L’importanza di “trasformazione” e “certificazione”
Questo è un anno pari, e quindi anno di Cibus a Parma, la più importante Fiera dell’agroalimentare italiano, in qualche modo “cugina” rispetto al SIAL di Parigi e all’ANUGA di Colonia, forse un po’ più piccola ma non meno significativa.
E come tutte le manifestazioni fieristiche è l’occasione per mettere in mostra nuovi settori e prodotti: ciò che è accaduto anche in edizioni ormai lontane degli anni novanta per il biologico.
Una presenza che attualmente si attesta su circa duecento espositori che presentano “anche” prodotti biologici, e su questo concetto dobbiamo soffermarci, perché si tratta di quella parte di imprese che sono attive soprattutto nel settore del trasformato, lasciando alla pure importantissima filiera dei prodotti freschi – quelli che comunemente si chiamano ormai “prodotti biologici”, così come sancito dal nuovo Reg. CE 834/2007, e che fino a poco più di un anno fà si chiamavano “da agricoltura biologica” – altri ambiti fieristici e commerciali.
Oggi è frequente parlare di biologico senza che l’aggettivo sia preceduto da “agricoltura”, e si tratta di un’evoluzione che ha a che vedere con la nascita (e in parte anche con il presente) di questo movimento, e ne parliamo perché comprende il passaggio da una visione in una certa misura “arcaica”, tesa ad enfatizzare la parte a monte delle filiere produttive (quella che porta a prodotti immediatamente consumabili).
In effetti, oggi è forse più interessante discutere di una fase nella quale non sono tantissimi i prodotti che si consumano come tali, mentre sempre più frequenti sono i prodotti che il consumatore conosce come “trasformati”, anche perché questa categoria ha come valore aggiunto una marca e le politiche commerciali connesse, mentre “il fresco” ha solitamente minori strumenti di questo tipo per favorire la vendita, salvo che non si organizzi in qualche forma di cooperativa o consorzio o grande impresa in grado di impostare una “politica di marca”.
Così, ci troviamo di fronte alla questione del “chi fa il mercato e la comunicazione” lungo questa parte della filiera: un numero abbastanza limitato di aziende (meno del 10 % su un totale di circa 50.000 operatori biologici in Italia, e una nostra leadership in ambito Ue), che della certificazione fanno una questione sia di aderenza alla normativa, sia d’immagine, alla ricerca di quella massa critica di prodotto venduto che permetta di sostenere gli investimenti necessari per competere sul mercato domestico e internazionale. La certificazione, che è parte fondante del biologico, assume un’importanza ancora maggiore per l’industria della trasformazione e in una certa misura per le aziende artigiane, per una questione di tutela della propria immagine, che deve essere “di qualità” senza possibilità di errore.
La certificazione rappresenta, pure, lo strumento attraverso il quale garantire il mercato, sia esso rappresentato dal consumatore finale che dalle altre aziende poste “a valle” dell’impresa medesima, imprese alimentari e/o distributive. Certificare significa attestare che quel prodotto effettivamente corrisponde a quanto definito, per il biologico, ad una norma cogente, una serie di regolamenti comunitari e di dispositivi nazionali. Significa anche conferire maggiore valore aggiunto, affinché queste produzioni siano premiate dal mercato rispetto ad analoghi prodotti che non possono vantare determinate caratteristiche e sono il frutto di maggior impegno e di un costo di produzione maggiorato oltre ad un “valore ambientale” superiore.
Nel settore della preparazione alimentare sono stati conseguiti risultati importanti nel raggiungimento di requisiti qualitativi un tempo ritenuti molto lontani. Il perfezionamento delle tecniche di trasformazione, la scelta di tempi e metodi più consoni ai prodotti biologici hanno consentito di toccare requisiti organolettici e di conservabilità del tutto paragonabili ai migliori prodotti alimentari della nostra tradizione gastronomica.
Già da più di un decennio il consumo di prodotti alimentari biologici non viene più vissuto come una scelta “punitiva” in quanto a volte alternativa. Le migliori aziende del nostro panorama agroalimentare sono impegnate nell’ottenimento di prodotti biologici che rappresentano la continuità della tradizione alimentare nel nostro Paese immettendo nel circuito produttivo le migliori materie prime e la sapienza delle nostre imprese.
La certificazione contribuisce a valorizzare questi prodotti attraverso l’accompagnamento degli sforzi di questi imprenditori che hanno portato il biologico italiano nel mondo; certificare questi prodotti per mercati lontani quali gli USA, il Giappone ed il Canada, solo per fare qualche esempio, significa “trasferire” tramite la certificazione quelle differenze normative che comportano la conformità e garantiscono l’entrata di questi prodotti in quei mercati. Ed il CCPB in questo si è sempre distinto ottenendo tutti i riconoscimenti che consentono alle migliori imprese agroalimentari nazionali di accedere a questi importanti mercati.
di Fabrizio Piva, Amministratore Delegato di CCPB Srl e Luciano Didero, Ufficio Stampa Consorzio il Biologico/CCPB Srl