Giornale del cibo

Il cambiamento climatico è servito: che conseguenze a tavola?

Tra i terribili effetti del riscaldamento globale non c’è soltanto lo scioglimento dei ghiacciai, o il rischio di estinzione per molte specie animali, ma anche un sostanziale e concreto impoverimento della nostra tavola. Secondo la Cia, Confederazione degli agricoltori, infatti, in Italia è possibile trovare il 50% dell’intero patrimonio agroforestale dell’Europa, ma questo tesoro è oggi concretamente a rischio.

Vediamo, dunque, in che modo impatta il cambiamento climatico su agricoltura e alimentazione, anche alla luce del dibattito sviluppato al Festival del Giornalismo Alimentare a cui abbiamo preso parte qualche giorno fa.

Cambiamento climatico, agricoltura e alimentazione: i paradossi

La questione è piuttosto delicata, proprio perché va ad intersecare molti temi differenti dalla tutela dell’ambiente, alla sostenibilità delle filiere produttive, fino alla sopravvivenza di colture e culture che fanno parte della storia del paese e della dieta mediterranea, un vero e proprio patrimonio anche in termini di salute. Si tratta di elementi che spesso generano contraddizioni e paradossi che rendono ancor più complessa una possibile soluzione, alla luce del fatto che il cambiamento climatico è un problema globale e, probabilmente, solo attraverso un’azione davvero collettiva si potrebbero cogliere i risultati sperati.

Il grano russo, la quinoa italiana

grano russia

In primo luogo è interessante osservare come il cambiamento climatico stia cambiando la distribuzione della vegetazione spontanea nel nostro paese: l’aumento delle temperature, combinato con il progressivo spopolamento di tante aree rurali e di montagna, sta facendo sì che i boschi si diffondano in aree a latitudine più elevata dove prima non potevano sopravvivere. Mutano, dunque, i luoghi dove alberi e piante trovano terreno fertile per crescere e, di conseguenza, è possibile che colture storicamente molto floride non siano più adatte a quel tipo di territorio.

Secondo i dati di Coldiretti, la foresta ha invaso i terreni incolti: 12 miliardi di alberi ricoprono, oggi, più di un terzo della superficie nazionale. Il problema è quello della manutenzione, della difesa e della sorveglianza, nonché quello del calo della produttività di aree sempre più estese.

Emerge, dunque, il primo paradosso a proposito delle conseguenze del cambiamento climatico sull’agricoltura: infatti, intere aree tradizionalmente poco adatte alla coltivazione ora scoprono una risorsa preziosa. È il caso della Russia che è diventata, con le sue 80 tonnellate all’anno, il massimo esportatore di frumento al mondo. E per alcune zone che già ne soffrono: il riscaldamento globale non può essere additato come il solo responsabile, ma il rinnovo di alcuni comparti del settore agricolo italiano è una priorità, come evidenziato da Confagricoltura Verona che ha stimato che siano ben 17.000 gli ettari di superficie agricola da riconvertire urgentemente nella sola provincia veneta. Le soluzioni proposte? Bacche di goji, semi di chia, quinoa: colture che non solo non appartengono alla tradizione locale, ma gradiscono climi più caldi rispetto a quelli che ci aspetteremmo dalla zona.

Tanto produce, tanto subisce

Un secondo paradosso riguarda il nesso tra causa ed effetto del riscaldamento globale quando guardiamo all’agricoltura: infatti, le attività agricole in Europa producevano, nel 2012, il 10% delle emissioni di gas serra, secondo quanto riportato dall’Agenzia europea dell’ambiente.

Un rapporto di Oxfam del 2016, inoltre, sottolinea come la produzione di riso, soia, mais, grano e olio di palma generi, a livello mondiale, quantità di anidride carbonica superiori a quelle prodotte da un qualsiasi paese del mondo, eccezion fatta per gli Stati Unite e la Cina.

