Sulla nocività cardiovascolare degli acidi grassi trans non ci sono dubbi, tanto che l’Organizzazione mondiale della sanità programma di bandirli completamente entro il 2023. Questa particolare tipologia di lipidi può essere contenuta naturalmente nei cibi, ma molto più spesso dipende dalla presenza di grassi idrogenati, ingredienti abbastanza tipici dei cosiddetti cibi spazzatura. In passato abbiamo spesso accennato a queste sostanze e al processo chimico che le produce, come nel nostro articolo sul burro vegetale e sulle alternative migliori a quello vaccino. Questa volta dedicheremo il nostro approfondimento agli acidi grassi trans, cercando anche di capire se la loro dismissione potrà diventare realtà e quali sono gli ingredienti impiegati per sostituirli.
[elementor-template id='142071']Acidi grassi trans: caratteristiche e nocività
Negli ultimi anni l’attenzione degli organismi sanitari e dei consumatori si è concentrata su diversi prodotti e nutrienti, ma probabilmente nessuno di questi ha ricevuto una condanna senza appello come i grassi trans di origine artificiale (TFA), ottenuti modificando acidi insaturi con il processo di idrogenazione, additato per gli effetti collaterali che produce. Lo scopo principale di questo metodo è l’innalzamento del punto di fusione, per trasformare oli liquidi a temperatura ambiente in materie solide a parità di gradi centigradi. L’esempio più classico è quello della margarina, che seppur tenuta in mano non fonde, come invece accadrebbe rapidamente al burro.
La storia di questa tipologia di grassi inizia nei primi anni del Novecento, quando il chimico francese Paul Sabatier scopre il processo dell’idrogenazione, in seguito applicato agli oli alimentari dal tedesco Wilhelm Normann, che ne registra il brevetto. Negli anni Dieci l’industria alimentare comincia a utilizzare gli oli trattati con questa tecnica, molto adatti per i prodotti da forno e di pasticceria. I vantaggi erano essenzialmente quattro:
- L’idrogenazione conferisce consistenza ai grassi, che a loro volta rendono più fragranti e friabili gli impasti. Gli oli vegetali, quindi, assumono caratteristiche tipiche del burro e soprattutto dello strutto.
- Questa trasformazione, inoltre, li rende molto resistenti alle alte temperature, caratteristica rara per i grassi vegetali.
- Altrettanto significativa è la migliore resistenza all’invecchiamento e all’irrancidimento, fondamentale per i prodotti da forno che devono conservarsi per mesi dopo il confezionamento.
- Il quarto aspetto non è certo il meno importante, perché sostituire ingredienti di origine animale con oli vegetali di basso pregio, trasformati con questo processo, abbassa notevolmente i costi di produzione dei prodotti alimentari.
In base alle necessità, si possono applicare diversi livelli di idrogenazione, i quali generano concentrazione differenti di TFA, che potremmo definire come l’effetto collaterale del procedimento. Il grande successo dei grassi idrogenati, a livello industriale, raggiunge l’apice negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, quando erroneamente li si riteneva più salutari rispetto agli oli naturali e al burro.
Anche se la loro presenza nei cibi deriva in gran parte dall’aggiunta di materie prime ottenute con una trasformazione artificiale, in alcuni prodotti i TFA possono essere naturalmente presenti in piccole dosi, come nel caso dei latticini di mucca e delle carni dei ruminanti – a causa dell’azione della flora batterica di questi animali, detta bioidrogenazione – ma si trovano anche nei semi e nelle foglie di alcune piante. È importante sottolineare, tuttavia, che i grassi trans contenuti naturalmente quasi sempre non sono nocivi come quelli prodotti con trasformazioni artificiali. Alcuni di questi, si sono rivelati addirittura positivi per la salute e per la colesterolemia, come abbiamo visto nel nostro approfondimento sul pecorino CLA.
Anche i processi di raffinazione degli oli vegetali, effettuate generalmente a temperature molto elevate, possono introdurre una percentuale non trascurabile di TFA artificiali, e in questo senso l’olio di palma rappresenta l’esempio più noto. Per lo stesso motivo, le fritture sono in grado di produrre effetti simili, specialmente se protratte per diversi minuti a temperature vicine al punto di fumo.
In quali cibi sono presenti?
La presenza di TFA è strettamente legata a quella dei grassi idrogenati, tipici delle margarine e degli oli trattati con questo procedimento. