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Vino e cambiamenti climatici: quali sono gli effetti sulla produzione?

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La viticoltura è una delle attività agricole più suscettibili alle variazioni di temperatura e umidità, come agli eventi avversi, quali gelate, grandinate e ondate di calore. Nell’ultimo decennio, però, il vino ha risentito sempre più dei cambiamenti climatici, diventati ormai strutturali e in grado di modificare notevolmente la geografia enologica, in Italia come altrove. Come sta cambiando, quindi, la produzione, e come questo si riflette nelle caratteristiche sensoriali di ciò che arriva sulle tavole? Ed è possibile sfruttare in senso positivo queste variazioni? Considerando gli spunti offerti da un dibattito che si è svolto al Festival del giornalismo alimentare 2021 e le ricerche finora pubblicate, approfondiamo questo argomento che, purtroppo, è sempre più di attualità.

Cambia il clima, cambia il vino

Il cambiamento climatico è una certezza scientifica assodata, che ormai da diversi anni impegna l’umanità in una rincorsa per contenere l’aumento delle temperature. Come abbiamo constatato nella nostra intervista al professor Andrea Segrè, durante la COP26 la produzione alimentare è stata considerata solo marginalmente, aspetto che ha contribuito a evidenziare le difficoltà e i limiti dei summit internazionali di questo tipo. Se tutta l’agroindustria risente del climate change, alcune colture particolarmente sensibili accusano maggiormente tali variazioni, a partire dagli eventi estremi, e tra queste c’è sicuramente la viticoltura. Tra gli indicatori più evidenti ci sono le vendemmie anticipate, e su larga scala la migrazione a quote più alte e verso Nord dei vigneti, dove fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile trovarli.

cambiamento climatico vino
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I cambiamenti climatici, infatti, determinano variazioni significative di carattere sensoriale e organolettico, e sono tanti i casi esemplari che riprovano la delicatezza degli equilibri necessari per ottenere produzioni soddisfacenti per qualità e per quantità, o quantomeno conformi agli standard attesi. Pur dovendo considerare notevoli differenze territoriali, tra questi possiamo citare l’estate del 2003 in Borgogna, che sancì un crollo produttivo del 30%, oppure l’annata 2017 in Italia, segnata da gelate tardive e in seguito dalla siccità, come anche l’intensità delle grandinate che hanno colpito l’Oltrepò pavese nel 2021.

Sono a rischio i vitigni e le zone di produzione storiche

Secondo una ricerca realizzata dall’Istituto nazionale francese della ricerca agronomica (Inra) e pubblicata nel 2020 su PNAS, se, come ormai previsto, entro il 2050 le temperature medie salissero di 2 gradi centigradi, il 56% delle attuali regioni vitivinicole nel mondo potrebbe sparire. Se poi entro il 2100 l’aumento raggiungesse i +4 gradi, questa perdita arriverebbe all’85%. Lo studio, in particolare, si è concentrato sulle undici varietà internazionali più coltivate, tra le quali cabernet-sauvignon, merlot, chardonnay, pinot nero, riesling e syrah, che rappresentano il 35% delle superfici vinicole nel mondo e il 64-87% in Australia, Cile, Francia, Nuova Zelanda, Svizzera e Stati Uniti.

A soffrire sarebbe soprattutto l’area mediterranea, con Italia e Spagna che perderebbero rispettivamente il 68 e 65% di aree climaticamente idonee, in uno scenario di riscaldamento di +2 °C, con guadagni di solo il 9% e il 5%. Questa situazione interesserebbe anche l’olivicoltura del Sud Mediterraneo e l’industria del pomodoro, come abbiamo visto. Anche la pesca nei nostri mari, del resto, sta già subendo la tropicalizzazione e la comparsa di pesci esotici.

Per la Francia, mediamente più fredda, a fronte di perdite del 22% ci sarebbero guadagni del 25%. Per le regioni produttrici di vino della costa pacifica degli Stati Uniti e della Nuova Zelanda, invece, potranno verificarsi espansioni nell’area climaticamente adatta per le varietà a maturazione tardiva, rispettivamente dal 20 al 100% e dal 15 al 60%. Nell’altra faccia della medaglia, infatti, ci sono le zone più temperate o ad altitudini superiori, che dal global warming trarrebbero vantaggio.

Inoltre, in generale le perdite aumenterebbero nettamente in uno scenario di riscaldamento di +4 °C, a fronte di guadagni diminuiti. A maggior ragione questa situazione colpirebbe i paesi già caldi, con perdite fino al 90% in Spagna e Italia. Rispetto ai primi anni Ottanta, non a caso, in Italia si registra una temperatura media superiore di circa 1,7°C, a fronte di un dato globale di +0,8°C.

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Puntare sulla biodiversità

Per contrastare questo declino, lo studio propone alcune soluzioni improntate all’adattamento alle nuove condizioni, nel rispetto di una visione agroecologica. Innanzitutto, occorre comprendere a fondo la capacità dei diversi vitigni – specialmente di quelli autoctoni – di adattarsi ai cambiamenti. A tal fine, l’aumento della biodiversità agricola in vigna potrebbe dimezzare le perdite delle zone vitivinicole nel primo scenario climatico citato (+2 gradi al 2050) e ridurle di un terzo nel secondo (+4 gradi al 2100).

