Gemelli bio-diversi? Ibridi? Autoctoni? Facciamo chiarezza sui frumenti italiani.
Negli ultimi anni sono sempre di più le antiche varietà di grano riscoperte e rilanciate sul mercato, un bene per la biodiversità e per le coltivazioni “autoctone” italiane? Certamente, anche se con qualche sorpresa. Ne parliamo con un esperto, il Dottor Norberto Pogna, Direttore dell’“Unità di ricerca per la valorizzazione qualitativa dei cereali” del Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura (CRA) di Roma.
Ed ecco la prima sorpresa, è piuttosto difficile parlare oggi di varietà autoctone, nel senso stretto del termine, almeno per quanto riguarda il grano duro e tenero italiano. Spiega infatti il Dottor Pogna, che in effetti parlare di varietà autoctone di grano è improprio, “già a partire dal XIX secolo con l’avvento della genetica, le varietà di grano sono state continuamente migliorate con una serie di incroci con grano di diversa origine per ottenere caratteristiche diverse. Buona parte delle varietà di grano che oggi definiamo italiane, ad esempio, derivano da incroci effettuati attorno ai primi del ‘900 anche con varietà giapponesi. Ed è sempre stata pratica comune ibridare le varietà di grano con altre di origine europea o extraeuropea per cambiare le sementi e introdurre novità”.
Senza dimenticare che la coltivazione del grano è diffusa dal Neolitico, e sin dall’antichità sementi coltivate in ogni parte del mondo conosciuto venivano continuamente scambiate e commerciate. “Se però fino all’800 si contavano relativamente poche varietà di grano coltivate – prosegue il Dottor Pogna – oggi contiamo nel mondo oltre 25.000 varietà diverse, cui solo in Italia se ne aggiungono almeno una decina all’anno di nuove. Se prendiamo l’esempio del Creso (una della varietà di grano duro più diffuse NdR), possiamo dire che effettivamente il 50% derivi da questa varietà, ma ibridata con continui incroci con grano proveniente ad esempio da Messico, Anatolia o Nord America, tanto che possiamo considerare il Creso originale come un trisavolo del grano che conosciamo oggi. La coltivazione del grano, insomma, si traduce in un costante ricambio che deriva da continui scambi e sperimentazioni. In pratica è realistico pensare che la pasta o il pane che mangiamo oggi non siano gli stessi di 10 o 20 anni fa, anche se li compriamo dagli stessi fornitori”.
Un bene per la biodiversità?
“In realtà – aggiunge Pogna – la biodiversità in questo modo potrebbe tendere a ridursi nel tempo, dal momento che tutte le varietà sono in qualche modo imparentate tra loro. Tecnicamente succede questo: nel momento in cui si procede ad un incrocio tra varietà di grano provenienti da aree geografiche diverse si aumenta la variabilità genetica in questa specie, perché le progenie di questo incrocio possiedono nuove combinazioni di geni mai viste prima. Se il processo terminasse qui la biodiversità crescerebbe. Tuttavia le progenie del suddetto incrocio vengono selezionate dal costitutore genetico, e solo quelle piante che rispondono ai requisiti di alta produttività, resistenza ai patogeni, bassa taglia, elevata qualità panificatoria e pastificatoria, ecc. diventeranno nuove varietà coltivate. Queste ultime saranno poi utilizzate come genitori per altri incroci. Ne risulta che nelle varietà di interesse commerciale troviamo una forte somiglianza genetica dovuta alla presenza di geni principali ereditati da poche piante parentali. Per fare un esempio, nelle varietà italiane di grano tenero troviamo spesso una coppia di geni (Rht8 e Ppd-D1) che sono stati forniti dalla varietà giapponese Akakomugi usata da Nazareno Strampelli, un famoso genetista italiano attivo nei primi decenni dello scorso secolo, per produrre le varietà Ardito, Mentana, Villa Glori, Damiano Chiesa, San Pastore ecc., dalle quali derivano moltissime varietà coltivate attualmente in Italia, ma anche in Russia, Australia, Cina, Argentina, eccetera. Questi due geni abbassano la taglia della pianta e ne anticipano la fioritura. Anche nella varietà di grano duro Creso troviamo geni forniti dalla varietà di grano duro Senatore Cappelli (ottenuta da Strampelli incrociando una pianta di grano tenero italiana con una pianta di grano duro tunisina) e da una varietà di grano tenero giapponese nota come Norin 10, la quale ha contribuito ad abbassare la taglia delle varietà di grano duro coltivate nell’ultimo mezzo secolo in Italia e nel resto del mondo!”.
