Cassa di legno piena di frutta e verdura

Cibi importati nell’UE: clausole specchio per garantire gli standard produttivi

Matteo Garuti
3

     

    Quando si parla di cibi importati nell’Unione europea, spesso si teme di imbattersi in produzioni che non garantiscono gli stessi livelli di sicurezza, rispetto del lavoro e dell’ambiente ai quali siamo abituati. Per questo motivo Slow Food ha proposto di introdurre clausole specchio per assicurare a chi acquista i medesimi standard: ma di cosa si tratta e che effetti avrebbe questa soluzione? Dopo aver trattato il caso dei gamberi di importazione, approfondiamo il tema cercando di capire perché introdurre misure speculari può tutelare agricoltori e consumatori, in Europa e nei Paesi extraeuropei.

    Cibi importati nell’Unione europea: serve più rispetto per lavoro e ambiente in tutto il mondo

    Africa Studio/shutterstock

    Gli squilibri commerciali, sia di tipo strettamente economico sia riguardanti le circostanze nelle quali le merci vengono prodotte, animano il dibattito nei contesti nazionali e internazionali. Se si pensa ai diritti del lavoro, al rispetto dell’ambiente e alla qualità dei prodotti, è noto che nel mondo permangono grandi differenze, con l’Unione europea che ormai da diversi anni ha introdotto normative molto restrittive per garantire standard elevati in questo senso. Ecco perché, secondo Slow Food, l’associazione che difende e promuove il cibo buono, pulito e giusto, per gli alimenti sarebbe necessario introdurre “clausole specchio” tra l’Ue e gli Stati al di fuori dell’Unione, per garantire il principio di reciprocità. In occasione delle ultime Elezioni europee, l’associazione ha motivato nel dettaglio tutti i problemi legati alle importazioni, alle difficoltà di chi lavora la terra e, in generale, all’urgenza di riformare nel profondo l’agricoltura. Il report fa parte di un manifesto inviato ai candidati e a chi governa a livello locale, nella convinzione che su tante importanti questioni si possa fare molto anche sui territori. Nei 12 punti del suo documento, Slow Food chiede un’Europa attenta a quello che si mette in tavola, poiché le nostre preferenze alimentari influiscono sulla fertilità dei suoli, sulle risorse naturali e sulla crisi ambientale e climatica, come sulle questioni economiche e sociali in senso più ampio.

    Perché occorre introdurre delle clausole specchio

    In questo contesto, quindi, secondo l’associazione sono indispensabili clausole specchio per per compensare gli squilibri produttivi e favorire ovunque la transizione agroecologica. In particolare, se nell’Unione europea si devono rispettare alti standard di qualità per garantire la sicurezza alimentare, la tutela ambientale, i diritti sociali e il benessere animale, lo stesso non vale per molti cibi importati dalle nazioni extraeuropee. Ad esempio, per quanto concerne i residui di prodotti agrochimici, i limiti di tolleranza sono ben diversi, come abbiamo visto occupandoci di pesticidi nelle banane e della coltivazione di questi frutti nell’America centrale e meridionale.

    cibi raccolti in agricoltura che solitamente vengono importati

    Visions-AD/shutterstock

    Secondo Slow Food questa situazione marca una contraddizione che non si può ignorare, anche perché mantenere standard differenziati non permette di raggiungere gli impegni che l’Unione europea ha siglato con il Green deal; in più, a livello globale, frena la transizione ecologica e gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030. A essere fortemente penalizzata, inoltre, è l’agricoltura europea, peraltro gravata dalle recenti proteste in tutta Europa.

    Quelle già introdotte nell’Ue sono norme a favore della salute umana, degli animali, delle piante e dell’ambiente, che riguardano le varietà geneticamente modificate, l’uso di pesticidi nei campi, la somministrazione di antibiotici e ormoni negli allevamenti. Sono provvedimenti importanti che qualificano l’Unione europea, che però – al momento – le applica solo ai produttori interni e non alle importazioni. Sul piano economico, i diversi standard determinano anche una vera e propria concorrenza sleale, dato che i cibi europei – prodotti con norme stringenti – costano di più sia agli agricoltori che ai consumatori.

    La politica commerciale e alimentare europea, secondo Slow Food, non può quindi arretrare rispetto ai provvedimenti per la sostenibilità, di cui ci siamo occupati approfondendo la strategia Farm to fork; deve bensì sostenere i produttori aiutandoli a comprendere e a sposare l’agricoltura sostenibile. Per questo introdurre clausole specchio – ovvero misure speculari valide per tutto il commercio globalizzato, che stabiliscono regole uguali per i medesimi cibi, ovunque siano prodotti – è un importante passo per una corretta reciprocità, per la trasparenza nei confronti dei consumatori e una garanzia per tanti aspetti.

    Carne bovina, soia e riso: differenze tra le produzione Ue e quelle extraeuropee

    Per chiarire il quadro e aiutare la comprensione delle disparità in essere tra Unione europea e importazioni da Paesi terzi, Slow Food Italia ha analizzato tre delle filiere produttive più grandi e importanti a livello mondiale: quella della carne bovina, quella della soia e quella del riso. 

