Giornale del cibo

Alimenti simbolo di ribellione: quando il cibo diventa una forma di protesta

Cibo significa tante cose: all’atto pratico è prima di tutto alimentazione e nutrimento. Sul piano sociale è condivisione, legame, identità. Su quello economico è merce di scambio, generatore di lavoro e affari. Quando entra nella sfera politica, il cibo può assumere ruoli coincidenti a quello pratico, sociale ed economico. Oppure no. O meglio può, a partire da quelli, tradursi in modi nuovi, acquisendo simbologie inedite e potenti: questo avviene soprattutto nei casi in cui lo stesso cibo che sfama, unisce e crea mercato diventa anche forma e strumento di protesta.

Le modalità in cui il cibo si è fatto carico, in passato come oggi, di una o più istanze contrarie al sistema alimentare, collettivo e istituzionale sono numerose e non è possibile, nello spazio di un articolo, elencarle tutte. Forse non sarebbe nemmeno troppo utile. Tuttavia è possibile partire da alcuni esempi particolarmente significativi per cercare di ricavare una classificazione generale di come quello che portiamo in tavola ogni giorno possa trasformarsi in qualcosa di molto diverso: un’arma di dissenso, efficace anche se – o proprio perché – perlopiù innocua.

lancio di uova
Milano, Ottobre 2017 – shutterstock.com

Il cibo come forma di protesta sociale e politica

Nel corso del tempo sono tante le vicende in cui il cibo ha assunto una funzione dissacrante e persino rivoluzionaria: tra tutte, la battuta più famosa rimane sicuramente quella (presunta) di Maria Antonietta che, secondo la vulgata popolare, ai parigini affamati avrebbe risposto: “Se non hanno più pane, che mangino delle brioches”, scatenando così la sollevazione civile. Aneddoto, più che fatto storico, questo episodio evidenzia come alla base di molte controversie legate al cibo ci sia un rincaro inatteso dei prezzi dello stesso o delle materie prime. Un caso recente è, ad esempio, quello della Tunisia e dell’Egitto, al centro insieme ad altri paesi del Nord Africa, della Rivoluzione Araba, il movimento di protesta nato nel 2010 e inizialmente pacifico scatenato anche dall’aumento del prezzo del pane, tra i principali alimenti della dieta di quelle zone (l’Egitto è considerato il più grande importatore di farina del mondo). In quei giorni non era raro vedere i manifestanti brandire delle baguette o “vestire” il pane come fosse un casco per significare, in modo inequivocabile, quale fosse il diritto che reclamavano.

Anche l’Italia ha conosciuto diverse “rivolte del pane”, ma quella che si ricorda meglio è certamente il manzoniano tumulto di S. Martino in cui Renzo si trova suo malgrado coinvolto. Ma se questi esempi hanno come motivo scatenante l’approvvigionamento, ve ne sono altri in cui il cibo diventa invece vero e proprio oggetto materiale di protesta. Vediamo allora quali sono le modalità assunte più spesso per trasgredire l’ordine costituito attraverso l’uso degli alimenti.

Lanciare il cibo, un forte atto simbolico 

Hong Kong, 21 Giugno 2019 – shutterstock.com

Nigel Farage, politico britannico e leader del movimento pro-Brexit, è solo una delle ultime vittime della pioggia di milkshake che, negli scorsi mesi, ha colpito diversi politici inglesi esponenti di movimenti di estrema destra, creando scompiglio e irritazione tra entrambe le fila del governo. Questa è probabilmente una delle forme di protesta più antiche: scagliare cibo addosso a qualcuno è infatti un gesto immediato, nell’atto in sé e nel risultato, ovvero l’umiliazione di chi riceve l’imbrattamento imprevisto. Nello specifico di frullati e frappé bisogna considerare inoltre l’enorme facilità del loro reperimento, senza trascurarne il forte impatto simbolico: come dichiarato al New York Times da Benjamin Franks, professore di filosofia sociale e politica dell’Università di Glasgow, infatti, il milkshake rappresenta una specie di contrappasso per i suprematisti bianchi che hanno utilizzato il latte come icona della loro ideologia politica.

Oltre ai milkshake, nella storia sono stati tanti i cibi utilizzati come “proiettili” e non è la prima volta che lo stesso Farage ne è vittima. Le uova crude sono da sempre l’artiglieria preferita in Inghilterra e, in generale, nei paesi anglosassoni, dove esiste un verbo ad hoc per definire questa pratica: la parola egging identifica, infatti, il bersagliare con le uova qualcuno, di sovente un politico. Oltre a Farage ne sono stati vittima: David Cameron, Arnold Schwarzenegger (in qualità di Governatore della California) e Bill Clinton. E una lunga serie di teatranti Elisabettiani poco capaci a cui il pubblico destinava uova e altri ortaggi come segno di disappunto.