Oltre a questo, è fondamentale favorire la consapevolezza e la sensibilità dei consumatori, incoraggiandoli a provare e preferire nuove varietà. Così facendo, anche le aziende saranno spinte a diversificare la loro produzione e ad accrescere il loro potenziale di adattamento, come tante peraltro stanno già facendo. A seguire questa linea è anche il progetto Laccave, avviato in Francia nel 2012 e coordinato dall’Inra, che ha lo scopo di definire strategie di adattamento al riscaldamento globale per la viticoltura transalpina da qui al 2050. A livello globale, ad ogni modo, il futuro delle aree vinicole storiche dipende in gran parte dalle decisioni politico-sociali che verranno prese nei prossimi anni, e in questo senso la comunità scientifica è già impegnata nel trovare tecniche di coltivazione innovative e previsioni climatiche sempre più accurate, un settore che sta vivendo una notevole evoluzione, come abbiamo visto occupandoci del servizio Agrigenius Vite.

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Cambiamenti climatici: quali effetti sulla viticoltura? 

Lo studio Climate change, wine, and conservation, pubblicato su PNAS nel 2013 e più volte citato in seguito, ha evidenziato con un certo anticipo la capacità del riscaldamento globale di influenzare gli ecosistemi, sia direttamente che indirettamente, ad esempio spingendoci a utilizzare il territorio in modo diverso, con tutte le conseguenze sull’ambiente che ciò può generare. A questo proposito, per la sensibilità pedoclimatica sopra citata la viticoltura offre uno spaccato esemplificativo, e secondo gli autori l’impatto sostanziale del cambiamento climatico, con una drastiche diminuzioni delle aree vocate storiche, potrebbe creare conflitti sulla destinazioni d’uso del territorio agricolo, con possibili ricadute sugli ecosistemi e sulle riserve di acqua dolce.

Lo spostamento dei vigneti a Nord e ad altitudini maggiori aumenterebbe l’impatto del cambiamento climatico nei nuovi ecosistemi colonizzati dalla viticoltura, con la conversione di ambienti naturali in aree produttive. Se questa migrazione dovesse avvenire più rapidamente rispetto a quello della flora e della fauna spontanea, il danno ecologico sarebbe inevitabile. In generale, le attività come la rimozione di flora spontanea e i trattamenti fungicidi si riflettono negativamente sulla biodiversità locale, anche nel lungo periodo. Inoltre, i tentativi di mantenimento della quantità e della qualità produttiva potrebbe determinare un maggiore consumo idrico e di risorse.

Per queste ragioni, quindi, è importante impegnarsi per conservare gli ecosistemi, per prevenire per quanto possibile questi danni indiretti.

Tra le soluzioni proposte dai ricercatori c’è lo sviluppo di nuove varietà con profili sensoriali simili a quelle esistenti, ma con tolleranze maggiori verso il clima atteso. Nella gestione delle denominazioni d’origine, legate alle produzioni storiche, i ricercatori suggeriscono anche di scindere le varietà dal territorio, per dare la possibilità di impiantare vitigni più resistenti. Si tratterebbe di un passaggio assai delicato e che con ogni probabilità solleverebbe la netta contrarietà di chi intende conservare le caratteristiche tradizionali dei vini. Il tutto, per gli studiosi, dovrà essere accompagnato da ricerche in ambito di tecnica colturale, ad esempio allo scopo di ottimizzare i sistemi di raffreddamento. Inoltre, potrebbero essere fissati limiti alle tecniche di irrigazione, come già avviene in alcune zone del mondo costrette a fronteggiare la siccità.

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Il vino sale al Nord, perdite e nuove opportunità: alcuni casi emblematici in Italia e nel mondo

Per comprendere meglio la portata delle migrazioni sopra citate possiamo riportare alcuni casi, sempre più frequenti e significativi negli ultimi anni.

In Italia, il Piemonte è una delle regioni più interessate da questo fenomeno, dove alcune zone e vitigni hanno vissuto cambiamenti rapidi e netti. In pochi anni, ad esempio, i vigneti di chardonnay e il pinot nero usati per lo spumante Alta Langa si sono spostati dai 250 fino agli 800-1000 metri di altitudine, per matenere la stessa acidità e freschezza richiesta per questo tipo di prodotto. Viceversa, nella stessa regione vitigni autoctoni come l’erbaluce o la barbera in vari casi hanno beneficiato dell’aumento delle temperature, dando vini più complessi e strutturati anche in zone da sempre ritenute di pregio inferiore.

Uscendo dai confini nazionali e spostandosi nell’Europa del Nord, colpisce il fatto che diversi produttori di spumanti abbiano deciso di investire nel Sud dell’Inghilterra. Questa tendenza arriva a coinvolgere anche la Scandinavia, con rilevanti progetti di viticoltura in Svezia, Danimarca e Norvegia, dove per ovvie ragioni climatiche la produzione vinicola non era mai stata nemmeno ipotizzata. Anche se al momento queste produzioni non possono paragonarsi a quelle dell’Europa centro-meridionale e a essere coltivate sono solo i vitigni più resistenti al freddo – in particolare riesling, pinot nero, solaris, rondo e vidal – questi investimenti puntano su un futuro sempre più caldo in Scandinavia, dove addirittura si stima un aumento di 6 gradi. Si arriverebbe quindi a temperature medie simili a quelle attuali del Nord della Francia, con la possibilità di avere vini di qualità ed esportabili nel mercato internazionale. A oggi i Paesi nordici importano dall’Europa del Sud e coltivano utilizzando sistemi di protezione dal freddo, ma il futuro potrebbe riservare sorprese neanche troppo inattese.

Avevate già sentito parlare dell’impatto dei cambiamenti climatici sul vino?

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