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Caporalato: Umberto Franciosi ci dice la sua sul caso di Modena

“L’esplosione del caso Modena per ora non è servita: alcune aziende non vogliono entrare nel circuito  della legalità, e per noi questa è una sconfitta”. Nel parlare dell’Emilia Romagna e delle sue forme di caporalato Umberto Franciosi, segretario generale della Flai Cgil, non nasconde la delusione: “Non riusciamo a uscire dall’impasse, i casi di intermediazione illegale di manodopera sono sempre tanti, e non solo a Modena”.

Si tratta del caporalato nella sua forma più avanzata, secondo Franciosi, che per il terzo dossier del sindacato si è occupato proprio del caso modenese: in una regione ritenuta virtuosa per legalità e rispetto della dignità del lavoro, un distretto della macellazione e lavorazione carni tra i più importanti d’Italia, quello di Modena, offre casi di paraschiavismo sotto un paravento, quello delle false coop, di difficile individuazione. Il caso è esploso ma la soluzione pare ancora lontana. E in regione non è l’unico.

umberto franciosi

L’Emilia Romagna è dunque paragonabile a quelle regioni dove il caporalato è insito nel mercato del lavoro, una piaga spesso tragica e pressoché inestirpabile?

Umberto Franciosi: Ci viene in mente il sud per fenomeni degenerativi cui d’estate i media danno risalto, ma tecnicamente si tratta di intermediazione illegale di manodopera: questa dal punto di vista giuslavoristico è l’irregolarità, e di queste in Emilia Romagna ce ne sono a volontà, più di quanto si possa pensare. E parlo solo del settore che conosco, l’agroalimentare. L’intermediazione illegale di manodopera viene esercitata tramite appalti non regolari e false cooperative, e presenta pressione e sfruttamento simili al caporalato. In questo l’Emilia è vicina alle storture del sud: qui non ci sono rotonde dove a notte fonda si danno appuntamento lavoratori e lavoratrici, non siamo a quelle porcherie, ma i lavoratori aspettano l’sms la sera non sapendo se il giorno dopo dovranno lavorare, oppure lavorano due ore e poi vengono lasciati a casa. Nelle industrie di trasformazione, macellazione, salumifici e prosciuttifici è diventata questa la forma di lavoro utilizzata da molte aziende, che noi riusciamo a contrastare a fatica.

È solo Modena la provincia in cui esistono queste forme di illegalità?

U.F.: Ormai questo meccanismo è diffuso in gran parte degli impianti di macellazione bovina e suina, dunque a Modena e Parma, ma c’è anche la macellazione avicola, ed ecco dunque la Romagna, Forlì-Cesena in particolare. Ci sono coop che albergano in Veneto e organizzano lavoratori del nord Africa per caricare i camion dei polli, succede regolarmente. In questo tipo di settore è prevalente lo straniero ma ci sono anche italiani, effetto della crisi.  A volte troviamo 13-14 etnie, non solo Nordafrica: man mano sono arrivati dal centro Africa e ora dall’est Europa: albanesi russi, ucraini e polacchi.

E sul versante agricolo?

U.F.: Sul versante agricolo non abbiamo i fenomeni del meridione, ma è diverso il tipo di agricoltura. Ci sono importanti filiere abbastanza meccanizzate, penso per esempio al pomodoro, ma la forma di sfruttamento è quella delle giornate di lavoro che vengono dichiarate: stiamo parlando di lavoro a chiamata, il datore non deve rispettarlo rigidamente. Comunichi all’Inps che hai il lavoratore e quante giornate gli fai fare, poi gliene fai fare di meno. Su 90mila dipendenti in agricoltura il 40% fa meno di 50 giornate, il 50 al di sotto delle cento. In questo non siamo molto diversi da altri territori: è vero che abbiamo filiere stagionali, ma anche aziende che lavorano tutto l’anno: solo una parte viene dichiarata.

Ricevete denunce e segnalazioni che poi girate alle forze dell’ordine?

