che il regista Luchino Visconti fece preparare con grande cura seguendo la ricetta originale. In questo caso lo scopo è rappresentare la caduta dei valori nobiliari: nel perfetto rito alimentare offerto dal Principe di Salina si rivela la contrapposizione tra la perfezione della forma esterna e il crollare dei valori interiori della nobiltà.
Anche Federico Fellini ha fatto della tematica gastronomica un metodo ricorrente di espressione di significati nascosti. In “La dolce vita” (1960) i Ravioloni di Ricotta e Verdura descritti al telefono dalla fidanzata a Marcello Mastroianni hanno il grande merito di distrarlo dalla viziosa e corrotta vita di Roma. In contrapposizione, come simbolo dell’effimero e del lusso, i protagonisti sono soliti bere Champagne nelle strade della capitale.
Fra i film più moderni citiamo invece “Ricette d’amore” (2001) con Sergio Castellitto, dove un semplice piatto di Spaghetti con il Pomodoro ricopre il ruolo, a noi più comune, di famiglia e affetto: la pasta riesce a conquistare il cuore della piccola Lina, di sette anni, la cui mamma è da poco morta in un incidente stradale.
Il Pane
«Che te magni?»
«Pane, marescià!»
«E che ci metti dentro?»
«Fantasia, marescià!!»
(Pane, Amore e Fantasia, 1954)
Ecco il dialogo di “Pane amore fantasia” (1953) fra Vittorio De Sica e il contadino. Siamo nell’epoca del neorealismo e bastano queste poche battute del film a darci un lucido spaccato dell’Italia del dopoguerra. Come in “Roma città aperta” (1945) di Roberto Rossellini con la celebre scena dell’assalto al forno, il cibo rappresenta un luogo, un’epoca e un modo di vivere. L’attenzione per la tipicità dei prodotti rappresentata da alla pellicola un forte valore realistico, di concretezza e quotidianità.
Protagonista di “Festa di Laurea” (1984) di Pupi Avatiè proprio un fornaio. Carlo delle Piane, per riprendersi da una delusione d’amore nei confronti di una pomposa signora borghese, torna a casa e sforna il suo amato pane: “Niente al mondo eguaglia il sapore e il profumo del pane appena cotto”. I sapori della genuinità assumono quindi un valore consolatorio per i buoni contro i cattivi.
La Pizza
«A marescià, e si io non rimanda, io che me pijo?»
«Te piji na pizza!» (Assassinio sul Tevere, 1979)
La pizza è sicuramente uno dei maggiori simboli della nostra identità, anche se spesso ci rappresenta in modo negativo. Lo vediamo ne “Il Padrino” (1972), “Gli intoccabili” (1987),“Quei bravi ragazzi” (1990). L’immagine degli “Italiani, tutta pizza e mandolino” troppo spesso rappresenta con allusioni nemmeno troppo sottili l’emarginazione sociale, la delinquenza e la mafia.
Fra le poche eccezioni a questa consuetudine, la migliore è sicuramente quella che ci riporta al nostro amato Totò. Ne“L’oro di Napoli” (1954), il grande artista riflette su una pizza un’esigenza ben diversa, quella erotica. E’ la scollacciataSophia Loren di “Pizze a Credito”, intenta ad impastare, che suscita questo comprensibile desiderio al nostro sfortunato personaggio. La margherita, in questo caso, è la trasfigurazione del rapporto che il nostro protagonista vorrebbe con l’altro sesso, fame che spesso – neanche a dirlo – rimane insoddisfatta.
Le Zuppe
«Per cominciare direi zuppone alla porcara per tutti!»
«Cos’è il minestrone alla porcara?»
«Un minestrone assai sofisticato ma delicato…»
(I Nuovi Mostri, 1977)
Dentro allo Zuppone alla Porcara, (de “I Nuovi Mostri” di Ettore Scola, 1977), oltre a tutto quello che si lanciano addosso Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi durante la lite in cucina, c’è tutto “lo sporco e l’unto” dell’Italia degli anni ’70. Rimarcando questi aspetti bassi dell’alimentazione, il regista vuole in realtà rimarcare l’attenzione sugli aspetti umani più nascosti degli italiani dell’epoca. Durante la scena dell’animata preparazione del minestrone in cucina, si svela l’Italia popolare e vera, fatta da chi non è riuscito a trarre vantaggi dal boom economico ed è anzi ancora più arrabbiato con la società. All’opposto, gli ospiti in sala vengono rappresentati come educati e dal “palato fino”. Ovviamente gli elogi fatti da questi al cuoco per la genuinità delle portate, cucinate “alla porcara” in tutti i sensi, simboleggiano il carattere ingenuo ed illuso di questa classe sociale da poco nata in Italia.
Altra zuppa celebre è quella di pesce di “La Terra Trema” (1948). Questa preparazione rustica dei pescatori siciliani viene rappresentata non tanto per la sua concretezza realistica, come sarebbe facile pensare, ma per la sua simbologia. Tramite l’intingoloLuchino Visconti parla della questione meridionale e le da’ rilevanza esistenziale. In pane amaro e pesce di scarto è celata una legge universale di cui N’Toni Valastro, mangiando, prende a poco a poco coscienza: le persone, capisce, si dividono in pesci grossi e pesci piccoli, in sfruttatori e sfruttati. E proprio con una semplice zuppa il protagonista acquisirà la volontà di ribellarsi e di reagire ad un destino immutabile.
La Carne
«Tiè senti ‘sto prosciutto, senti com’è dorce.»
