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Apicoltura urbana: quali sono le prospettive in Italia?

 

 

Tra gli allarmi lanciati dal mondo scientifico riguardo all’inquinamento ambientale, c’è anche quello che coinvolge le api e la loro progressiva scomparsa, dovuta all’uso di pesticidi. Questi insetti, come ben sappiamo, sono indispensabili per la vita sulla terra e possono addirittura essere utilizzati come indicatore per la salubrità di un territorio. Per questo motivo, da un po’ di tempo a questa parte, è cresciuta anche in Italia l’attenzione per i progetti di apicoltura urbana, già ampiamente collaudati in città come Londra. Per capire meglio di cosa si tratta e a che punto siamo nel nostro Paese, abbiamo intervistato Guido Cortese, ex Presidente di Slow Food Torino, apicoltore professionale e referente per l’Apicoltura Urbana della città di Torino.

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Apicoltura urbana: intervista al referente per l’Apicoltura Urbana di Torino

L’apicoltura urbana in italia ha una lunga tradizione, spiega l’intervistato. “Possiamo dire che sia sempre esistita nei secoli, tuttavia già nel primo ‘900, proprio a Torino, nascono alcune esperienze degne di nota, come quella di un vero precursore, Don Angeleri, che negli anni ‘20 si adoperò come promotore di corsi di formazione e riviste nazionali, ma non solo. Il suo fu il primo chiosco ambulante che vendeva miele, per spingere la gente a consumare un prodotto sano al posto dello zucchero, che all’epoca lo stava soppiantando”.

Negli anni ‘80, invece, l’Istituto di Bachicoltura e Apicoltura della facoltà di Agraria diede il via ad alcune ricerche per monitorare gli inquinanti nel capoluogo piemontese, e nel 1984 fu pubblicato il testo ‘Sorgenti mellifere e pollinifere in ambiente urbano’, di Paola Ferrazzi. “Anche a Firenze, nel 1986, in Piazzale Michelangelo, vennero utilizzate api per misurare l’ambiente, e da quelle analisi la città decise poi di proteggere il Centro storico chiudendolo al traffico”, continua Cortese.

apicoltura urbana torino

“Nonostante le tante esperienze legate all’apicoltura in città, possiamo affermare che la vera apicoltura urbana sia nata solo a partire dal 2017”. Fino a pochi anni fa, infatti, si trattava di una pratica  fortemente legata al mondo accademico, racconta Cortese: in Italia, il forte sviluppo di questa attività, rispetto ad altri Paesi, ha creato una frattura tra chi la praticava a livello professionale e chi invece a livello amatoriale. “Ci sono stati numerosi tentativi di dare vita a un gruppo di apicoltura urbana strutturato a livello nazionale, ma le associazioni di categoria e il mondo accademico li hanno più volte ostacolati difendendo la pratica dell’apicoltura nelle sue radici, prettamente connaturate al rapporto dell’ape con l’ambiente non antropizzato e al principio secondo il quale la materia debba essere sottomessa a chi detiene la produzione o la scienza. Questo atteggiamento ostile, tuttavia, non trova giustificazione, perché non si tratta di due mondi in contrapposizione: quella urbana è semplicemente un’altra idea di apicoltura, un approccio differente che mantiene però una matrice comune. La nostra idea è di sviluppare un progetto di relazione tra cittadini, prima ancora che di produzione, mettendo insieme i vari attori e facendolo con le api. È solo adesso che, evidenziate le regioni di questo modello di apicoltura urbana, proprio le associazioni di categoria si stanno aprendo a questa bellezza sociale, e la stanno accettando”.

