“Quante volte sei venuto a mangiare qui?”. Sapevo che l’intervista con Adriano Baldassarre, lo chef del Tordomatto, sarebbe stata particolare, ma non mi aspettavo un approccio così inusuale. “All’inizio sto sempre poco simpatico, de brutto, me l’hanno detto pure i miei collaboratori, poi per fortuna quando entro in confidenza con le persone, queste cambiano idea”. Sapevo inoltre che avrei trovato lo chef un po’ adirato a causa di una recensione non proprio positiva ricevuta da poco. Secondo Baldassare, spesso i clienti si recano in un ristorante aspettandosi i piatti a cui sono affezionati, che hanno imparato ad amare assaggio dopo assaggio, ma magari il menù è cambiato e recensire in maniera negativa una serata per un solo piatto non gradito è un tantino eccessivo: “mi sembra un giudizio strano, scritto per voler colpire; è come andare a un concerto dei Guns ‘n’ roses e restare deluso perché Slash non fa l’assolo de Il Padrino”.
Il ritorno a Roma di chef Baldassarre
Adriano mi conferma di non aver paura di osare e di voler seguire la sua strada, fatta di creatività e intuizioni, perché non vuole essere un semplice esecutore o ancor peggio un emulatore, “se su un percorso di degustazione di 7 piatti al cliente non ne piace soltanto uno io posso ritenermi contento”. Siamo a Roma, alle spalle della Basilica di San Pietro, visibile in una bella giornata di sole dalla panchina sulla quale siamo seduti, sul marciapiede esterno al locale. Baldassare è un fiume in piena e mi propone di non seguire l’elenco di domande che ho preparato, ma di parlare liberamente per poteri esprimere la sua idea di cucina. “Essere naturali è la cosa più bella perché siamo solo cuochi, famo da magnà, c’è da costruire un momento, un percorso che racconti una esperienza personale, per questo motivo ritengo che copiare sia demoniaco”.
Adriano Baldassarre e il suo “secondo tempo”
“Questo è il mio secondo tempo”. Questa frase, detta all’improvviso, senza un esplicito collegamento con quanto racconto fino a quel momento, mi colpisce. “Questo non è il miglior ristorante di Roma, né il peggiore, ma ha una identità mia e un’etica che cerco di trasmettere a tutti i collaboratori con l’obiettivo, quando realizziamo un piatto nuovo, di documentarci sull’eventuale esistenza dell’idea avuta. Se esiste già si cambia, perché non voglio emulare nessuno”, un concetto sul quale lo chef tornerà più volte nel corso della nostra chiacchierata. Ogni piatto che viene realizzato nella sua cucina prima di esser presentato deve attraversare una serie di step a suo avviso fondamentali per costruire la storia e il racconto del piatto stesso, che ha come focus principale il sapore. Quando capisce cosa voler raccontare e in che modo, passa al pensiero del piatto, poi alla sua geolocalizzazione (senza mai uscire dalla regione Lazio), perché non vuole interpretare piatti e idee di altri o rivisitare tradizioni di altre regioni, nel suo ristorante c’è cucina romana del territorio, una cucina che ama definire “in progressione”.
La cucina “in progressione” del Tordomatto
“In è una preposizione articolata che collega la cucina e la progressione, ma è anche l’abbreviazione di India, il collegamento tra la mia cucina romana e la sua progressione: voglio raccontare la mia esperienza, che si è completata incontrando l’India, Paese nel quale ho lavorato per 2 anni e dove attualmente curo il ristorante di un grande albergo di Delhi”. L’India, per Baldassarre, non è una moda del momento, ma un territorio che ha influenzato il suo bagaglio di ingredienti, ampliandolo. Non è stata una toccata e fuga, la metabolizzazione della cultura indiana attraverso la cucina non è riassumibile con il semplice utilizzo di spezie, è stata molto di più; la sua cucina non è perfezione, “ma la perfezione è la sensazione che intercetta l’ospite quando prova i miei piatti”.
