Giornale del cibo

Anthony Genovese, dalla Francia all’Italia per amore della cucina

Anthony è un ragazzino di 14 anni con due sogni: guidare i treni e fare il cuoco. Ma non può essere ammesso alla scuola francese per diventare meccanico delle ferrovie poiché non ha la cittadinanza di quel paese. Perché Anthony Genovese, chef de Il Pagliaccio (unico ristorante di Roma ad avere 2 stelle Michelin), è nato in Francia da genitori italiani emigrati dalla Calabria e ha solo la cittadinanza italiana, per scelta del padre che vuole onorare e ricordare la patria. Non gli resta che attuare il piano B: la cucina.

Nella sua famiglia si cucina in modo essenziale, per sfamare, per nutrire, ed Anthony decide di iscriversi alla scuola alberghiera di Nizza “ma sono un asino, sono negato per lo studio, volevano mandarmi via”, commenta, mentre risponde alle domande dell’intervista che state per leggere.

Anthony Genovese: una vita alla ricerca della perfezione in cucina

Le Origini

anthony genovese

Le prime esperienze? Genovese le vive imparando il mestiere del pizzaiolo. Poi trova un impiego in un importante albergo di Montecarlo e da lì partecipa ad uno stage in un ristorante 2 stelle Michelin. “Amore a prima vista – così inizia a parlarne – resto folgorato dalla pulizia, dall’ordine, dalla disciplina; prendo tanti schiaffi, offese (‘calabrese di merda’). Ho sempre avuto un gran rispetto per la Francia, ma non ho mai provato vero amore, anche perché papà è venuto a mancare presto e per questo mi sono legato ancora di più alle mie origini”.

Dopo pochi mesi torna a Montecarlo ed in quell’albergo, Genovese, capisce cosa non ama della cucina: “si preparavano litri di fondi, banchetti per la massa, c’era una mentalità sindacale. Si ragionava ad ore lavorate, una passione veniva trasformata in impiego, con gente parcheggiata lì per anni”.

Quando giunge il momento di andare da uno dei grandi della cucina francese, Alain Ducasse, decide di rinunciare e di scrivere a Gualtiero Marchesi e all’Enoteca Pinchiorri, due delle location più prestigiose della ristorazione italiana, ma il primo non ha posto, quindi Anthony va a Firenze da Pinchiorri, scatenando le ire dello chef francese per cui lavorava all’epoca: “andrai a cucinare solo spaghetti” disse infatti.

Il Pagliaccio

L’intervista si svolge nella sala privata de Il Pagliaccio, il ristorante 2 stelle Michelin di Anthony Genovese, appunto. Lo chef, per la nostra chiacchierata, ha scelto di accogliermi in questo spazio suggestivo, a metà tra una biblioteca ed una elegantissima sala da tè.

Una vetrata ci isola dal frastuono della città, i caffè fumanti che si susseguono scandiscono il ritmo dell’intervista. Il ristorante ha riaperto da poco, una volta conclusi gli importanti lavori di ristrutturazione che hanno interessato la cucina, dopo che in passato in 2 occasioni era stata rinnovata la sala. La zona dedicata alla preparazione dei piatti era davvero vecchia, crollava su sé stessa.

“Ma il palazzo che ospita il locale è molto vecchio, e quindi dopo aver scelto un preventivo ed aver calcolato che i lavori avrebbero avuto una durata di circa 2 mesi, è accaduto che ad ogni martellata si verificasse una brutta sorpresa, tra impianti da rifare e mura da intonacare.” I lavori si sono protratti per un lasso di tempo di 4 mesi, anche a causa dei condomini dello stabile che hanno messo i bastoni tra le ruote allo chef ed alcune lungaggini burocratiche. A quel punto “è subentrata anche un po’ di paura, mi sono chiesto perché in questo paese quando vuoi far qualcosa ti viene detto sempre di no: a volte per ignoranza, altre per cattiveria o per scarsa conoscenza della materia. A Roma ci sono due decine di stellati ma non siamo adeguatamente riconosciuti, la gente non ci apprezza, ma io non demordo. Mi piacerebbe vedere a Roma più ristoranti con 2 o 3 stelle, per far sistema, per aiutare la città”.