Lo yogurt come simbolo del malcontento

Gli inglesi non sono gli unici che hanno inventato una neologismo per la loro protesta alimentare: in Grecia il termine yaourtoma significa proprio l’atto di gettare dello yogurt addosso a qualcuno. D’altra parte, lo yogurt greco è famoso in tutto il mondo e proprio per questo, sostiene Leonidas Vournelis della Southern Illinois University, adottarlo come mezzo di contestazione assume un valore allegorico abbastanza evidente, in cui l’identità greca stessa viene usata “contro” chi se ne dovrebbe fare portavoce, i politici appunto.

È curioso però sapere che, secondo alcune fonti, anche questa versione del lancio di cibo proviene dall’Inghilterra, dove sarebbe nata intorno agli anni Cinquanta per mano dei “Teddy Boys” e da cui si sarebbe diffusa rapidamente in Grecia. Lì sarebbe stata adottata con così tanta frequenza da essere messa presto fuorilegge con un provvedimento statale abolito solo nel 1983: con la pesante crisi economica del 2012, lo yogurt è tornato a essere protagonista non solo della colazione, ma anche del malcontento popolare.

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Sciopero della fame: il diritto che rischia di far andare tutto storto 

A differenza del lancio di cibo, che prevede necessariamente la presenza di un bersaglio esterno, nello sciopero della fame l’oggetto della sovversione è la persona stessa che lo applica: colui che protesta decide infatti di smettere di mangiare (più raramente anche di bere) per diversi giorni di fila per protestare contro qualcosa o qualcuno. Non c’è nulla dello scherno e della ridicolizzazione tipici della proiezione di cibo all’indirizzo di politici e personaggi pubblici: lo sciopero della fame è serio, proprio perché mette a rischio la salute, se non la vita, di chi lo fa. E, per questo, genera dibattiti molto accesi portandosi dietro non poche questioni etiche e morali: è lecito lasciare che qualcuno muoia per inedia, anche se volontaria? Quali sono i limiti dello Stato (o della religione, o della comunità, etc.) e con quali mezzi si può (ammesso che si possa) intervenire: la nutrizione forzata? la censura? la propaganda?

Sì, perché oltre agli aspetti individuali, bisogna tenere conto anche di quelli sociali: giusta o meno che sia la causa per cui si decide di scioperare, se chi pratica lo sciopero della fame dovesse morire, nell’immaginario comune potrebbe essere associato a una specie di martire della causa stessa, amplificandone ancora di più le ragioni e la notorietà. Lo sciopero della fame è quindi, per sua natura, un gesto anticonformista ed è forse questo il motivo per cui è stato scelto da alcuni dei soggetti più “scomodi” della storia.

Marion Wallace Dunlop e le suffragette 

Ancora una volta è la Gran Bretagna la patria di almeno uno di questi, anzi una: Marion Wallace Dunlop, la prima suffragetta scozzese ad adottare questo metodo per protestare contro il sistema di voto allora vigente, che escludeva le donne dalle urne. Arrestata nel 1909 per aver attaccato un manifesto con il testo del Bill of Rights (una specie di Costituzione Inglese) sulle pareti della Camera dei Comuni (il Parlamento), venne rilasciata dopo 91 ore di prigionia per timore che le sue condizioni di salute potessero peggiorare in modo irrimediabile. Da quel momento in poi altre suffragette tentarono lo stesso metodo e, per tutta risposta, il Governo inglese fece sempre più spesso ricorso all’ingestione coatta di cibo, costringendole a ingurgitare un misto di uova e latte attraverso l’imposizione violenta di un tubo in gola.

Marion Wallace Dunlop e altre suffragette – Wikipedia.com

Il caso di Bobby Sands 

Ma forse il caso più tristemente famoso è quello di Bobby Sands, un membro dell’IRA arrestato nel 1976 per possesso di armi. Dopo 66 giorni di sciopero della fame, Bobby morì a 27 anni nella prigione irlandese in cui era rinchiuso: aveva iniziato a rifiutare il cibo in opposizione alla decisione dello Stato inglese di eliminare lo status di categoria speciale che garantiva ai carcerati del separatismo irlandese di essere riconosciuti e trattati come detenuti politici, e non come criminali comuni. Furono in ventidue a seguirne l’esempio e nove di questi morirono sempre per fame: il risultato fu che, nonostante le previsioni della “Lady di ferro” Margaret Thatcher che aveva deciso di ignorare la protesta, il movimento dell’IRA crebbe ancora di più, aumentando il suo bacino di proseliti ed eleggendo a martiri della patria Bobby e gli altri.

