Conosciuto come il “polmone verde d’Europa” per la presenza di ben tre Parchi nazionali (quello del Gran Sasso e Monti della Laga, il Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, e il Parco nazionale della Majella), l’Abruzzo è anche ricco di bontà enogastronomiche, dagli arrosticini al liquore di genziana.
Esiste però un prodotto in particolare che è simbolo della zona dell’Aquila e della sua secolare cultura casearia: il canestrato di Castel Del Monte. Si tratta di un formaggio pecorino stagionato, presidio Slow Food, strettamente connesso alla tradizione della transumanza, l’antica pratica pastorale che consisteva nel portare al pascolo le greggi fino in Puglia durante i mesi invernali – e alle peculiarità di un territorio denso di biodiversità.
Ne abbiamo parlato con Silvia De Paulis, responsabile Slow Food del presidio, che ci ha raccontato come la produzione di questo formaggio unico sia in realtà a rischio, anche a causa dei cambiamenti climatici.
Canestrato di Castel del Monte, origini e caratteristiche di un pecorino unico nel suo genere
Immerso in un paesaggio montuoso ai piedi del Gran Sasso, Castel del Monte è annoverato tra i borghi più belli d’Italia, con le sue case in pietra e le stradine labirintiche. È in questa zona, tra boschi, faggete e piani carsici a 1346 metri sul livello del mare, che si trovano anche i moltissimi pascoli in quota dove nasce il pecorino “canestrato” – così chiamato perché tradizionalmente prendeva forma in canestri di giunco.
“Se fosse prodotto altrove, il canestrato sarebbe tutt’altro formaggio” spiega Silvia De Paulis, responsabile del presidio Slow Food ed ex vice presidente nazionale dell’ente. “La materia prima è l’elemento fondamentale. Quel che resta impresso in ogni forma di pecorino è l’essenza del territorio: i pascoli d’alta quota, l’aroma delle erbe, l’acqua pura che sgorga dal Gran Sasso. Il formaggio è lavorato al minimo per preservare l’integrità del latte e del prodotto finale, rispecchiando così la natura e dove gli ovini pascolano. Tutto avviene nel pieno rispetto dell’ambiente in cui questi animali vivono”.
Ma come nasce il Canestrato di Castel del Monte e perché è un pecorino unico nel suo genere?
Dove nasce il Canestrato di Castel del Monte e quali sono le sue peculiarità
Il Gran Sasso, il picco montuoso più alto degli Appennini, vanta un’enorme varietà di flora foraggera. “Contrariamente alle Alpi, dove si trovano circa 20-30 essenze, qui se ne contano più di 300 varietà diverse” spiega De Paulis. Questo contribuisce a creare un’eccezionale biodiversità, sostenuta da un clima secco tutto l’anno, ideale per l’allevamento ovino. Ne deriva un formaggio a pasta dura dal sapore pronunciato e piccante: si tratta di un pecorino a latte crudo, che non viene cioè pastorizzato “perché altrimenti perderebbe tutto il sentore erboso che solo i pascoli del Gran Sasso sanno dare” aggiunge De Paulis.
Il Canestrato di Castel del Monte viene prodotto tramite allevamenti estensivi. Cosa si intende? Al contrario di quelli di tipo intensivo, il bestiame viene tenuto in stalla solamente nel periodo invernale: “appena i prati sono pronti, però, gli ovini vengono mandati al pascolo, rispettando tutti quelli che sono gli usi civici – quindi secondo il regolamento dei pascoli che ciascun Comune ha – e portati in alpeggio fino alla piana di Campo Imperatore, 19 km di estensione a 1800 metri di altezza. Questa tipologia di allevamento consente al bestiame di poter pascolare fino a 6 mesi l’anno, e prevede che le pecore vengano alimentate con il fieno proveniente esclusivamente dai terreni degli allevatori – che coltivano il foraggio, lo essiccano in rotoballe e lo conservano per l’inverno”.