A detta di Genovese nella capitale c’è poca voglia di osare, insomma. Si resta aggrappati alle certezze, anche dal punto di vista culinario e ristorativo. Anthony non si sente assolutamente arrivato, pensa con insistenza ad una eventuale terza stella, è come avere un virus che ti porta a cercare di fare sempre meglio.

È rimasto uno di quegli chef che apre e chiude il locale, controlla ogni cosa anche se nessuno lo costringe ad avere questo tipo di comportamento. Gli chiedo cosa, oltre naturalmente alle stelle Michelin, contraddistingue il suo ristorante e lo differenzia dagli altri: “La mia personalità – risponde – che ha dato un’impronta al locale. Questo ristorante è internazionale, siamo andati oltre i cliché romani, siamo outsider. Nel periodo della ristrutturazione ho girato molto, arrivato a quasi 50 anni non mi interessa solo sparare fuochi d’artificio, ho voglia di concretezza, consapevolezza, e tutto questo è possibile perché sono coadiuvato da un grande staff. Abbiamo le spalle coperte dal punto di vista organico ed economico”.

La sua cucina

La formazione francese, le origini italiane ed un colpo di fulmine per l’Asia “andai a Bangkok a 24 anni, andarci quasi 30 anni fa era da pionieri, viaggiai in business class, mi innamorai delle spezie, dei profumi, delle presentazioni”: questo il variegato mix di influenze e contaminazioni che caratterizza la cucina di Anthony Genovese. Uno chef sempre curioso ed attento a tutto ciò che contribuisce al cambiamento della cucina.

Ascolta molto i suoi ragazzi, perché “un cantante a 20 anni scrive pezzi indimenticabili, a 50 scrive bei pezzi ma magari è meno frizzante, quindi serve l’aiuto dei ragazzi giovani, attenti a tante cose”. Lo chef è dell’idea che il confronto consenta di continuare a crescere, per guadagnare nei tempi di lavorazione, nel rispetto del prodotto, “la materia prima fa la differenza, quando mangio in altri ristoranti e provo ingredienti eccellenti mi commuovo”.

Ci portano un altro caffè, intervalliamo le tazzine con sorsi di acqua frizzante, Anthony alterna le risposte ad alcune osservazioni sul mondo della cucina, sul suo attuale rapporto con la città. Entra ed esce dalla saletta Matteo Zappile (il Restaurant Manager de Il Pagliaccio), il suo braccio destro in sala, che aggiunge sempre sfumature interessanti al racconto dello chef. Gli chiedo se, tra i tanti creati, può scegliere e menzionare un paio di piatti icona del passato, mi risponde Gnocchi di patate con acqua di mozzarella e caviale e Ostrica con la camomilla e testina di vitello, “ci hanno permesso nel 2009 di prendere la seconda stella, piatti nati con una grande impronta, venuti quasi subito, che denotavano incredibile competenza culinaria”. Lo incalzo chiedendogli se, nel nuovo menu, c’è a suo avviso un piatto che ha il potenziale per divenire una nuova icona della sua filosofia culinaria: “credo possa essere il Rombo marinato alle foglie di artemisio mi dice, un pesce cotto solo con la marinatura; c’è il midollo, il brodo di cipolle, una crostatina con creme brulèe al midollo e barbe di rombo, un piatto potente”.

La nascita di un nuovo menu

Ogni volta che ceno in un grande ristorante, leggo con attenzione il menu e mi chiedo sempre come si possa creare l’alternanza dei piatti, quali siano i parametri utilizzati da uno chef stellato. Anthony è molto chiaro al riguardo: “Se vieni a casa mia quando sto pensando al nuovo menu noterai che non c’è spazio: ci sono libri e riviste aperte ovunque. Mi piace leggere libri dei colleghi, riviste, non per rubacchiare ma per avere spunti, per partire dal prodotto”. Per Genovese un menù si può paragonare ad un cd, nel quale di solito su 12 canzoni ne contiene 2-3 che diverranno famose scalando le classifiche, altre 4-5 saranno di un buon livello e le altre serviranno a completare. Il menu si costruisce allo stesso modo, è importante che contenga 3 piatti da “effetto wow” per il cliente, non ne servono 16-18, diverrebbe un percorso eccessivo da comprendere.

