Sono 1.067 i siti patrimonio dell’Unesco nel mondo e l’Italia, con le sue 54 targhe, detiene il primato assoluto, a un passo dalla Cina e poco distante dalla Spagna, terza in classifica. Un record che ci fa onore e che, però, non tiene conto di una parte importante della nostra cultura: l’alimentazione. Di cibi italiani patrimonio dell’Unesco, infatti, non si ha traccia. E tuttavia sono numerose le eccellenze nostrane – riconosciute dall’Organizzazione delle Nazioni Unite – in cui la gastronomia gioca un ruolo di primo piano, siano esse veri e propri luoghi di origine o pratiche di produzione. Vediamo allora quali sono, categoria per categoria, e perché si sono meritate un posto tra le eredità italiane patrimonio dell’umanità.
Cibi italiani patrimonio dell’Unesco: tra bcultura, tradizioni e riti
Come dice bene il suo nome, il patrimonio immateriale non ha corrispondenze oggettive: non si tratta quindi di un manufatto specifico o di una cosa tangibile. Al contrario, l’Organizzazione annovera in questa lista le tradizioni, le espressioni orali (compreso il linguaggio), l’arte e l’artigianato locali che esprimono il genius loci di un determinato posto, e tutte quelle attività che ne favoriscono l’affermazione, la trasmissione e la conservazione. In altre parole, si tratta di azioni umane distintive di un luogo e di una cultura, a cominciare da quelle legate all’alimentazione.
L’arte del Pizzaiuolo Napoletano
La più recente in ordine di apparizione nella categoria dei beni immateriali patrimonio dell’Unesco è l’arte del pizzaiuolo napoletano, che era stata oggetto di una petizione nel 2015 e due anni dopo si è conquistata l’ambito riconoscimento. Una tradizione, quella della pizza napoletana, trasmessa da Maestro ad apprendista all’interno delle botteghe, oltre che molto diffusa anche a livello domestico e che ha una precisa funzione sociale di aggregazione e condivisione. Come si legge sul sito dell’Unesco: “” La preparazione della pizza alimenta la convivialità e lo scambio intergenerazionale e assume il carattere di spettacolarizzazione con il Pizzaiuolo al centro della bottega mentre mostra la sua arte”.
Sono oltre 3mila i pizzaioli attivi oggi a Napoli e Coldiretti, tra i principali portavoce della raccolta firme del 2015, stima che l’ingresso dell’arte della pizza nell’elenco delle Nazioni Unite abbia contribuito sensibilmente all’aumento della produzione e del fatturato legati a questo prodotto: “Il giro d’affari del comparto pizza nel 2018 è cresciuto su valori superiori ai 30 miliardi l’anno, che corrispondono a un fatturato stimato in 15 miliardi. Dopo il riconoscimento Unesco si contano 127.000 pizzerie rispetto alle 125.300 censite nel 2015” con un flusso turistico che sale del 7% nella città campana (dati del 2018).
La coltivazione della vite di Zibibbo ad alberello di Pantelleria
Come già i muretti a secco, le spiagge rocciose, le abitazioni in pietra (i famosi dummusi) anche la vite ad alberello è parte integrante del paesaggio tipico dell’isola siciliana di Pantelleria. Diretta conseguenza del clima pantesco fatto di sole, vento forte e risorse idriche scarse, la coltivazione della vite dello Zibibbo – da cui sono ricavati i famosi passiti di Pantelleria – segue ancora oggi la tecnica antica ed è celebrata da riti e festeggiamenti che animano l’isola da giugno a settembre. Il procedimento prevede che lo stelo della vite venga piantato all’interno di una conca e accuratamente tagliato affinché produca sei rami in forma di alberello; tenuto basso da un’attenta operazione di potatura, questa specie di arbusto viene inoltre protetto da terrazzamenti di pietra: la stessa pietra che viene prima rimossa dal suolo, con mani, attrezzi e sudore, prima della piantagione. Un metodo di coltivazione sostenibile che coinvolge circa 5mila abitanti e che nel 2014 è stato ufficialmente dichiarato patrimonio culturale dell’umanità.
La dieta mediterranea
È di un anno precedente, il 2013, l’iscrizione all’Unesco della dieta mediterranea, modello alimentare sostenibile e vero simbolo della tradizione enogastronomica italiana e non solo. Oltre all’Italia, la dieta mediterranea coinvolge infatti anche altri Paesi come Cipro, la Croazia, la Spagna, la Grecia, il Marocco e il Portogallo. E oltre al cibo – fatto principalmente di grano, pesca e allevamento – l’Unesco riconosce alla dieta mediterranea anche il merito della convivialità. Non è solo ciò che si porta in tavola ad essere importante, quanto lo è invece la modalità con cui viene consumato: mangiare tutti insieme è la base per la creazione di un’identità comune, di una socialità estesa che va oltre le barriere di genere, età e provenienza. La dieta mediterranea enfatizza i valori dell’ospitalità, della vicinanza, del dialogo interculturale e della creatività, e un modo di vivere guidato dal rispetto per la diversità”. In questo caso, quindi, il patrimonio non è nel singolo prodotto, ma nell’esperienza e in quello che porta con sé, compresi il rispetto per la stagionalità degli alimenti e la tutela di usanze e tradizioni artigiane correlate (come ad esempio quella della produzione ceramica di piatti e oggetti da cucina).