Gli inizi e il primo Tordomatto
“Il romano ha sempre la convinzione di essere padrone del mondo: sela porta dietro dai tempi dell’Impero”. Parte da questa affermazione Adriano per parlarmi delle sue scelte. “Mi hanno chiesto perché ho aperto in questa zona, dicendomi che è ‘fuori Roma’, ma la gente forse ha la memoria corta perché non ricorda che nel 2003 ho avuto l’idea di aprire, a 26 anni, a Zagarolo”. Dopo 3 anni arriva la stella Michelin, e il ricordo più bello di quel periodo era il transito continuo di ospiti che da Roma partivano per venire a Zagarolo. “Vedi, siamo alle spalle della Basilica di San Pietro, probabilmente uno dei monumenti più importanti del mondo, eppure qualcuno ultimamente ha definito ’pessimo’ il mio quartiere e ha recensito in maniera negativa il mio ristorante”. I palazzi del quartiere che ospita il Tordomatto furono costruiti in epoca fascista al momento della costruzione di via della Conciliazione, un quartiere ritenuto più popolare rispetto a Prati perché un tempo qui c’erano le campagne di Roma, una zona non edificata.
La cucina della tradizione e quella futura
“È importante lavorare sul territorio di appartenenza, che per me è la città di Roma, e l’ho evidenziato anche quando ero a Zagarolo, al punto che i miei primi 2 piatti (la Polpetta di cosa e il Cappuccino di Baccalà) ora sono divenuti un ‘benvenuto’ (piatto con il quale lo chef accoglie i clienti prima di far iniziare il percorso di degustazione, ndr)”. Lo chef vuole parlare di influenza e mai di contaminazione, perché nella nostra lingua “contaminata significa infetta”. Le tante influenze convogliate nella tradizione culinaria romana, da quella del Papato a quella Ebraica, passando per le tradizioni della cucina di campagna, hanno contribuito a far giungere fino ai nostri giorni alcuni piatti fondamentali. Per lo chef anche la Seconda Guerra Mondiale ha condizionato la cucina: “non lavoro mai sulla Carbonara, penso sia il primo piatto di cucina contemporanea assieme a ‘Broccoli e Arzilla’, non la possiamo attribuire a un percorso storico, ma serve a memorizzare il sapore della tradizione per metabolizzare il gusto della progressione: solo in questo modo si può accettare la progressione. La Carbonara all’inizio era una frittata, non era cremosa, la progressione porta modifiche.Le fettuccine Alfredo sono il piatto più conosciuto all’estero”, un piatto che lui rispetta e che non giudica dal punto di vista della realizzazione, ma che ritiene appartenga alla tradizione della cucina romana perché il modo di realizzarlo lo ha fatte entrare nella memoria collettiva. Tordomatto per Baldassarre non vuole essere il miglior posto di Roma, ma il più coerente, considerando anche la congrua gestione economica, perché “è inutile cercare cose lussuose per poi dover abbassare la serranda dopo pochi giorni”. Lo chef e la sua brigata cercano di realizzare una cucina romana personale, interpretata secondo il punto di vista di Adriano, una visione influenzata e completata della cultura della cucina dell’India. “Nel prossimo menù ci sarà il ‘Crostino con la provatura’, e anche il ‘Pollo con i peperoni’, piatti di cui non si parla mai nell’alta cucina”.