Durante il primo tavolo tecnico nazionale del 2017, ricorda Cortese, “si è convenuto che non si possa identificare nella storia secolare italiana fino ai giorni nostri un momento che distingua una pratica di allevamento di api in città da una vera apicoltura urbana: l’apicoltura urbana si compie nel momento in cui prende coscienza di sé, come movimento urbano e come movimento nazionale”. Secondo la definizione discussa proprio all’appuntamento del 2017, infatti, l’apicoltura urbana “promuove e difende chi valorizza le api mellifere e quelle selvatiche nei centri urbani e vuole contribuire alla salvaguardia dell’ambiente. Propone un nuovo modo di rapportarsi con il mondo rivalutando la naturalezza dei rapporti tra cittadini e di quelli con gli animali. Promuove a tutti i cittadini il rispetto dei tempi e dei cicli biologici di ciascuno, la biodiversità ovvero il rispetto e il valore delle differenze attraverso il piacere della scoperta, la conoscenza, l’esperienza, l’educazione. Offre uno sbocco creativo a chi è limitato da una disabilità, a chi è carcerato e a chi ha dovuto emigrare.

TTphoto/shutterstock.com

L’apicoltura urbana e il monitoraggio degli inquinanti

Un aspetto importante dell’apicoltura urbana è quello legato al monitoraggio degli inquinanti: le api, infatti, sono in grado di fornire molte e complesse informazioni sull’aria che respiriamo e sull’ambiente in cui viviamo. Per prima cosa, possono avere la funzione di biondicatori, dal momento che si tratta di organismi particolarmente sensibili ad alcune sostanze, come i fitosanitari, per cui, ad esempio, si può analizzare il tasso di mortalità dovuto al contatto con questi prodotti. Questi insetti, però, sono anche dei bioaccumulatori: ciò significa che sono in grado di sopravvivere ad altre sostanze, seppure dannose, e di accumularle all’interno dell’organismo. È quanto accade, ad esempio, con i metalli pesanti. Già nel 1935 le api furono utilizzate con questo scopo in Cecoslovacchia, per studiare gli effetti negativi degli inquinanti industriali: si tratta di uno dei primi casi documentati di biomonitoraggio.

Lo scorso 30 gennaio, a Bologna, in una coinvolgente tavola rotonda sono state presentate alcune esperienze sul territorio italiano, dalla Basilicata a Milano. Come ha sottolineato Diego Pagani, presidente Conapi (Consorzio Nazionale Apicoltori), “un ambiente in cui le api non stanno bene, non è un ambiente sano in cui vivere. Questi insetti vengono utilizzati molto spesso per monitorare i livelli di inquinamento, come accade ad esempio nella “terra dei fuochi” in Campania. Le api, infatti, sono in grado di muoversi su una vastissima area: un alveare lavora su una superficie pari a circa 4.000 campi da calcio”.

I progetti di monitoraggio ambientale sono quindi una risorsa utile alla comunità, e spesso partono da esperienze di orti urbani, come è accaduto a Potenza e a Milano, dove erano state create delle arnie d’artista in occasione del Fuorisalone, poi trasferite nell’orto urbano di via Padova e utilizzate per l’apicoltura urbana. Anche Torino ha 3 diverse postazioni di rilevazione, e a Bologna il progetto è attivo nell’area periferica del Pilastro, in collaborazione con la facoltà di Agraria. Cortese ci tiene a ricordare che “non si tratta di una ricerca scientifica, per cui i dati raccolti grazie alle api sono da prendere con le pinze, non sono assoluti ma solo dimostrativi, come evidenziato dall’Agronomo Claudio Porrini, che ha condotto e spiegato le analisi durante la giornata. Tuttavia questi insetti ci forniscono una mole generosa di informazioni importanti, che possono indirizzare delle ricerche di altro genere in una precisa direzione. Oggi si tratta di un’attività ancora molto costosa, ma un domani questi insetti ci forniscono una mole generosa di informazioni importanti, che possono indirizzare delle ricerche di altro genere in una precisa direzione. Oggi si tratta di un’attività ancora molto costosa, ma un domani, realisticamente, le api potrebbero affiancare le macchine in questo tipo di studi sugli inquinanti”.

