Il calcolo delle calorie è davvero un sistema affidabile per dimagrire?

calcolo calorie

 

Se avete mai provato a fare una dieta, ve ne sarete sicuramente accorti: perdere chili è un processo lungo, difficile, soprattutto da una certa soglia in poi. E questo nonostante l’impegno, la frustrazione e il calcolo attento delle calorie ingerite e consumate. Tante calorie entrano, altrettante devono essere smaltite: questo, semplificato, l’assioma principale di molti regimi alimentari controllati. Come mai, allora, perdere peso è così faticoso?

Sullo stesso tema si interrogava qualche tempo fa anche la rivista bimestrale 1843, di Economist, in un articolo intitolato “Death of the calorie” (La morte della caloria) lasciava pochi dubbi sul possibile colpevole di questa condizione: secondo il giornale il primo degli imputati sarebbe proprio il sistema di calcolo delle calorie, non tanto come unità di misura scientificamente valida (questo non è messo in discussione), quanto invece come indice su cui costruire la propria dieta, perché poco coerente con gli altri parametri che pure influenzano l’alimentazione individuale e l’assorbimento delle sostanze da parte degli organismi. Per capirne di più abbiamo intervistato il dottor Giulio Marchesini Reggiani, professore e Direttore del Servizio di Malattie del Metabolismo e Dietetica Clinica del Policlinico Sant’Orsola di Bologna, da poco in pensione, a cui abbiamo chiesto quanto è affidabile il calcolo delle calorie per dimagrire

Come funziona la regolazione dell’appetito 

calcolo calorie per dimagrire
Yuriy Maksymiv/shutterstock.com

Partiamo dalle basi: nell’uomo la regolazione dell’appetito, che significa anche la percezione della fame e della sazietà, è ancora conosciuta in modo impreciso e dipende da una serie di segnali ormonali e nervosi, generati dall’apparato digerente, dal sistema nervoso centrale e dai depositi dell’organismo dei costituenti fondamentali degli alimenti: i grassi (tessuto adiposo), gli zuccheri o carboidrati (fegato), le proteine (muscoli). Volendo semplificare, si può dire che l’energia è fornita dai diversi componenti a seconda della durata e dell’intensità dell’attività che il fisico si trova a fare:

  • dagli zuccheri, se intensa e rapida;
  • dai grassi, se meno intensa e più prolungata; 
  • dalle proteine, che contengono amminoacidi che si possono trasformare in zuccheri sia nel digiuno prolungato che durante le diete iperproteiche e durante il digiuno prolungato. 

In generale, il nostro organismo privilegia il consumo di zuccheri e grassi, lasciando il più possibile intatte le proteine, che svolgono un ruolo strutturale-funzionale fondamentale. 

L’estensione dei depositi dell’organismo dei costituenti fondamentali degli alimenti è principalmente controllata dall’ormone insulina, la cui secrezione è finemente regolata dai livelli di glucosio del sangue. In sua presenza, aumenta immediatamente l’immagazzinamento di zuccheri, grassi e proteine. Non appena i depositi degli zuccheri e delle proteine, che sono molto strutturati, si saturano, l’eventuale eccesso di zuccheri viene trasformato in grassi, che godono di un deposito molto meno organizzato e quindi più espandibile. “Poiché abbassa il contenuto di glucosio nel sangue, l’insulina può causare episodi di ipoglicemia – commenta il dottor Marchesini Reggiani – nelle persone in sovrappeso, che hanno spesso una produzione di insulina molto abbondante. In questi individui, l’ipoglicemia si associa alla comparsa di un senso di fame a distanza del pasto che rende difficile il mantenimento della dieta. Per contro, il consumo di grassi induce la produzione di sostanze, denominate corpi chetonici, che possono favorire il mantenimento della dieta, perché inducono un senso di nausea”. In questo senso, la recente scoperta dell’oleogusto potrebbe assumere un ruolo determinante. 

Il sistema delle calorie   

calcolo calorie cibo
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Cosa c’entrano, in tutto questo, le calorie? Nelle scienze della nutrizione, la caloria corrisponde all’energia richiesta per aumentare di un grado Celsius la temperatura di un chilo d’acqua e costituisce l’unità di misura sia dell’energia contenuta nel cibo, che di quella impiegata dall’organismo per eseguire operazioni come il lavoro muscolare, la riparazione dei tessuti e il funzionamento degli organi. Per svolgere tali compiti, il nostro organismo ricava energia dalla lenta combustione dei costituenti fondamentali degli alimenti (carboidrati/zuccheri, grassi, proteine).