Da un lato, dunque, le coltivazioni contribuiscono al cambiamento climatico, mentre dall’altro ne subiscono direttamente le conseguenze negative che si ripercuotono sull’intera filiera, dal produttore sino al consumatore.

Conseguenze a tavola del cambiamento climatico

Gli effetti, dunque, del riscaldamento globale possono arrivare fino alle nostre tavole. Questo è quello di cui sono convinti gli esperti che hanno già osservato alcuni cambiamenti concreti, soprattutto sui cereali.

Gli effetti sui cereali

L’aumento della temperatura a livello globale ha, in particolare, un effetto negativo sulla resa dei cereali, nutrienti alla base della dieta degli individui in tutto il mondo. Una ricerca pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences, infatti, ha osservato che un aumento di un grado Celsius può abbattere la resa dei mais del 7%. Consideriamo che, entro il 2100, le previsioni più ottimistiche sostengono che la temperatura si alzerà di 0,7°C, mentre i più pessimisti arrivano ad ipotizzare che la colonnina di mercurio segnerà ben 10°C in più.

I ricercatori statunitensi aggiungono che il rendimento globale del grano ad un aumento di 1°C calerebbe del 6,0%, quello del riso del 3,2%, quello della soia del 3,1%, con un impatto maggiore su tutte quelle aree a “rischio desertificazione”, tra cui anche l’Europa meridionale.

Quali soluzioni in Italia?

Arginare i danni è, dunque, una priorità assoluta, soprattutto se consideriamo che nel primo semestre del 2017 il riscaldamento globale è costato quasi un miliardo di euro agli agricoltori italiani che sono stati costretti a ricorrere all’irrigazione di soccorso per salvare le produzioni, comprese quelle fondamentali per l’allevamento e, quindi, proteggere molteplici eccellenze alimentari a base di latte come grana padano, parmigiano reggiano e mozzarella di bufala.

Sono sicuramente fondamentali delle politiche internazionali, ma, come evidenziato da Cristiana Peano del Dipartimento di Scienze Agrarie di Torino, intervenuta al Festival Internazionale del Giornalismo Alimentare, si può fare di più partendo dal locale: “È necessario coinvolgere i coltivatori, le aziende. Il mondo agricolo può e deve dare un forte contributo alla mitigazione climatica, ma purtroppo siamo ancora deboli su questo fronte. Per affrontare il cambiamento climatico occorre ragionare su un nuovo modello di agricoltura, anche valutando la possibilità di nuove specie e nuove colture più resilienti.

Coldiretti sostiene che sia necessario, a questo punto, organizzare una  raccolta dell’acqua nei periodi più piovosi attraverso infrastrutture e soluzioni ad alto tasso tecnologico che permettano, di conseguenza, di non aggravare la situazione. Per esempio, si parla di bacini aziendali, impiegando per esempio ex cave o casse di espansione dei fiumi per raccogliere quanto è fondamentale per l’irrigazione. Ma anche, come proposto durante un altro panel dedicato al tema alla recente kermesse torinese, esiste la necessità di una maggiore diffusione ed efficienza degli impianti di depurazione.

Contemporaneamente, cresce il bisogno di tutelare le colture tradizionali e antiche istituendo le banche del germoplasma dove è possibile conservare generi e specie botaniche ad una temperatura compresa tra 0 e -20°C. In questo modo, come ci ha raccontato Paolo Valoti, referente esperto della Banca del Germoplasma a proposito di mais autocnoni nel bergamasco, è possibile non solo tutelare la biodiversità da catastrofi naturali o indotte dall’uomo, ma anche preservare i semi affinché possano essere reintrodotti in futuro.

Ben lontani da una soluzione per rallentare il riscaldamento globale e far fronte al progressivo riscaldamento del pianeta, gli agricoltori italiani, dunque, già ne possono osservare le conseguenze e hanno iniziato a correre ai ripari. Che il 2018, anno nazionale del cibo italiano, possa rappresentare un momento di svolta?

Exit mobile version