Giornale del cibo

L’ombra del caporalato sulla pesca siciliana

Sono molti i fattori e gli elementi che ci aiutano a comprendere le difficoltà, profonde e gravi, che sta vivendo l’intero settore della pesca in Sicilia. Basti pensare al fatto che, secondo quanto rilevato dal Centro di ricerca sulla pesca di Palermo, il pesce più consumato sull’isola è il bastoncino surgelato.
Non si tratta, infatti, di una nota di colore, ma di un indicatore di una difficoltà concreta sulla quale si allunga, in maniera capillare, anche il “caporalato del mare”. Questo è quanto rilevato dalla Federazione del Sociale USB di Catania che ha recentemente denunciato la situazione che ci viene illustrata da Orazio Vasta, giornalista e curatore della ricerca e da Claudia Urzì, responsabile catanese della Federazione del Sociale USB Catania.

Pesca, un settore in crisi per molti fattori

caporalato pesca

I dati raccolti dall’USB in Sicilia descrivono un comparto in forte flessione: dal 2000 ad oggi il numero di pescherecci è calato da 4.500 a poco più di 2.500, mentre le barche industriali dedicate alla pesca e al trattamento del tonno rosso sono rimaste 3 quando erano 22. In totale sono 30.000 i lavoratori coinvolti nella filiera ittica siciliana, di cui 10.000 sono pescatori: 10 anni fa erano 18.000 in più.

Come se non bastasse, il sindacato sottolinea come si sia ridotto il pescato del 40%, mentre è cresciuta l’importazione di pesce lavorato proveniente dall’estero, in particolare dal Corno d’Africa. “Ad Aci Trezza – spiega Vasta – esiste e funziona tutt’ora uno storico mercato del pesce dove, però, oggi troviamo sempre più spesso alimenti congelati e non autoctoni.”

Sono in molti, dunque, i pescatori che sono stati costretti ad reinventarsi professionalmente, rompendo una catena fatta di tradizioni tramandate di padre in figlio: “in Sicilia, infatti, di rado si trovano pescatori che provengono da famiglie impegnate in altre attività commerciali. La crisi sta spezzando queste tradizioni, trasformando pescatori che hanno fatto questo mestiere per tutta la vita in imbianchini, che è l’attività probabilmente più semplice da cui ripartire.”

I perché della crisi

In linea con i dati presentati appare chiaro che la crisi della pesca non sia una novità: le cause, infatti, sono molteplici e includono elementi differenti come la crisi economica globale, le politiche pubbliche messe in atto, una gestione inefficace e le normative europee. A proposito di quest’ultimo elemento, la Federazione del Sociale di USB non ha dubbi nell’evidenziare un trattamento differente e discriminatorio tra le varie aree di applicazione dei Regolamenti: “l’UE ha messo tanti paletti nei confronti della pesca siciliana e, in generale, del Sud Europa che ci sta penalizzando a scapito del Nord Europa che oggi è dominante.” Il problema, secondo l’analisi di Orazio Vasta, non è tanto nel contenuto delle norme in sé, ma piuttosto l’impatto che esse hanno avuto sul territorio: “Di fatto l’intervento europeo è venuto a cadere a pioggia su una realtà lavorativa ed economica che ha una sua struttura storicamente consolidata che non può essere cambiata a colpi di decreti. Sarebbe necessario piuttosto partire dalle esigenze reali di chi vive il mare tutti i giorni e che sa quali sono i problemi quotidiani e concreti.”

La questione della sicurezza

Tra le questioni più urgenti vi è anche quella della sicurezza, come sottolinea il rappresentante di USB Catania facendo riferimento ai casi di sequestro delle barche siciliane da parte di motovedette libiche o tunisine. “Peschiamo in un mare che, come sappiamo anche dalle cronache, è un limbo. Se è stato possibile trovare un accordo con la Libia per la gestione dei flussi migratori, ancora mancano regole chiare per proteggere i pescatori.”

Racconta, inoltre, di casi in cui le barche italiane sono state avvicinate mentre si trovavano in acque internazionali, e di testimonianze di siciliani trattenuti addirittura nelle carceri nordafricane. “Ricordiamo, poi, che lungo questo stesso tratto di mare corrono anche le vie del traffico di armi e di droga – aggiunge Vasta – e non possiamo dimenticare questa questione analizzando lo stato di salute della pesca siciliana.”

Caporalato del mare: un fenomeno nuovo?