Quello delle calorie è un sistema standard che, da solo, non può spiegare né riassumere i meccanismi metabolici che sono legati a reazioni chimiche, oltre che a una serie di cause specifiche e personali. Ma, fatte le dovute premesse, può certamente aiutare a tenere sotto controllo il peso per evitare di assecondare le condizioni che accelerano la comparsa delle malattie croniche non trasmissibili, come l’obesità. “Del resto – ci suggerisce Marchesini Reggiani – basta fare un rapido conto: poniamo il caso di un persona che assume quotidianamente 2000 calorie e ne consuma 1900. Alla fine della giornata avrà un avanzo di 100 calorie, che sono circa l’equivalente di una mela”. Fin qui, tutto regolare, una mela al giorno…“Bene, ipotizziamo che questo processo di bilancio energetico positivo duri per un anno: dopo 365 giorni avremo 36.500 calorie in eccesso. Considerando che un chilo di peso corrisponde a circa 7000 calorie, alla fine dell’anno ci troveremo con un aumento di 5 kg”, semplicemente per aver mangiato una mela di troppo. 

L’influenza della temperatura e del tipo di cottura del cibo 

Eppure – si dirà – carboidrati, proteine e grassi, sono diversi: come facciamo a paragonarne l’apporto calorico? “Posto che, a parità di peso, esistono differenze di contenuto calorico tra questi tre nutrienti, se si consumano 50 calorie dai grassi o 50 calorie dai carboidrati, si ingeriscono sempre 50 calorie.” Come a dire che una caloria è una caloria, indipendentemente da dove proviene. Su questo, Marchesini Reggiani non ha dubbi: “Anni fa abbiamo condotto, insieme al collega Riccardo Dalle Grave, uno studio in regime controllato impostando due diete: una ricca di proteine ma povera di carboidrati, e una invece ricca di carboidrati. Ai pazienti ricoverati è stato quindi somministrato il pasto per un anno di tempo”. All’inizio dell’esperimento si sono riscontrate lievi differenze tra una restrizione e l’altra, anche perché i processi biologici che vengono suscitati dalle due diete sono diversi, “ma nel lungo termine non c’era nessuna differenza. Dipendeva tutto dalla capacità di aderenza alla dieta del soggetto, che è un altro discorso”, a conferma l’assoluta indifferenza delle calorie. 

È vero che la preparazione (cibi cotti o crudi) e la temperatura a cui vengono serviti (freddi o caldi) modificano il quantitativo di calorie esposto per ogni ingrediente sull’etichetta: il fisico consuma di più per smaltire l’acqua bevuta fredda, perché prima deve scaldarla; e la pasta fredda ha un indice glicemico molto più basso di quella servita calda. In ogni cucina del mondo il cibo viene trattato in modo diverso e di conseguenza sono associati in modo diverso anche i suoi costituenti basilari: non potrebbe essere altrimenti, data l’estrema varietà di organizzazioni culturali ed economiche delle società. Ma la occasionale modifica della natura del cibo non basta a stravolgere completamente il concetto di caloria, come dimostra anche l’ultimo Technical Paper redatto dalla FAO sull’argomento (Food and Nutrition Paper 77). I dati della FAO suggeriscono che, quando il contenuto calorico dei cibi è calcolato utilizzando, per le 3 categorie basilari (zuccheri, grassi, proteine) le quantità ingerite invece che assorbite, e il fattore di conversione medio di ciascuna, invece che i fattori specifici di ogni varietà, l’errore che si genera sia di entità così modesta da permettere di continuare a utilizzare tale metodologia, che ha il vantaggio di essere facilmente comprensibile.

Appare evidente allora come la presunta fallacia del sistema non possa essere attribuita all’unità di misura in sé, quanto più alla combinazione di una serie di componenti interne ed esterne che contribuiscono alla crescita o alla diminuzione del peso. Il calcolo del fabbisogno calorico giornaliero, pertanto, non può essere dismesso semplicemente come obsoleto o impreciso, ma va inserito in un contesto più ampio e articolato.