Gli sprechi e la lavorazione delle materie prime
Dopo aver parlato della sua filosofia culinaria, Adriano decide d’un tratto di leggere alcune delle domande che avevo preparato, e riuscendo nuovamente a sorprendermi, inizia a rispondere. Parte dalla lotta agli sprechi: “un tempo non se ne parlava, perché si diceva ‘in cucina non si butta nulla’. Da noi non ci sono sprechi perché facciamo una cucina classica, che prevede l’utilizzo di ogni tipo di ingrediente nella sua interezza”. Si parte, ad esempio, dalla preparazione dei Fondi, che nel corso del tempo ha visto evolvere la metodologia di estrazione, ma che nella cucina del Tordomatto viene realizzata in maniera classica, partendo da un brodo ottenuto da carcasse di volatili o animali più grandi, o da lische di pesce o da cuori di verdura. “Dagli animali otteniamo ritagli di carne non utili per un piatto e che utilizziamo per il brodo, rosolandoli con un battuto di verdure, eliminando la parte grassa e aggiungendo l’acqua per ridurre il tutto”. Ma l’utilizzo delle materie prime viene espresso anche nella preparazione dei primi piatti, perché Baldassare ci tiene a sottolineare di non parlare mai di cottura della pasta ma di reidratazione, “secondo me la pasta necessita di una dolce reidratazione che avviene sempre come per il risotto in un blend, l’unione di più liquidi provenienti da verdure”. Si cerca quindi di ridurre al minimo lo spreco, di estrarre ogni cosa da ogni ingrediente e lo chef con soddisfazione mi dice che quando la sera si butta il sacco dell’umido che contiene solo scarti dell’estrattore lui è felice. “Si può combattere lo spreco imparando a lavorare le materie prime, comprando un agnello o non solo il carré, evitando di lavorare prodotti semilavorati perché portano i ragazzi a disimparare quanto hanno appreso fino a quel momento”.
La Sala e la mancanza di passione dei giovani
“Il personale di sala qualificato non c’è per colpa dei cuochi”. Per Adriano questa frase è stata pronunciata da una persona che evidentemente si era stancata del suo lavoro, perché “la colpa in realtà è della mancanza di passione dei giovani, delle nuove generazioni”. Mi racconta degli stage fatti da studente, e di come lui e i suoi colleghi venissero massacrati da turni e mansioni, mentre ora a lui è capitato più volte con vari stagisti di sentirsi chiedere “se potevano andar via 15 o 20 minuti prima della fine del turno. I ragazzi prima di lamentarsi devono contare fino a 2000, si devono chiedere ‘io sono davvero così convinto di voler fare questa cosa?’”. Sacrificio e dedizione sono i termini chiave per Baldassarre, che aggiunge “molti vanno via da questo ambiente per lavorare in albergo, sicuri delle loro 40 ore settimanali, per poi finire a tagliare le candele”.
I piatti di Adriano Baldassarre
La chiacchierata va avanti da quasi due ore, tra confidenze e punti di vista sul panorama ristorativo romano. Arrivati in chiusura gli chiedo di parlarmi dei suoi piatti icona: “la Polpetta di coda è il piatto più famoso, quello del futuro lo decreteranno la critica ed i clienti”. E qui lo chef regala l’ennesimo colpo a sorpresa, affermando che a suo avviso “dovremmo rompere un sistema rappresentato dal menu, dovremmo strapparlo e cucinare alla giornata, come accade in trattoria, anche se risulterebbe poco gestibile per la brigata”. Adriano mi confida di pensare di riuscire a fare da sempre una cucina molto semplice, che definisce nuda, ed aggiunge come abbia notato che far comprendere questa filosofia sia un’operazione molto complessa. “Non racconto la moda ma un territorio, la mia cucina forse non ha un appeal visivo immediato, per comprenderla necessita senza dubbio di venire al locale per assaggiarla e argomentarla”. Solo dopo la si potrà comprendere, e ciò potrà farla apprezzare o meno, “ma ha bisogno dell’assaggio, perché la semplicità viene con essa. Non è una sensazione o un sentimento che puoi esprimere notte tempo, è un qualcosa che ti appartiene, che racconti perché fa parte di te”.
Filosofia, storia, cucina, religione, tradizione: due ore intense, un enorme manifesto culinario contraddistinto da incredibile lucidità, il racconto di uno chef maturo, consapevole, che riesce a trasmettere una forte identità alla sua cucina “in progressione”. Quale passaggio dell’intervista vi ha maggiormente colpito?
Foto copertina: pagina Facebook del ristorante Tordomatto