U.F.: Sì, senza soluzione di continuità. Negli anni passati ci furono, a Ferrara e in Romagna, casi di sfruttamento molto intenso. A Cesena qualche anno fa venne aperta un’inchiesta della magistratura su coop senza terra che ingaggiavano lavoratori e li facevano lavorare sul territorio. Di quel processo non si sa nulla, forse ora si smuove.

Cosa fate per contrastare il fenomeno?

U.F.: Intanto a livello nazionale stiamo insistendo perché parta la Rete del lavoro di qualità, piena di contenuti e non solo uno slogan. Il governo si era impegnato, abbiamo fatti incontri ma non è sufficiente. Ora il caporalato è punito ma deve essere dimostrato lo sfruttamento. Allo stesso tempo però il governo si dimostra incoerente depenalizzando il reato di somministrazione irregolare di manodopera, quello che avviene nel sistema delle coop. Nessuno ne parla, noi siamo concentrati sulla rete del lavoro di qualità e chiediamo che vengano riconosciuti sgravi contributivi. Il problema principale che abbiamo in agricoltura riguarda la questione dell’incrocio domanda-offerta, il caporale lo sconfiggi se dai a impresa e lavoratori strumento: oggi gli uffici di collocamento non funzionano, non ci sono offerte di lavoro. Una delle nostre proposte con Cisl e Uil è istituire meccanismo che consenta a lavori di iscriversi al collocamento, ma tramite questo strumento, per evitare che si lucri su panini, trasporto e collocamento. Succede al sud ma anche da noi.

Modena ha fatto da apripista di una nuova sensibilizzazione?

U.F.: Purtroppo Modena non è servita, nonostante le pressioni che stiamo facendo e i tentativi politici per trovare una soluzione, registriamo una situazione di indisponibilità delle aziende. La scusa è: “Se noi sottoscriviamo certi tipi di accordi vincolanti andiamo fuori mercato rispetto ad aziende nazionali ed europee”. Letto in un certo senso hanno ragione, ma vuol dire che c’è parte del sistema della macellazione carni che non si può permettere rispetto delle leggi e dei contratti? Siamo in una situazione in cui molte imprese reggono la concorrenza non rispettando il contratto. È un problema, però, di tutta la filiera. Se uno va a vedere i prezzi della carne all’ingrosso non ha subito aumenti, anzi in alcuni casi è inferiore rispetto a quello di dieci anni fa, per bovino e per suino. I prezzi aumentano sugli scaffali e c’è qualcosa che non funziona, non mi riferisco solo alla grande distribuzione ma alle grandi imprese di trasformazione, quelle che materie prime a prezzi troppo scontati: perché? C’è tantissimo da lavorare, non è semplice perché quando c’è la crisi e si ha a che fare con cultura sindacale lontana anni luce è difficile.

Far comunicare orientali con magrebini non è semplice, far capire che hanno diritto alle ferie, l’importanza di una busta paga, l’importanza di farsi pagare n regola piuttosto che prendere 6-7 euro in nero. Si mettono in tasca 1700 euro lavorando 300 ore al mese, poi presentano cud da fame con Isee bassissime. Questo genera contrapposizione con lavoratori regolari. Qualcuno guadagna 2mila euro e prende il bonus di 80 euro di Renzi dovuto a chi non arriva a 1400. Col meccanismo di buste paga con trasferte e finti rimborsi fanno in modo che i lavoratori non paghino tasse: il lavoratore intasca, l’impresa non paga contribuzione, si abbassa il costo del lavoro: nei bilanci è 13 euro all’ora, contro costo medio di 22 euro. Questo si fa incrociando bilanci committente-appaltatrice. Per una committente il costo medio è di 26euro, per un’appaltatrice 13.

I numeri  del caporalato in Italia – 3,5 miliardi di danno all’agricoltura italiana, 430mila lavoratori interessati dal fenomeno – trovano conferma nell’analisi di Franciosi, basata sull’osservazione del territorio emiliano-romagnolo. Qui non ci sono stati finora casi eclatanti, nessuna morte nei campi, ma la modalità di sfruttamento è paragonabile a quella del sud.

Cosa ne pensate? Potrà l’equiparazione delle imprese ai caporali minare il campo degli sfruttatori? Conoscete situazioni, magari al nord, paragonabili a quelle di cui abbiamo parlato?

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