Oltre il calcolo delle calorie: per dimagrire contano genetica, tempo e attività fisica

calcolo calorie attività fisica
Pressmaster/shutterstock.com

“Sicuramente il sistema è molto più complesso rispetto a quanto traspare da un mero calcolo delle calorie”, afferma il dottor Marchesini Reggiani. I processi che sottendono il metabolismo sono infatti estremamente complessi e la nostra conoscenza della materia non del tutto completa. Inoltre, bisogna tener conto dei meccanismi che sono alla radice di tutto ovvero: “la genetica (genotipo), che è sicuramente una base importante” prosegue Marchesini “per cui ognuno di noi assomiglia più o meno ai propri genitori”, come abbiamo visto anche nel caso dei gusti ereditari. Poi ancora l’epigenetica, “che è forse ancora più importante, ovverosia la modificazione dell’espressione dei geni (fenotipo) in funzione di modificazioni dell’ambiente in cui operano le cellule. E infine ci sono tutti gli avvenimenti tipici della vita di una persona”. Insomma, è vero che le sole calorie non bastano a determinare la perdita di peso di una persona, nella cui dieta incidono quindi fattori imprevedibili e individuali, come appunto il DNA, le manifestazioni esterne e l’ambiente circostante.

Esiste peraltro una grandissima variabilità tra un soggetto e l’altro e non tutti reagiamo allo stesso modo in presenza degli stessi nutrienti. Lo dimostrano alcune ricerche – “piuttosto intriganti” le definisce Marchesini Reggiani – che, dopo aver analizzato i complessi dettagli cellulari del metabolismo (metabolomica), sono riuscite a codificare alcuni pattern metabolici: così, ad esempio, è stato provato che effettivamente alcune persone hanno maggiore facilità a distruggere i grassi, mentre altre sono invece dotate di un apparato enzimatico che li porta a favorire la trasformazione dei carboidrati in energia. “Bisogna imparare a fare i conti con il proprio metabolismo: ci sono i dissipatori di energia e i grandi risparmiatori, dotati di quello che è stato definito il thrifty genotype, ovvero il genotipo del risparmio. Chi ce l’ha dovrà sapere che il suo organismo tenderà a immagazzinare le calorie senza consumarle”. 

Dissipazione delle calorie: questione di sopravvivenza

Se la tipizzazione delle variabili metaboliche spiega in qualche modo le differenze particolari, esistono d’altra parte alcuni tratti comuni a tutto il genere umano che fanno parte del nostro bagaglio primordiale. “Il nostro corpo non è fatto per dissipare le calorie, ma per conservarle: questo è probabilmente un imprinting ancestrale legato alla sopravvivenza”. Stivare il più possibile le calorie è quindi un riflesso incontrollabile e automatico che il nostro organismo mette in moto quando si accorge che sta perdendo peso: si tratta, in altre parole, di una specie di sensore interno che scatta per spegnere quei meccanismi futili di consumo che normalmente servono per eliminare quelle in eccesso. Questo si traduce in una generale riduzione dell’impiego energetico che, in ultimo, rende vani gli sforzi fatti per dimagrire. 

Non solo, “la comunità scientifica” continua Marchesini Reggiani “ha raccolto una serie di dati secondo cui la perdita di peso che si ottiene con la dieta non è una perdita di peso dell’eccesso di grasso, ma riguarda almeno pariteticamente anche la massa magra”, come ad esempio i muscoli. Pertanto quando il nostro corpo tenta di perdere peso, la massa grassa (che, come abbiamo detto prima, è il deposito utile alla sopravvivenza), è più difficilmente raggiungibile della massa magra e quindi si perde parimenti massa magra e massa grassa. “Siccome la massa magra è quella che consuma in termini energetici (quella grassa non consuma) succede che perdendo massa magra progressivamente anche il fabbisogno energetico si riduce”. Facendo un esempio pratico: se una persona che pesa 100 kg decide dimagrire per arrivare a 80 kg, quando avrà raggiunto i 90 kg di peso il delta di energia che consuma si sarà ridotto rispetto all’inizio, e si ridurrà sempre di più man mano che perde peso, rendendo più difficile la dieta. Questo è un punto sostanziale che introduce un altro elemento fondamentale per comprendere il funzionamento dell’organismo e verificare l’affidabilità del calcolo delle calorie: il fattore tempo. 

Quanto conta il fattore tempo 

Pare che Mark Twain una volta avesse detto: “non c’è niente di più facile di smettere di fumare, lo faccio 20 volte al giorno”. La stessa logica può essere applicata anche alla nutrizione: tutti siamo in grado di mangiare meno per un limitato periodo di tempo, basti pensare a quando si è malati e, per qualche giorno, si va avanti solo a riso in bianco e brodini oppure al digiuno terapeutico. In questi casi non è una vera e propria dieta: quello che cambia è, tra le altre cose, la durata del regime alimentare restrittivo che, secondo il professor Marchesini Reggiani, è anche uno degli aspetti più sottovalutati da chi intraprende un percorso simile. “Sovente chi fa una dieta ci ha spiegato, quando l’ha terminata, non solo riprende i chili persi, ma spesso ne acquisisce molti di più”. La spiegazione fisiologica di questo è la stessa di cui sopra, ovvero il processo di perdita di massa magra che c’è con le diete. “Nella fase di accrescimento post dieta, l’organismo si trova con una massa magra molto più ridotta e cresce più rapidamente, guadagnando molto più massa grassa che magra, perché il nostro organismo è deputato allo storage di massa grassa”. 