Lo chef parte dal confronto con i ragazzi della sua brigata, studia abbinamenti e contrasti; alcuni piatti nascono subito, altri sono un vero e proprio parto cesareo. Spesso vengono proposti i piatti come stuzzichino per i clienti, per vedere le risposte del pubblico. Il processo di creazione per Genovese “è più libero avendo 2 stelle Michelin, perché se ne avessimo 3 dovremmo seguire un percorso diverso, un tantino condizionato dalle aspettative della guida Michelin”.

Km0 e sostenibilità

Dopo poco meno di 1 ora, trascorsa parlando delle sue origini e della sua cucina, chiedo ad Anthony se ha voglia di raccontare il suo punto di vista su alcuni argomenti d’attualità nel mondo del food. Partiamo con il binomio Km0 e sostenibilità.
Sui prodotti Genovese è molto chiaro: “alcuni cataloghi dei grandi distributori mi permettono di ricevere prodotti con continuità, e questo in Italia spesso non accade con molti fornitori a causa di scarsa professionalità”. L’assenza di costanza nella fornitura infatti è spesso accompagnata da tante scuse volte a giustificare le mancate consegne; ne consegue una grande fatica derivante dal cercare di lavorare, con continuità, solo prodotti freschi di piccoli produttori.

“Sono a Roma, non in campagna, dove posso trovare ingredienti a km0? Noi rappresentiamo una piccola percentuale della ristorazione e cerchiamo di lavorare con certi prodotti e di ridurre lo spreco, seguire la sostenibilità, ma la ristorazione di massa fa altrettanto? Io credo di no”.

Nelle cucine de Il Pagliaccio si cerca di ridurre lo spreco il più possibile: se si pulisce un carré di vitello, gli scarti vengono utilizzati per fare dei fondi, con la parte verde del porro si realizza un brodo. Insomma, “cerchiamo di utilizzare tutto ma è solo merito nostro. Noi cerchiamo di aiutare anche chi ha bisogno con ciò che avanza, ma sono solo azioni personali, dovremmo essere aiutati dall’alto, dalla città ma ciò non accade”. Lo chef continua dicendo che si interfaccia con i grandi distributori perché gli assicurano consegne costanti e tempestive, cosa che non sempre avviene con i piccoli fornitori.

Anthony si rammarica. A suo avviso a Roma non c’è un mercato di qualità per la frutta e verdura, quello di Campo dei Fiori non ha buoni prodotti, gli esercenti spesso chiudono presto per il caldo, poca voglia di lavorare, se si fanno richieste “particolari” vieni guardato male. Lo chef ha più volte invitato i fornitori a pranzare da Il Pagliaccio per far capire meglio le sue esigenze per quel che concerne i prodotti, ma hanno accolto l’invito solo i grandi fornitori. I piccoli fornitori spesso partono bene e poi non hanno costanza e continuità, non investono, “restano piccoli per incassare tanto ma perdono in qualità”.

Lo chef in veste di manager e l’importanza della Sala

Lo chef svolge da sempre anche il ruolo di manager, e proprio per questo deve esser lungimirante nel delegare, perché non può seguire tutto in prima persona. Da Il Pagliaccio “Tommaso si occupa della ricerca del prodotto, conosce piccoli produttori, ed in questo caso non serve la continuità perché ci servono per sperimentare (erbe, fiori di Sambuco, confetture, lenticchie e patate sono i prodotti con i quali stanno lavorando in questo periodo). Francesco si occupa degli ordini, non sono solo, non potrei farcela da solo”. Genovese ha il fondamentale compito di trainare la brigata anche con piccoli briefing organizzati continuamente, oltre ad uno generale programmato ogni 1-2 mesi; c’è un bellissimo confronto, ci sono blitz per i camerieri, che devono saper recitare il piatto, “qui si lavora da squadra, c’è attenzione positiva per andare oltre”.