Come viene prodotto il Canestrato di Castel del Monte?
“La lavorazione del canestrato è molto semplice e veloce, dato che si tratta di un formaggio che spesso veniva prodotto proprio durante la transumanza, quindi mentre i pastori erano in viaggio sui tratturi verso Foggia” spiega De Paulis. Il latte viene filtrato, riscaldato a una temperatura tra i 35° e i 40° C per 15-25 minuti, e vi si aggiunge del caglio naturale. La cagliata che si forma da questo processo viene poi rotta, trasferita nei canestri, pressata – favorendo così la fuoriuscita del siero residuo – e salata. Dopo la salatura, le forme di formaggio sono riposte su tavole di legno in un ambiente fresco e areato, le casere.
“La stagionatura, poi, richiede molta cura: la crosta di ogni forma viene unta con olio d’oliva, e ogni giorno deve essere capovolta e ben areata. Più il canestrato viene stagionato, più se ne percepiscono il sentore piccante, l’odore, il sapore e la dolcezza delle erbe, il che lo rende adatto sia come formaggio da taglio che grattugiato” conclude De Paulis.
Il Canestrato di Castel del Monte si produce quasi durante tutto l’anno, con una stagionatura minima che varia a seconda del peso della forma: 2 mesi per le forme da uno o due chilogrammi, 8 mesi per le forme da cinque chilogrammi e fino a 15 mesi per le forme tradizionali da 15 chilogrammi.
Questa secolare tradizione ha attirato l’attenzione di Slow Food, che ha fatto di questo formaggio uno dei suoi presidi.
[elementor-template id='142071']Slow Food a tutela del Canestrato di Castel del Monte, un presidio a rischio
“Il presidio Slow Food è nato intorno agli anni 2000, con l’intenzione non tanto di diffondere il prodotto – che aveva e ha una larga eco – quanto di regolamentarne la produzione, per evitare contraffazioni” racconta De Paulis. Sostenuto dal Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, “è stato un percorso partecipativo vero e proprio. Abbiamo chiamato a raccolta tutti gli allevatori, e insieme a loro abbiamo scritto il disciplinare di produzione. Anzi, un doppio disciplinare, cosa che non viene fatta spesso”. Quello del canestrato di Castel del Monte, infatti, prevede due fasi, che sono una l’anticipazione e la preparazione dell’altra: l’allevamento e la trasformazione. “Prima è stato necessario fissare delle regole su come si alleva: abbiamo indicato quali sono i pascoli in cui portare le pecore e le modalità di allevamento estensivo.Poi abbiamo messo nero su bianco come si trasforma questo latte in modo che diventi il Canestrato di Castel del Monte”.
Il tutto con il prezioso contributo del servizio veterinario della ASL, dell’Istituto Zooprofilattico, dell’ARTA, della regione Abruzzo e di tutti i comuni dell’Aquilano interessati: “abbiamo coinvolto anche le istituzioni e chi si occupa dei controlli, per capire se quanto contenuto nel disciplinare fosse tecnicamente corretto: non volevamo che gli allevatori avessero problemi in fase di ispezione” specifica De Paulis.
Tutto questo, però, rischia di scomparire. “L’allevamento ovicaprino sta avendo problemi enormi, soprattutto a causa dei cambiamenti climatici che stiamo vivendo”. È una difficoltà che non riguarda solo gli allevatori, ma anche la conservazione di un patrimonio culturale e gastronomico inestimabile, a cui tiene molto anche Slow Food. “Il ruolo dell’ente si è rivelato fondamentale negli anni, e lo sarà anche in futuro per contrastare la possibile scomparsa di questo prodotto così particolare” aggiunge De Paulis.
L’impatto dei cambiamenti climatici sulla produzione di questo formaggio
“Quando è nato il presidio, le aziende aderenti erano quelle di tutto il versante meridionale del Gran Sasso – ossia l’area che va dalla zona est del capoluogo fino ai piedi del Corno Grande” racconta De Paulis.