L’apicoltura urbana tra integrazione e formazione

“Ho iniziato a fare apicoltura urbana a Torino nel 2014 – racconta Cortese – e allora la situazione della città era molto diversa, perché ottenere spazi e autorizzazioni, anche per avviare progetti sugli orti urbani, era più semplice. Oggi molti dei bandi un tempo a disposizione sono stati chiusi (smart-city). Per avere la delibera necessaria per il mercato della biodiversità, di cui mi occupo, ci sono voluti due anni. Ma non è l’unico problema. C’è poca attenzione alle tematiche ambientali, questo è evidente, ad esempio, da quanto accaduto a Milano qualche anno fa: proprio accanto agli orti urbani, nei quali si trovano anche le api, gli operatori passavano diserbante in quantità massiccia. I dati del monitoraggio erano allarmanti, ma l’emergenza è rientrata quando il Comune ha smesso di praticare il diserbo in quella zona su richiesta di Legambiente. La cultura sui danni dei veleni è quasi inesistente, purtroppo, i dosaggi a volte sono incontrollati perché gli esecutori materiali, come le aziende in subappalto, non hanno idea di cosa succeda effettivamente utilizzando quel determinato prodotto perché le concentrazioni necessarie all’applicazione di questi nuovi veleni sono difficili da controllare: si parla di nanogrammi di nuove molecole per litro, se chi le usa non rispetta i dosaggi le conseguenze nel suolo e nelle falde acquifere sono devastanti”.

C’è infine un ulteriore aspetto positivo per quanto riguarda gli effetti dell’apicoltura urbana e il contesto in cui si muove, ed è quello dell’integrazione e della formazione. All’estero, in città come Copenaghen, si coinvolgono spesso i bambini delle scuole primarie, con notevole successo. Anche in Italia si cerca di generare sempre il massimo coinvolgimento possibile da parte della comunità, che partecipa attivamente e apprende un elevato numero di informazioni scientifiche in merito. “Per tutti quelli che vi hanno preso parte, un’esperienza di apicoltura urbana è un forte momento molto educativo, di grande valore. C’è poi l’aspetto sociale, da tenere in considerazione. Il progetto Bee my job (di cui vi parleremo presto, ndr), per esempio, nato ad Alessandria, coinvolge giovani vittime del caporalato: si insegna loro un lavoro, quello dell’apicoltore e si forniscono gli strumenti per trasformare quell’attività in impresa. Non dimentichiamo, poi, un altro elemento fondamentale: le api, oltre che molto utili, possono essere una fonte di ispirazione per l’uomo, con il loro modo di vivere complesso, organizzato e altamente funzionale. Da loro si può imparare tanto”.

E all’estero?

Mentre in Italia l’apicoltura urbana fa ancora fatica a camminare sulle sue gambe, all’estero ci sono numerose città che invece hanno già raggiunto un numero considerevole di alveari, sistemati sui tetti di palazzi e musei. A Londra, ad esempio, già nel 2013 si è toccata la soglia dei 3.500 alveari: una concentrazione altissima, che ha spinto ad alcune riflessioni sul tema e sulla sostenibilità dell’operazione, sulla lunga distanza. Cortese infatti spiega che “è importante capire che si può fare apicoltura urbana anche senza avere le api, contribuendo a creare un ecosistema favorevole al loro sviluppo e alla loro crescita. Come? È sufficiente seminare piante mellifere che attirano insetti impollinatori, ad esempio, realizzando dei veri e propri giardini.

Quale futuro per l’apicoltura urbana?

“L’obiettivo per il futuro rimane quello di unire tutte le realtà che si occupano di apicoltura urbana in città sotto un unico marchio distintivo: apicoltura urbana torinese – spiega l’intervistato – Si tratta di un percorso cominciato ormai quasi tre anni fa, durante Terra Madre 2016, al Salone del Gusto. In quell’occasione abbiamo organizzato due convegni e gestito tutte le attività legate al miele, per far conoscere sempre di più e sempre meglio questo prodotto, anche attraverso dei laboratori”. Certo, la strada da percorrere è ancora lunga; uno dei problemi da fronteggiare, quando si parla di apicoltura urbana, spiega l’intervistato, è che le realtà provenienti da diversi Paesi hanno poche occasioni di confrontarsi e comunicare tra loro. “Mi piacerebbe molto raccoglierle tutte, perché non c’è ancora un luogo deputato al dialogo – conclude – ci sarebbe bisogno di coordinarsi in un grande movimento internazionale, ed è ciò su cui continueremo a lavorare”.

Conoscete altre esperienze di apicoltura urbana nelle città italiane? Raccontatecelo nei commenti.

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