Boicottaggio e restrizioni: c’è chi dice no 

Per quanto meno plateale del cibo volante e meno problematico dello sciopero della fame, anche il boicottaggio di un certo alimento o di una certa marca ha una valenza politica non da poco. Gli effetti, soprattutto se praticato dal singolo, risultano meno visibili di altre forme di protesta che hanno a che fare con il cibo, ma quando diventa un’operazione di massa possono generare non pochi fastidi per chi quel cibo lo prepara – siano essi aziende, ristoranti o persone – e per le coscienze altrui. La sensibilizzazione su determinati temi, come l’uso di certi ingredienti e la loro provenienza o lo sfruttamento sregolato di manodopera da parte dei produttori, sono spesso la chiave di lettura di questo tipo di ribellione che, a differenza delle altre, vive di tempistiche più lunghe. A pensarci bene, anche le nostre comuni scelte d’acquisto possono diventare veicolo di affermazione di una precisa filosofia o stile di vita: comprare solo alimenti biologici o cibo sfuso o prodotti completamente made in Italy (come ad esempio la pasta 100% italiana), sono azioni tese a modificare lo status quo, eliminando dalla propria dieta ciò che non si condivide anche a livello ideologico. A questo scopo è nato, ad esempio, l’appello di Zero Waste Spagna che, nei primi giorni del giugno 2019, ha invitato a ribellarsi per una settimana al cibo confezionato in plastica, boicottandolo.

Quando a escludere determinati alimenti dall’import nazionale è lo Stato, la situazione può farsi invece anche molto critica ed è quanto è successo al Governo russo nel 2014. Contrario alle sanzioni imposte da Europa e Stati Uniti all’Ucraina, il Presidente Putin decise infatti di diminuire ulteriormente le importazioni di frutta e verdura provenienti dai paesi occidentali, rischiando di mettere in ginocchio paesi come la Polonia, primo esportatore di mele di cui la Russia costituiva il principale mercato. La reazione polacca? Una campagna social di dileggio ai danni dei russi, in cui persone più o meno comuni si ritraevano intente a mangiare una mela sotto l’hashtag #jedzjabłka, ovvero “mangia le mele”.

Cucinare durante la protesta: il cibo di chi occupa le piazze 

Kiev, Ukraina, 22 Dicembre 2013 – shutterstock.com

Finora abbiamo visto come il cibo o l’atto di mangiare siano diventati, e possano ancora diventare, forme di protesta. Ma cosa succede quando la protesta scende in piazza, la occupa e ci resta per giorni e giorni, a volte mesi? Come si organizzano i manifestanti per far fronte a esigenze basilari come, appunto, l’alimentazione? Come due contesti piuttosto recenti dimostrano, in queste situazioni il cibo può riacquistare il suo potere aggregante e diventare ulteriore messaggio di cambiamento, spesso democratico e sovversivo insieme.

Gli esempi sono quelli di Occupy Wall Street a New York (2011) e della Extinction Rebellion di Londra (2019). In entrambi i casi, le cucine sono state organizzate in modo spontaneo grazie alla partecipazione di volontari che si sono alternati ai fornelli e al servizio, e agli aiuti esterni ricevuti da cittadini e ristoratori, alcuni dei quali (almeno nel caso americano) hanno persino preparato e consegnato le pietanze pronte agli occupanti. In poco tempo, i due accampamenti si sono trasformati da semplici cucine di fortuna ai più grandi fornitori di cibo gratuito, arrivando a sfamare fino a 4.000 individui al giorno (NY) senza distinzione di classe o sentimento politico. È così che l’attivismo dei ribelli dell’estinzione si è fatto carico, in modo netto e distintivo, di un appello ancora più forte, e la Rebel Kitchen – vegetariana e supportata anche da Greenpeace – è diventata il luogo di sperimentazione di un modello inclusivo verso le persone, consapevole delle risorse del pianeta.

 

Le modalità in cui il cibo può diventare una forma di protesta sono quindi molteplici e non è semplice ridurle a poche righe: quello che però emerge da tutte le casistiche citate, e probabilmente anche dalle numerose che non sono state inserite, è che prima ancora di indossare la pettorina di uno o dell’altro schieramento gli alimenti hanno un valore in sé. E come tutto ciò che anche da solo ha un significato, quando viene portato dal suo senso primario a quello secondario, concettuale (anche il diventare un oggetto contundente prevede uno slittamento di senso), finisce per creare corti circuiti inattesi, scandalosi, difficili. Per quanto si cerchi di normalizzarlo, nei modi e nei gusti, il cibo conserva sempre un potere rivoluzionario intrinseco: esprimerlo è solo questione di personalità.

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