Cereali, pesce surgelato, pomodori, tè. Ma anche olio, legumi, addirittura frutta e funghi. I prodotti bio cinesi non si nascondono più e si preparano a completare un’invasione cominciata dieci anni fa. Con prevedibile scia di polemiche in un terreno che si fa improvvisamente scivoloso perché ancora vergine nonostante ormai decennale. Perché trovare tra gli scaffali di rivenditori specializzati fagioli borlotti e fagioli cannellini provenienti dalla Cina ha inorridito i puristi e gettato nuove ombre sulla bontà di ciò che arriva dall’Estremo Oriente.
L’importazione di bio cinese
Le importazioni alimentari dalla Cina, secondo l’Istituto nazionale di economia agraria, valgono 500 milioni di euro all’anno e sono in ascesa, e lo stesso discorso vale per il biologico: numeri su scala inferiore, ma ugualmente importanti. Secondo l’ultimo rapporto del Sinab, il sistema di informazione sulla bioagricoltura, l’Asia, e la Cina in particolare, occupano un posto importante nelle 91mila tonnellate di prodotto biologico importato dall’Italia (dati 2014): oltre 22mila sono di provenienza cinese, ossia il 25% del totale. Un prodotto bio su 4 importati e immessi sul mercato italiano è dunque orientale, con dati significativi per i cereali (8.600 tonnellate, con un aumento del 150% rispetto al 2013), le colture industriali (quasi 7mila, in diminuzione però rispetto all’anno precedente), persino per gli ortaggi (poco meno di 4mila, con un raddoppio sul dato 2013).
I numeri della crescita
Sensibilmente aumentati rispetto al 2005, l’anno della svolta, in realtà gli ettari riservati in Cina all’agricoltura biologica non la pongono ai primi posti a livello mondiale. È invece la crescita del mercato che colpisce, tanto che le previsioni la proiettano per il futuro al primo posto.
Lo si evince dal rapporto, il tradizionale volume annuale di statistiche sul biologico “The World of Organic Agriculture” che Fibl e Ifoam hanno di recente presentato al Biofach di Norimberga, la più importante fiera del settore: i dati, aggiornati a fine 2014, indicano in 43,7 milioni di ettari la superficie a livello mondiale raggiunta dal settore, con una crescita di 0,5 milioni di ettari rispetto al 2013.
Ebbene, in una classifica capeggiata dall’Australia, il paese con la più vasta superficie agricola bio (17,2 milioni di ettari, per il 97%), seguita da Argentina (3,1 milioni) e Stati Uniti (2,2 milioni), la Cina non eccelle, con poco più di un milione di ettari. Né è ai primi posti per numero di produttori biologici, che a livello mondiale hanno superato i 2,3 milioni (il numero maggiore è in India, 650mila).
È sul mercato che il livello sale. Gli Stati Uniti sono il primo mercato con 27,1 miliardi di euro, seguiti da Germania (7,9 miliardi di euro), Francia (4,8 miliardi di euro), e, per l’appunto, Cina: 3,7 miliardi di euro, con un trend di crescita costante.
I prodotti
Tanti, e in costante crescita di numero e varietà. Sono diverse le aziende italiane che hanno scommesso sul cinese, alcune delle quali di primo piano, e ogni anno l’elenco di prodotti bio made in China si arricchisce. Ecco quindi legumi secchi, riso e altri cereali, ortaggi di vario tipo, mele, funghi, aglio, tè.
E ovviamente spaghetti di riso, mentre il pomodoro, dopo lo scandalo di qualche anno fa (sugo made in Italy fatto con materia prima dell’estremo Oriente) è in calo. Facile dunque imbattersi non solo in riso di tutte le tipologie, ma anche in prodotti che si pensavano italiani come i fagioli cannellini e borlotti che tanto scandalo hanno fatto in Rete.
Pro e contro il biologico cinese
Sono più argomentati i secondi, a leggere siti e blog del settore, anche se non ci sono prese di posizione ufficiali da parte di organizzazioni di categoria e delle principali associazioni a difesa dei consumatori. A favore del bio made in China ecco quindi il prestigio e la serietà delle aziende che hanno deciso di investire in Oriente, e prima di importare hanno effettuato approfonditi studi sull’effettivo stato dell’agricoltura bio cinese.
I detrattori, invece, portano diversi argomenti a difesa della loro tesi. L’inquinamento anzitutto, elevatissimo in Cina tanto da posizionarla al primo posto nel mondo. Quindi una regolamentazione diversa rispetto a quella presente in Italia di prodotti chimici e fertilizzanti (di cui è il maggiore consumatore mondiale), che nella penisola sono vietati.
E poi il diverso regime dei controlli: le aziende italiane vengono verificate ogni anno, quelle cinesi no e men che meno dagli organi di controllo nostrani. E infine, l’assenza di accordi tra Europa e Cina sul rispetto delle normative europee. La sensazione di chi è contrario è dunque quella che dietro la dicitura “agricoltura cinese” (o agricoltura non Ue, come spesso accade) che appare sulla confezione non ci sia una selezione rigorosa. Il tempo dirà quanto l’italiano apprezza il prodotto orientale.