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Caporalato: sdegno e nuove leggi dopo l’estate nera

In uno dei periodi di più intensa riflessione, prima che lotta, al caporalato e allo sfruttamento della manodopera nelle campagne italiane, la voce più acuta è arrivata da chi la voce la usa tutti i giorni. Radio Ghetto, l’emittente che da tre anni trasmette dal cosiddetto Gran Ghetto, la baraccopoli che alle porte di Foggia raccoglie i braccianti africani stagionali (che lavorano ai programmi), ha detto no a inizio ottobre a un premio come social radio dell’anno: avrebbe dovuto riceverlo all’Expo ma sarebbe stato un controsenso, per i responsabili dell’emittente, presentarsi in un contesto in cui la modalità di commercializzazione del made in Italy nulla hanno a che vedere con quella che è invece la triste realtà di alcuni dei luoghi da cui provengono, che con musica e informazione la radio cerca di combattere. Altro, hanno detto, dovrebbe essere il dibattito, ben oltre un premio. Meglio continuare a combattere, senza premi.

 

L’estate nera

Raccoltapomodori

 

Il graffio di Radio Ghetto è stato l’epitaffio sulla lugubre estate del meridione italiano, una delle più nere per numero di morti nelle campagne, tutte del meridione: una dozzina di croci ha punteggiato Puglia, Calabria, Campania, Sicilia e Piemonte, provocando lo sdegno culminato da una parte in importanti manifestazioni di piazza, dall’altra in una improvvisa presa di coscienza delle istituzioni. Due gli episodi che possono essere presi a esempio: la storia di Paola Clemente, 49enne lavoratrice pugliese morta il 13 luglio nelle campagne alla periferia di Andria. Lavorava da anni per pochi spiccioli, inquadrata come impiegata in attività di consulenza. E poi quella di Sare Mamadou, 37 anni, burkinabè che il 22 settembre a Lucera, nel Foggiano, non è stato vittima del caldo né di un incidente: è caduto sotto i colpi di un abitante del luogo, che accusava lui e altri due africani di aver rubato meloni nel suo terreno. L’ultimo episodio neanche due settimane fa: a Sessa Aurunca un trentenne ivoriano è morto al termine di una lunghissima giornata di lavoro schiacciato dal trattore che stava guidando.

 

Caporalato, che fare?

Preso atto del bollettino di guerra, caccia ai rimedi. Sono quelli che, in uno stato di vera emergenza, il Governo ha annunciato come imminenti per porre rimedio a un fenomeno genericamente inquadrato come caporalato, il reclutamento di lavoratori per le campagne, ma di cui il caporalato è solo una delle facce.

Il duo Politiche Agricole-Giustizia ha dunque prodotto una serie di proposte, che presto dovrebbero essere trasformate in interventi: la confisca del prodotto o del profitto del reato; l’immissione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (articolo 603 bis del codice penale) tra quelli per i quali può operare la confisca allargata, una misura patrimoniale studiata per colpire le grandi ricchezze accumulate in modo illecito; l’individuazione della responsabilità oggettiva anche per l’ente responsabile del caporalato, non solo per il singolo; l’indennizzo alle vittime di delitti intenzionali violenti riconducibili a caporalato. Due degli interventi, la confisca allargata e la responsabilità oggettiva, sono stati inseriti ieri dal Governo come emendamenti alla riforma del codice antimafia. Il tutto produrrebbe i primi interventi legislativi dal 2012, l’anno di elaborazione della “legge di Rosarno”.

Oltre che dalla capitale proposte sono arrivate nei giorni scorsi da due commissioni della Regione Puglia: raccordo più forte coi prefetti; necessità di garantire, d’intesa con gli enti locali, un servizio di trasporto sul posto di lavoro alternativo a quello dei caporali; rimodulazione delle modalità di accesso al lavoro; coinvolgimento delle ASL per combattere le malattie professionali.

 

I numeri del caporalato

Nel 2013 sono stati più di 320 mila gli immigrati, provenienti da 169 nazioni, impegnati nelle campagne italiane. Hanno svolto, secondo il rapporto Terra Ingiusta pubblicato lo scorso maggio da Medu (medici per i diritti umani) circa 26 milioni di giornate di lavoro pari al 23,2 per cento delle giornate dichiarate complessivamente in quell’anno. Il lavoro sommerso riguarda il 32 per cento del totale dei dipendenti del settore agricolo, di cui circa centomila sono sottoposti a sfruttamento e costretti a vivere in insediamenti malsani.


Ingiustizie che attraversano tutta la penisola, toccando l’Emilia Romagna, la Lombardia e il Piemonte oltre le regioni del meridione tradizionalmente considerate la patria del caporalato. Uno sfruttamento che ha colpito chi ha svolto l’indagine Medu, oltre che per le principali caratteristiche del fenomeno (lavoratori pagati 30 euro per 10 ore, contratti non rispettati o inesistenti, caporalato “totale”, svolto cioè fin dal paese d’origine), soprattutto per le condizioni in cui i braccianti, età media tra 30 e 40 anni, sono costretti a lavorare. Un altro piccolo campione esemplificativo è costituito dai lavoratori controllati tra luglio e settembre in varie regioni italiane dai carabinieri del nucleo Tutela del lavoro: su 2000, 300 sono risultati in nero.

 

Lo sdegno

E’ quello della rete di associazioni che da anni sono impegnate nella lotta al caporalato, capace di produrre una serie di manifestazioni. Su tutte le due pugliesi dello scorso fine settimana: i tremila in marcia nel centro di Bari durante il corteo organizzato dalla Flai Cgil, e le centinaia che hanno pedalato in bicicletta per la Puglia, con arrivo a San Giorgio Jonico, per dire no al caporalato. Un importante lavoro è stato compiuto anche dalle associazioni Terra!Onlus, daSud e Terrelibere.org, che nel progetto Filiera sporca hanno elaborato alcune proposte: un’etichetta narrante del prodotto, l’elenco dei fornitori, la responsabilità in solido, ossia l’emendamento presentato ieri dal Governo.

 

 

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