In questo contesto, già di per sé piuttosto critico, si inserisce il fenomeno di quello che si può definire “caporalato del mare”, non un’esclusiva siciliana dal momento che il primo caso a cui è seguita anche una condanna ha avuto luogo in Toscana. Era il giugno del 2016 quando, durante un controllo della Guardia Costiera su un’imbarcazione al largo di Calambrone, tra Pisa e Livorno, il comandante di un peschereccio buttò in mare un ragazzo senegalese (che non sapeva nuotare) perché irregolare. Non era l’unico: le indagini degli inquirenti hanno confermato che tutti e 7 gli extracomunitari che lavorano per lo stesso peschereccio non avevano contratto né copertura assicurativa e avevano turni di più di 10 ore al giorno per 10 euro e qualche pesce. Il reato imputato al capitano è stato, dunque, proprio quello di caporalato.

Il caso siciliano

Parallelamente, sempre secondo quanto rilevato dalla Federazione del Sociale USB di Catania, ciò accade anche in Sicilia. “La ricerca e la denuncia – approfondisce Vasta – è nata poiché, come sindacato, avevamo iniziato a seguire alcuni pescatori sulla riviera ionica proprio per comprendere meglio i fattori della crisi del comparto e per occuparci di lavoro.”

Una volta entrati in contatto con i pescatori, però, sono stati proprio loro, molti dei quali molto giovani, a contattare gli operatori del sindacato per raccontare quello che accadeva davvero in mare. “Abbiamo allora iniziato a raccogliere dati e abbiamo capito di trovarci di fronte ad un fenomeno che, almeno per quanto riguarda la parte catanese, era sconosciuto. Solo dopo abbiamo constatato che il caporalato del mare esiste anche nel palermitano o vicino a Mazara del Vallo, nonostante non ci siano denunce alle autorità.”

Come funziona il “caporalato del mare”?

Il meccanismo individuato attraverso l’indagine dell’USB prevede la presenza di più figure differenti: i caporali, i proprietari delle barche che, spesso fermi per mancanza di attività, si mettono a disposizione del capo, e i pescatori propriamente sfruttati.

“Le barche dei caporali – secondo quanto ci racconta il rappresentante del sindacato catanese – escono verso le 18 e rientrano alle 6 di mattina. L’equipaggio, composto da 4 persone normalmente, guadagna circa 120 euro, in media tra i 25 e i 30 euro a persona, ma solo se c’è il pescato e se il caporale ritiene che valga la pena.” Se, durante la notte, la barca viene controllata dalla Guardia Costiera o dalle autorità di controllo, la multa e il sequestro dell’imbarcazione e del pescato pesa tutto sul proprietario, e nessuno dei pescatori viene pagato.

In base a quanto è stato raccontato all’USB, il fenomeno è capillarmente diffuso: “possiamo dire che su 10 pescatori che ancora escono per conto proprio, almeno 6/7 sono soggetti al caporalato. E si tratta nella maggior parte dei casi, sempre facendo riferimento al versante catanese del fenomeno, di lavoratori siciliani, appartenenti appunto a famiglie storiche di pescatori che cadono nella rete per poter portare qualche soldo a casa.”

Denunce e ripercussioni

Seppur molto rari, ci sono stati casi in cui i pescatori si sono rifiutati di sottostare alle regole imposte dai caporali. “Non ci sono state denunce – specifica Vasta – né possiamo stabilire dei nessi causali inequivocabili, ma abbiamo rilevato casi di barche bucate e addirittura di un’imbarcazione data alle fiamme. Danni che hanno colpito proprio chi si era opposto al pizzo.”

Il giornalista e attivista dell’USB evidenzia come si tratti di segnali “strani”, che potrebbero far pensare anche ad un coinvolgimento della mafia: “è la mafia, appunto, a controllare tutto il lavoro nero, diffuso in maniera capillare in vari ambiti. Non ci sorprendere che i pescatori vengano all’USB a raccontare ciò che accade, ma non pensino di rivolgersi ai carabinieri per esempio.”

Ciò rende ancor più critica ogni azione di tutela dei pescatori: “il punto è che c’è dell’omertà diffusa e dobbiamo chiamarla così e non paura perché così si sta creando un cerchio da cui è difficile uscire. Da parte nostra, abbiamo incontrato i pescatori, sia a livello individuale che collettivo, e proposto loro di costituirsi in cooperative per essere più forti e protetti. Ma non è facile, mi aspetto piuttosto che questa situazione ad un certo punto esploda sperando in conseguenze non drammatiche.”

La strada da percorrere per arginare il diffondersi del caporalato del mare passa necessariamente attraverso un’azione variegata, che risponda prima di tutto alla crisi del comparto ittico siciliano, ma che tenga in considerazione anche le questioni legate alla sicurezza, alle economie sotterranee e alla legalità.
Per comprendere, dunque, la questione anche a proposito dello sfruttamento dei lavoratori nelle campagne, vi consigliamo questo approfondimento dedicato alle agromafie in Sicilia, Lazio e Lombardia.

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