Gli chiedo della Sala, ed Anthony mi dice che dare importanza alla Sala significa semplicemente tornare alla normalità. “Non amo che sia lo chef a spiegare i piatti, perché non è il suo lavoro”. La Sala è fondamentale perché la professionalità e le capacità di un bravo cameriere possono ribaltare il valore di un piatto non riuscito nel migliore dei modi, “ci sono posti dove si mangia benissimo ma il servizio è inguardabile”.

La Guida Michelin

Ho fatto questa intervista una settimana prima della cerimonia di presentazione della Guida Michelin 2018, inevitabile che nel corso della nostra chiacchierata si toccasse quindi anche questo argomento. “Nessuno ti spiega o ti insegna come si prendono le stelle. Gli ispettori della Michelin sono bravi e preparati nel non farsi riconoscere”. Genovese è attento a tutte le critiche, positive o negative, che riceve Il Pagliaccio, anche quelle scritte su Tripadvisor che “lascia il tempo che trova su certi aspetti ma noi lo leggiamo, dando però importanza solo ai messaggi che hanno un senso, per capire con umiltà cosa cambiare”.

Seconda e terza stella, secondo Anthony, si ottengono attraverso la costanza, con dei meccanismi perfetti. A suo avviso in Italia ci sono grandissimi chef che meritano i migliori riconoscimenti. Genovese, inoltre, ribalta la situazione affermando che non manca qualcosa agli chef per arrivare al massimo, ma che “forse manca anche un pizzico di follia alle guide. Le tre stelle andrebbero attribuite anche senza cercare ossessivamente le certezze economiche, cosa che non accade spesso”. Gli chiedo anche il suo punto di vista sui colleghi hanno rinunciato a questo riconoscimento: “in alcuni casi le stelle fanno perdere un po’ di istintività, ma chi le rifiuta credo lo faccia esclusivamente per motivi personali, c’è sempre la paura del foglio bianco, del blocco dello scrittore”. Al riguardo lo chef mi consiglia un libro, Il Perfezionista (scritto da Rudolph Chelminski) che racconta la vita di Bernard Loiseau, chef 3 stelle Michelin. Spiega come la cucina dello chef non fosse più attuale, “quando gli chiedono di modificare dei piatti sostituisce la crema di prezzemolo con quella di crescione, perché non riesce a fare più di quello”.

È giunto il momento di salutarci, dopo l’ennesimo caffè. L’atmosfera è molto distesa, chiacchieriamo di altre cose, e scorgo Matteo Zappile impegnato con una collega nella gestione del No Show (i clienti che pur avendo prenotato non si presentano, arrecando un grave danno economico al ristorante). Lo staff de Il Pagliaccio ha deciso da circa 1 anno di introdurre una penale di 150 euro a persona “il costo del nostro menu degustazione” – specifica Matteo – per chi non si presenta. La decisione ha inizialmente colpito alcuni clienti, in particolare gli americani “sconvolti perché non si aspettavano tale servizio in Italia, paese ai loro occhi molto arretrato in taluni ambiti”. La vera sorpresa? Scoprire che oltre il 90% dei no show è da addebitarsi alla clientela straniera; l’introduzione di questa penale ha consentito di sconfiggere quasi del tutto tale fenomeno.
Una lunga chiacchierata per farmi raccontare la carriera di uno degli chef più apprezzati nel panorama ristorativo, per scoprire il suo punto di vista su tanti argomenti attuali ma soprattutto per capire che il miglior modo per arrivare alla terza stella è consolidare, anno dopo anno, la qualità che ha permesso allo staff de Il Pagliaccio di conseguire la seconda.

La storia di Antony Genovese vi ha affascinato? Vi consiglio allora di leggere la mia intervista a Marco Martini, Chef del The Corner.

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