    La carne bovina rappresenta una delle produzioni di maggiore valore economico, nonché la più impattante sul piano ambientale, come abbiamo visto approfondendo il legame tra industria della carne e deforestazione in Sudamerica. Se per la carne europea si richiede la tracciabilità dalla nascita alla macellazione del capo e sono previsti standard di benessere animale, in Brasile – primo produttore a livello internazionale – manca una regolamentazione di questo tipo. Nell’allevamento brasiliano, inoltre, è consentito l’uso di ormoni e antibiotici per la crescita e di farine di carne e ossa di ruminanti nell’alimentazione degli animali, pratiche da tempo vietate nell’Unione europea.

    Paragonando le filiere della soia, il confronto con la realtà brasiliana riguarda soprattutto ogm e pesticidi autorizzati in Brasile e vietati nell’Unione europea. In Italia e in altri 17 Stati europei gli ogm sono vietati in via precauzionale dal 2015, mentre nei restanti Paesi Ue necessitano di un’autorizzazione preventiva e di una valutazione del rischio, da considerare caso per caso. Tuttavia, il 77% della soia prodotta nel mondo è geneticamente modificata, dato che negli Usa raggiunge il 94% e in Brasile il 97%. Essendo in gran parte destinata all’alimentazione degli animali, emerge una grave contraddizione, non essendo obbligatorio indicare nelle etichette se i cibi di origine animale (carne, latticini, uova, ecc.) sono prodotti nutrendo il bestiame con soia geneticamente modificata. In Brasile, inoltre, sono consentiti molti prodotti agrochimici vietati nell’Unione europea, e proprio le grandi piantagioni di soia assorbono più della metà dei pesticidi impiegati.

    Il terzo caso è quello del riso, e se si confronta la produzione italiana con quella indiana – che vale l’80% di quella mondiale – spicca ancora una volta la differenza in termini di utilizzo di pesticidi. Se in Italia, infatti, sono 195 le molecole fitosanitarie vietate, in India sono solo 56 e nel Paese asiatico se ne utilizzano anche quattro sconosciute in Europa e sulle quali, quindi, nell’Ue non esistono limiti massimi di residuo o controlli specifici.  

    Una transizione agroecologica equa e diffusa nel mondo

    Cassa di verdura di importazione

    Anatoliy Cherkas/shutterstock

    In sostanza, Slow Food chiede all’Unione europea di applicare un unico criterio di controllo, con misure speculari in ogni fase delle filiere alimentari, per avere nelle importazioni gli stessi standard validi per i prodotti Ue. 

    Oltre a questo, per l’associazione occorre ripensare l’approccio con cui vengono fissati i limiti di residui per i prodotti coltivati con l’uso di sostanze potenzialmente nocive, anche creando nuovi sistema di valutazione, monitoraggio e sanzioni. In attesa dell’introduzione di clausole specchio valide su tutti gli accordi commerciali europei, per Slow Food Italia si dovrebbe rifiutare la ratifica di quelli che non le contengono.

    Per contribuire attivamente alla riduzione dei pesticidi, secondo l’associazione l’Unione europea dovrebbe impedire la produzione, destinata all’esportazione, di agrochimici il cui utilizzo è vietato in Europa. Questa scelta andrebbe a vantaggio della salute e dell’ambiente anche lontano dai confini europei ed eviterebbe un conflitto di interesse nei Paesi Ue che dovranno votare contro l’innalzamento delle soglie di tolleranza dei residui nei prodotti alimentari importati.

    StockMediaSeller/shutterstock

    Nell’ambito di questa strategia, Slow Food Italia sollecita anche la fine delle logiche di sfruttamente e appropriazione nei Paesi del Sud del mondo da parte degli Stati industrializzati, che finora ha comportato conseguenze negative nei sistemi agroindustriali che lavorano per il mercato europeo. Questo approccio intende proteggere allo stesso modo il benessere di chi vive dove si producono gli agrochimici come quello di chi si trova dove questi si consumano. In questo senso, Slow Food sostiene che ai fini di una transizione ecologica diffusa è fondamentale assistere gli agricoltori dei Paesi in via di sviluppo, per poter raggiungere ovunque gli standard più elevati dell’agricoltura sostenibile. Seguendo la sua linea a favore dei produttori di base, l’associazione chiede prezzi equi per gli agricoltori, sostegno per le aziende affinché possano far evolvere il proprio modello produttivo verso l’agroecologia e più riconoscimenti per chi – in ogni parte del mondo – produce cibi sani nel rispetto dell’ambiente. Un quadro di intenti nel quale si inserisce anche la regolamentazione della concorrenza tra prodotti locali e importazioni.

     

    Questo programma di interventi sulle filiere agricole, comprensibilmente, presuppone la disponibilità da parte di chi acquista di farsi carico di prezzi maggiori a fronte di produzioni di qualità superiore. Per un rinnovato equilibrio tra domanda e offerta, inoltre, occorre elevare la consapevolezza e la considerazione del grande pubblico per cibi rispettosi dell’ambiente e del lavoro delle persone.


    Immagine in evidenza di: Jasmine Sahin/shutterstock

    Nato a Bologna e laureato in Comunicazione pubblica, Matteo è giornalista, sommelier e assaggiatore di olio d'oliva, iscritto all'Elenco nazionale dei Tecnici ed Esperti degli oli d'oliva vergini ed extravergini. Dal 2016 scrive per Il Giornale del Cibo su attualità, salute e politica alimentare. In cucina, come nella vita, non può mancare la creatività, per cui apprezza la sperimentazione e i gusti autentici.

    Lascia un commento