Le infiltrazioni di tipo mafioso nel settore agroalimentare sono un affare dell’intera penisola italiana. Lo conferma, tra gli altri, il V Rapporto Agromafie che sottolinea come sia vero che, da un lato, le Regioni dove vi è un controllo di tipo criminoso sul territorio siano collocate principalmente nel Meridione (Sicilia, Calabria e Puglia), ma che le agromafie proliferano anche al Nord. Cambiano i modi, le strategie, ma non gli obiettivi e le finalità che valicano il tracciato della legalità.
Agromafie al Nord: caporalato e non solo
I carabinieri del comando provinciale di Alessandria hanno individuato, lo scorso mese di giugno, un sistema di sfruttamento dei lavoratori nelle aree agricole di Asti e Cuneo. Esisteva, infatti, un’agenzia che selezionava e smistava 52 braccianti, 43 dei quali privi di regolare contratto di lavoro, nei vigneti della zona. Nove ore di lavoro, una paga che non superava i 9 euro al giorno e le divise, compresi guanti e scarponi, a carico dei braccianti: condizioni che ricordano da vicino quanto denunciato dalle molte associazioni, tra cui Medici per i diritti umani, attive sul territorio di Rosarno.
La questione è cruciale da più punti di vista. In primo luogo fenomeni come il caporalato, al nord come al sud, negano in maniera sostanziale alcuni dei principi fondanti della Costituzione che, come viene sottolineato sin dall’articolo 1, afferma che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. E non sullo sfruttamento. In secondo luogo, è fondamentale sottolineare come queste forme di lavoro nero e grigio, che costituiscono il “lavoro irregolare”, incidano per il 15,5% sul valore aggiunto del settore agricolo e, secondo quanto stimato dal quarto rapporto Agromafie e Caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto, abbiano un valore economico di ben 77 miliardi di euro, soltanto in Italia.
In particolare, si osserva come il caporalato e il lavoro di braccianti senza contratto frutta 4,8 miliardi di euro a coloro i quali sostengono e nutrono questo sistema, gli stessi che beneficiano di ben 1,8 miliardi di euro tramite l’evasione fiscale e contributiva.
Se questi sono i dati complessivi del paese, ciò che varia – come anticipato – sono le modalità attraverso cui proliferano le infiltrazioni illegali. A Genova, per esempio, i profitti sono determinati principalmente da un radicato e sommerso sistema di contraffazione di prodotti della filiera olearia, mentre a Verona il problema riguarda l’importazione di suini dal Nord Europa che vengono, però, marchiati come italiani e, in misura leggermente minore, la contraffazione di superalcolici provenienti dall’estero mascherati come tipicità locali.
L’esempio della vicenda del clan Piromalli
Eurispes, Coldiretti e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare ricostruiscono le reti delle agromafie attraverso alcuni casi di cronaca tra i quali spicca quello del clan Piromalli che, nel 2016, aveva il pieno controllo del mercato degli agrumi. Nell’area della Piana di Gioia Tauro la gestione delle operazioni immobiliari e di compravendita dei terreni era affidata a Girolamo Mazzaferro, mentre Rosario Vizzari gestiva il traffico da e per gli Stati Uniti degli agrumi raccolti da braccianti sfruttati per pochi euro e nessuna garanzia. La stessa cosca, attraverso il figlio del boss Giuseppe, Antonio, aveva messo le mani anche sul mercato ortofrutticolo di Milano: dalle indagini è emerso, in particolare, come soggetti legati al clan fossero soci occulti di Ortopiazzolla e Polignanese, due aziende distributrici che fornivano catene di supermercati molto diffuse al Nord Italia e, in particolare, nel Nord Est come Alì e Bennet.
Il caso della filiera del pomodoro
Un esempio a sé stante è quello che riguarda la filiera del pomodoro, da anni ormai nel mirino delle autorità e delle associazioni che combattono contro caporalato e agromafie proprio per la contaminazione raggiunta in un settore fondamentale per l’Italia.
In questo ambito vi sono alcune profonde differenze tra nord e sud del paese a partire dal grado di automatizzazione della raccolta dei pomodori che viene ripetutamente indicata come una possibile soluzione per arginare il dilagare dello sfruttamento. Lo sottolinea in un’intervista a Internazionale anche Francesco Mutti: “Sul pomodoro da industria noi chiediamo alle aziende la raccolta meccanizzata proprio per evitare queste situazioni. Ma nel caso del pomodorino è più complesso raccogliere meccanicamente e chiediamo quindi garanzie stringenti sulla manodopera utilizzata.”
Dello stesso avviso anche Luigi Ferraioli, presidente di Anicav che, a Il Sole 24 Ore, spiega che “la raccolta meccanica del pomodoro ha raggiunto il 100% al Nord e il 90% del bacino del centro-sud, il quale ha però una superficie coltivata molto estesa e quindi quel 10% d attività manuale attira molte migliaia di lavoratori”, dei quali – secondo le stime di Cgil, Cisl e Uil – 400.000 immigrati sfruttati.
Sembra quindi complicato individuare una soluzione: secondo alcuni la strada intrapresa nel Nord Italia, ovvero quella dell’istituzione di alcune cooperative che forniscono alle aziende lavoratori stagionali, assunti con regolare contratto. Tuttavia sono già stati individuati casi, come quello di Alessandria, in cui queste cooperative si sono dimostrate dei meri specchietti per le allodole, realtà solo apparentemente strutturate, che invece favoriscono la sopravvivenza di un sistema di sfruttamento e illegalità.
Un’alternativa, tuttavia, esiste ed è quella realizzata concretamente da tutte quelle realtà che portano avanti la produzione del pomodoro in trasparenza, comunicando direttamente con il consumatore e riducendo la presenza di intermediari. È il caso di Sfrutta Zero, progetto delle associazioni Lunaria e Diritti a Sud, che produce salsa di pomodoro “pulita” in Puglia, o anche di Funky Tomato che, da anni, lavora sul territorio del Fondo rustico Amato Lamberti, confiscato alla Camorra.
Conoscevate questo fenomeno e le alternative a disposizione dei consumatori?
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