I siti (gastronomici) patrimonio mondiale dell’umanità
L’elenco dei siti patrimonio mondiale dell’umanità è sicuramente il più famoso e nutrito, e viene aggiornato annualmente dall’Unesco sulla base delle candidature (massimo due per nazione) ricevute da ogni Paese. Che si tratti di Beni culturali o Beni paesaggistici, l’iter di ammissione e approvazione è piuttosto lungo e le candidature possono attendere anni prima di ricevere una risposta: è il caso del centro storico di Lucca, delle Murge di Altamura e dei portici bolognesi, per citare solo alcuni esempi, inseriti nella Tentative list (lista di candidati) italiana dal 2006. Proprio in occasione della candidatura del capoluogo emiliano era stata condotta un’indagine preliminare che aveva stimato al +10,3% l’incremento di offerta ricettiva, turismo e spesa media degli stranieri in visita presso i territori dei siti Unesco. Un beneficio che qualche mese fa è stato messo in discussione da Milena Gabanelli sulle pagine del Corriere: dietro alla targa Unesco, afferma la giornalista, si nascondono infatti costi di adesione piuttosto onerosi per i singoli Stati, che però non ricevono in cambio alcun finanziamento per la manutenzione dei siti premiati, a cui devono pensare da sé. Qualche cifra? Nel 2018 l’Italia ha stanziato oltre 12 milioni di dollari in contributi obbligatori e più di 28 milioni in contributi volontari. Quella per il marchio Unesco rischia quindi di sembrare una vittoria di Pirro, soprattutto perché – una volta ottenuto il riconoscimento – è interesse del Ministero dei Beni Culturali investire direttamente nella loro conservazione: tra i siti più costosi per la spesa pubblica rientrano anche i paesaggi vitivinicoli del Piemonte.
Langhe-Roero e Monferrato: i paesaggi vitivinicoli del Piemonte
Culla del vino rosso per eccellenza, quest’area conserva ancora oggi il patrimonio della produzione vitivinicola piemontese. Tra i vanti della regione spiccano in particolare il Barolo, il Barbaresco, il Barbera d’Asti e l’Asti Spumante, tutti originali della zona che comprende la Langa del Barolo, il Castello di Grinzane Cavour, le colline del Barbaresco e il Monferrato con i tipici infernòt, locali sotterranei scavati nella roccia arenaria e destinati alla conservazione delle bottiglie. Una concentrazione di tradizione e gusto che trova anche nel paesaggio conferma della sua ricchezza: dolci colline ricoperte di vigne costellate da torri e castelli medievali, l’incontro perfetto tra storia, natura e artigianato. Insieme al vino, il Piemonte offre anche una cucina articolata e saporita e i ristoranti nelle Langhe dove mangiare un buon piatto tipico non mancano di certo!
Città creative della gastronomia Unesco
Divisa in sette settori culturali (Musica, Letteratura, Artigianato e Arte popolare, Design, Media Arts, Cinema e Gastronomia), la rete delle città creative dell’Unesco è stata fondata nel 2004 con l’obiettivo di incentivare la collaborazione tra i comuni più virtuosi per uno sviluppo urbano sostenibile. Dei 72 paesi che rientrano nella rete, l’Italia può contare su due città afferenti all’area della gastronomia, in cui cioè il cibo diventa fattore e motore di impresa e la sua cultura è al centro delle politiche di crescita locale.
Parma, la prima italiana nella rete delle città Unesco
Prima tra le città italiane ad essere eletta per la sua creatività gastronomica, Parma è in un certo senso la patria del cibo italiano patrimonio dell’Unesco. Per quanto il riconoscimento non celebri un prodotto nello specifico, la città emiliana è stata tuttavia identificata come sede di un’eccellenza e di un patrimonio agroalimentari unici, salvaguardati e raccontati da una buona dose di imprenditoria locale. Proprio quest’ultima, nelle insegne di aziende come Barilla, Mutti, Parmalat e dai vari consorzi del Parmigiano, del Prosciutto e del Culatello ha di recente vinto il braccio di ferro con la Farnesina, ottenendo che fosse proprio Parma la sede del IV Forum dell’Unesco sulla cultura alimentare. Che il cibo sia parte integrante del DNA della città è testimoniato dalle svariate iniziative, dagli eventi, dai programmi educativi e dai numerosi Musei del Cibo che hanno sede proprio nel parmense e che ne valorizzano l’eredità e le antiche abitudini.
Alba, la città del tartufo bianco
Anche Alba fa parte del network delle città creative Unesco per la sua ricca tradizione enogastronomica. Tre i prodotti simbolo della capitale delle Langhe:
- Il tartufo bianco d’Alba, per cui è nota in tutta il mondo e che attira visitatori di Italia ed estero;
- Le nocciole piemontesi e in particolare la varietà delle Tonde Gentili Piemontesi con cui vengono create numerose specialità locali a cominciare dal gianduiotto fino al torrone, passando per la Nutella, la crema spalmabile a base di cioccolato e nocciole più famosa del mondo;
- La toma, formaggio tipico delle Langhe che ben si accompagna ai numerosi vini locali, simbolo dell’arte casearia che caratterizza tutta la zona.
Non stupisce, quindi, che la regione in cui sono nate esperienze come quella di Slow Food e dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo sia sinonimo di creatività e innovazione culinaria, tenute in vita anche da una fitta rete di ristoranti (molti gli indirizzi di Alba, ad esempio) in cui la ricerca e la sperimentazione sono di casa.
Trascurata a causa delle “capacità limitate della Commissione, dei suoi organi e del Segretariato”, la caccia al tartufo risulta tra i file arretrati dell’Unesco e non è ben chiaro se da questa speciale categoria possa essere ripescata. Destino diverso sembra invece essere riservato alle Colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene in Veneto, la cui candidatura risale al 2018 e su cui si attende ancora fiduciosi il verdetto.
E voi quale cibo italiano vorreste vedere riconosciuto tra i patrimoni dell’Unesco?