Recentemente si registra un successo crescente, testimoniato dalla progressiva comparsa sugli scaffali dei supermercati, di prodotti a base di farro, grano monococco e Kamut® (o Saragolla!!), in che cosa si differenziano?
“Le specie di grano note come Saragolla, farro e grano monococco sono diverse dal grano tenero e dal grano duro perché non sono state sottoposte a processi di miglioramento genetico basati sull’incrocio e la selezione. Il farro (Triticum dicoccum) è stato ampiamente coltivato da egizi e romani per migliaia di anni ed è rimasto in coltivazione in Italia su ampie superfici fino al 1600.Attualmente è coltivato su piccoli appezzamenti, principalmente nelle aree appenniniche dell’Italia centrale. Purtroppo non abbiamo a disposizione molte varietà di farro, forse una decina. Saragolla (una varietà lucana recentemente riscoperta, che sarebbe stata portata dalla Bulgaria da un gruppo di crociati nel ‘400, da cui il nome, derivato dal bulgaro sàrga e gòlyio, grano giallo – NdR) ed il più famoso Kamut® (che ricordiamo, è un marchio commerciale americano NdR) appartengono alla specie Triticum turanicum, molto vicina geneticamente al farro e al grano duro. Anche in questo caso la variabilità genetica (biodiversità) è estremamente ridotta; tra l’altro Saragolla e Kamut® sono pressoché identici geneticamente. Nel caso del grano monococco (Triticum monococcum) abbiamo a che fare con il più antico dei frumenti coltivati dall’uomo (una curiosità: resti di grano monococco, recentemente riscoperto e reintrodotto nel veneto e nel bresciano, sono stati ritrovati nello stomaco di Ötzi, la mummia scoperta in Val Senales NdR). Per circa 6000 anni, dal 8000 al 2000 a.C., è stato coltivato in tutti i paesi dell’area mediterranea, isole escluse, per venire poi abbandonato a favore del farro perché più produttivo. Fino a pochi anni fa, il grano monococco era una curiosità botanica, solo recentemente è stato riportato in coltivazione in ristrette aree rurali in Francia, Germania, Austria ed Italia. Le varietà commerciali di grano monococco si contano sulle dita di una mano, ma nelle banche dei semi sono raccolte circa 2.000 popolazioni diverse di questa specie”.
Cosa possiamo fare per preservare la biodiversità del grano?
“Per fornire alimenti ad una popolazione mondiale in continua crescita non possiamo aumentare la superficie agricola a scapito delle aree forestali o di quelle naturali dove si mantiene la biodiversità vegetale. Dobbiamo sviluppare varietà ad alta resa (alta produzione per unità di superficie) e ad alta efficienza (bassi costi di produzione e ridotto impatto ambientale in termini di consumo di acqua e di suolo) ottenibili solo attraverso gli strumenti tecnico-scientifici a nostra disposizione (incrocio e selezione, mutagenesi, transgenesi ecc). D’altra parte dobbiamo preservare la variabilità genetica perché ci serviranno sempre nuovi geni per migliorare le future varietà”.
Un aiuto prezioso può venire dalle banche dei semi, la sede della banca italiana del germoplasma vegetale è l’Istituto di Genetica Vegetale del CNR di Bari, noto precedentemente come Istituto del Germoplasma.