Il riscaldamento globale e il modo in cui le temperature sempre più alte stanno influendo sulle stagioni sono una minaccia reale per prodotti della terra come il canestrato di Castel del Monte: “pensiamo alle precipitazioni cadute questa primavera, e a quanto fieno si è rovinato”. Sebbene aumenti la quantità del foraggio, infatti, la pioggia ne diminuisce drasticamente la qualità, che è parte integrante del processo produttivo del canestrato. A fronte di ciò, gli allevatori sono costretti ad acquistarlo altrove, affrontando anche l’incremento della domanda e i prezzi elevati. “I contributi che arrivano dall’UE, poi, sono molto ridotti: la quota per l’allevamento ovino rispetto al vaccino è molto più bassa” spiega De Paulis.
Inoltre, l’aumento dei costi dell’energia incide moltissimo sulle piccole aziende agricole come queste: “i produttori non se la sentono di aumentare il prezzo finale di vendita – se non di qualche centesimo – e far pagare questi costi al consumatore finale. Sono persone a cui dobbiamo tanto rispetto e riconoscenza, perché portano avanti una tradizione in cui c’è pochissimo ricambio generazionale, tanto lavoro ma anche tante preoccupazioni per il futuro”.
Anche i rischi per la tutela del territorio sono un punto centrale: “l’allevamento delle pecore da cui si ottiene il canestrato ha un impatto ambientale decisamente inferiore rispetto a quello dei bovini. Questo perché causa meno danni sia in termini di calpestamento del suolo, sia per quanto riguarda il controllo delle piante infestanti, di cui gli ovini impediscono la crescita” commenta De Paulis.
Queste aziende agricole, inoltre, risentono ancora dei danni del post-terremoto del 2009. “Dopo il sisma molti allevatori hanno dismesso le proprie attività, e tante aziende hanno ridotto il numero del bestiame. Di conseguenza, le pecore producono meno latte, sebbene il prodotto sia comunque molto richiesto. Se la maggior parte delle aziende dovesse definitivamente chiudere, il bestiame produrrebbe solo carne e lana”.
Il futuro del Canestrato
È qui che entra in gioco Slow Food, il cui contributo è stato fondamentale anche durante l’emergenza sismica. “Il suo ruolo è stato centrale nella realizzazione del Mercato Contadino dell’Aquila, riaperto dopo il terremoto del 2009 con la più grande raccolta fondi che Slow Food abbia mai organizzato, proprio per aiutare sia la comunità sia i produttori che avevano perso i loro negozi e le botteghe” racconta De Paulis. “Ora, con l’emergenza climatica a cui ci troviamo a dover far fronte, la rete di osterie Slow Food – che ordina regolarmente il canestrato – svolge un ruolo chiave, così come i canali di vendita sul territorio” spiega De Paulis. Uno di questi è quello della Cooperativa Campo Imperatore, che ha un punto vendita nel paese di Calascio, dove si trova l’omonima Rocca che ha un flusso turistico non indifferente.
Quindi, cosa possiamo fare per sostenere la produzione del canestrato? “La risposta è semplice” dichiara De Paulis “acquistiamo meno, ma in modo più consapevole. Oltre al cambiamento climatico, anche gli sprechi alimentari rappresentano un problema enorme. Sebbene possa sembrare che si risparmi acquistando cibo in grandi quantità, alla fine si rischia di gettarne via più del previsto. Invece, potremmo fare una spesa più oculata, scegliendo prodotti di qualità legati al territorio. Ricordiamo che dietro ogni prodotto locale ci sono impegno, lavoro e una storia da valorizzare”.
Abbiamo visto come il canestrato di Castel Del Monte rappresenta non solo un eccellente prodotto gastronomico, ma anche un simbolo della ricchezza culturale e naturale del territorio abruzzese. Un formaggio che merita di essere gustato, e una tradizione che merita di essere preservata.
Immagine in evidenza di: Silvia de Paulis