Durante i suoi anni al Sant’Orsola, Marchesini Reggiani ha quindi introdotto un insegnamento per i suoi pazienti: per perdere peso non bisogna darsi un periodo-obiettivo. “Molte persone partono dall’idea di mettersi a dieta, arrivare a un certo numero di chili per poi ricominciare a mangiare come prima: è in questo caso che la dieta fa ingrassare”. È nel lungo periodo che si hanno le ricadute: secondo lo statunitense National Weight Control Registry, registro gratuito per monitorare le persone in dieta restrittiva, dopo circa 4 anni dall’inizio del processo si ricomincia a guadagnare chili. 

L’importanza dell’attività fisica 

Per riacquisire massa magra serve l’attività fisica e questo è uno dei punti più critici per chi decide di sottoporsi a una dieta. Secondo l’esperienza del dottor Marchesini Reggiani, infatti, i pazienti che entrano in terapia sono consapevoli di dover affrontare una restrizione calorica, ma quasi nessuno si aspetta di dover accompagnare a questo anche l’esercizio fisico. D’altra parte, le motivazioni che sottendono alle due attività – mangiare e muoversi – sono molto diverse: “il motore per l’alimentazione è un drive primario, mentre quello per lo sport non lo è affatto. A chi non piace la sedentarietà?”. Anche gli stimoli a iniziare e finire le due azioni sono diametralmente opposti: quando si tratta di cibo, il senso di fame (lo start) è un input molto forte, ma è molto più difficile sapere quando fermarsi; mentre nel caso della corsa, ad esempio, è il contrario: non esiste una propensione altrettanto forte a iniziare, laddove lo sforzo fisico è invece molto facile da percepire. In altre parole, l’alimentazione ha un forte segnale che porta a mangiare e un basso segnale che porta a smettere, mentre l’attività fisica ha un bassissimo segnale di inizio e un fortissimo segnale di fine. 

La dieta come stile di vita

calcolo calorie dieta
shutterstock.com

Il segreto, allora, non può che essere nella combinazione di tutti questi fattori, ovvero nella considerazione della dieta non come una parentesi momentanea ma come vero e proprio stile di vita. In questo senso la prevenzione e l’educazione terapeutica sono i pilastri fondamentali per evitare di innescare fenomeni come l’obesità infantile. In generale, la gestione dei casi di eccesso di peso prevede un supporto familiare robusto che comporta non solo la solidarietà degli altri membri della casa, ma anche spesso la condivisione dello stesso percorso: costringere una persona a una razione ridotta mentre il resto della famiglia continua a cibarsi come d’abitudine rischia di aumentare il carico emotivo a cui il soggetto in dieta è già sottoposto. Anche per questo il dottor Marchesini Reggiani aveva escogitato un metodo alternativo di porre la questione: “Ho sempre cercato di ribaltare la cosa dicendo ai miei pazienti che l’ausilio dei loro familiari sarebbe stato importante in entrambi i sensi, perché la genetica non è acqua, quindi chi verrà dopo di loro molto probabilmente riscontrerà lo stesso problema 10 anni prima, dal momento che l’ambiente in cui viviamo è sempre più obesogeno”. Del medesimo tema si è occupata anche un’indagine recente pubblicata sul New England Journal of Medicine e condotta su un campione di oltre 12 mila persone, seguite per 32 anni dal 1971 al 2003, che ha evidenziato come la vicinanza tra due persone, sia in termini fisici che relazionali, possa portare all’associazione patologica anche di disturbi legati all’alimentazione, come appunto l’obesità. 

 

Per concludere, è vero che la dieta non può essere ridotta a un mero fatto matematico, come quello rappresentato dal calcolo delle calorie per dimagrire, e che ci sono aspetti molto più articolati, fisici, somatici e psicologici da considerare soprattutto nelle situazioni più avanzate. Ma è altrettanto vero che la sterile riduzione a numeri non è mai stato lo scopo della medicina che, tuttavia, ha bisogno di parametri misurabili e uniformabili anche nell’applicazione di un approccio plurale e multiforme: la caloria, in questo, è ancora un ottimo alleato. 

 

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