«Eh, ho mangiato…»
«Senti ‘sto prosciutto t’ho detto, è dorce! E ‘ste olive? Tiè senti ‘ste olive, queste so’ ggreche sa’ oh, ggreche! E ‘nnamo e ddai, so’ ggreche! So’ bbone? Come so’, dì la verità! So’ ggreche…» (Borotalco, 1982)
Quale migliore introduzione ai secondi piatti nel cinema se non uno spaccato di “Borotalco”(1982) di Carlo Verdone. L’attore e regista negli anni ’80 è stato un grande paladino della tematica dell’alimentazione che proprio in quegli anni stava subendo sostanziali cambiamenti. All’avvento del mito del corpo e dell’immagine, seguito dal dilagare delle diete dimagranti, Verdone risponde con film come “Acqua e sapone” (1983) dove alla dieta obbligata di una bambina futura modella – a base di soli pompelmi e yogurt – si contrappongono le prelibatezze di pasticcerie e trattorie romane. La redenzione in assoluto dalle diete dimagranti è poi il tema principale di “Sette Chili in Sette Giorni” (1986) dove dopo i digiuni forzati si decide di aprire un ristorante, chiamato “Ai due porconi”. Ma non solo, con i film verdoniani vediamo anche la crisi dell’identità alimentare italiana, dove poco a poco iniziano a prender piede fast food ehamburger.
In questo paragrafo parliamo anche del Pollo Arrosto de “La Grande Abbuffata” (1973) di Marco Ferreri. Ricordate la scena in cui la coscia del volatile viene azzannata da Micheal Piccoli? L’attore cita la celebre frase: “Se escludi il cibo, tutto è epifenomeno: la sabbia, la spiaggia, lo sci, l’amore, il lavoro, il tuo letto: epifenomeno. Come dice l’Ecclesiaste: vanitas vanitatum.” Non serve un esperto, né di gastronomia, né di cinema, per capire che questa coscia di pollo, come tutti i piatti che intervengono all’interno del film, ha una palese valenza sessuale più che alimentare.
Completamente diverso è il significato del film “Anatra all’Arancia” (1975) di Luciano Scalce, dove la ricetta toscana diventa il simbolo della riconciliazione e dell’unione famigliare: è il pasto del viaggio di nozze dei due sposi in crisi, Ugo Tognazzie Monica Vitti, riproposto poi per fare la pace. In “La cena” (1998) di Ettore Scolaassistiamo invece a una denuncia verso il mondo gastronomico moderno, presentato non a caso come un intruglio di stili, idee, immagini e ignoranza. Bersaglio del celebre regista non è solo la gastronomia, ma anche il cinema. Tra una pietanza e l’altra, cucinate e servite in modo sempre più confusionario, il regista vuole far capire le debolezze del pubblico moderno: sempre più bisognoso di immagini aggressive e poco ricettivo ai sensi più genuini come gusto e olfatto.
I Dolci
«Lei mi sta scavando sotto, mi toglie la panna, la castagna da sola sopra non ha senso. Il Mont-Blanc non è come un cannolo alla siciliana che c’è tutto dentro, è come uno zaino: lei se lo porta appresso per un mese e sta sicuro. Il Mont-Blanc si regge su un equilibrio delicato, non è come la Sacher Torte…»
«Cosa?»
«La Sacher Torte…»
«Cos’è?»
«Cioè lei non ha mai assaggiato la Sacher Torte?!»
«No»
«Va be’ continuiamo così, facciamoci del male!»
(Bianca, 1983)
Per introdurre l’ultima delle nostre portate cinematografiche scegliamo una frase diNanni Moretti, regista che ha fatto dei dolci una tematica centrale dei propri film. Più che a significati e simbologie, in questo caso, assistiamo a un’autoanalisi del regista, che attraverso la cinepresa da’ corpo alle sue ossessioni. Con pochi giri di parole si può dire che nei dolci per Moretti sta l’essenza delle cose e della vita. Per questo motivo in“Bianca” (1983) vediamo una torta sacher servita a tavola con una sacralità quasi divina.
Invece, nella scena citata poc’anzi il protagonista Michele Apicella urla e si imbestialisce di fronte alla profonda ignoranza dell’ospite che non conosce la famosa torta: “Facciamoci del male!”. Sono numerosi gli altri casi di sovrapposizione vita-cibo nei suoi film, ma forse quel che fa più simpatia è vedere come anche Michele Apicella consola le sue sofferenze d’amore con un vasetto di Nutella.
E’ poi doveroso parlare della Pasta con Panna e Ciliegina comprata dal giovane ometto di “C’era una volta in America” (1984) di Sergio Leone, con i soldi risparmiati per andare con una prostituta. Come nei film western – pensiamo anche alle ossa spolpate da Bud Spencer e Terence Hill – anche in questo caso l’alimentazione rappresenta la virilità e la forza dei protagonisti. Infine, l’ultimo contributo a questa breve rassegna è la recente commedia amorosa “Sapori e Dissapori” (2007) di Scott Hicks. In questa pellicola il nostro celebre tiramisù, anche se presentato in una versione fasulla a base di panna e non mascarpone, diventa il fulcro prima degli scontri poi dell’amore fra i due protagonisti, cuochi provetti.
Difficile dare una presentazione esaustiva delle infinite valenze del binomio cibo-cinema… lascio a voi, cari lettori, eventuali correzioni e – perché no? – ampliamenti nel nostro forum su cibo e cinema!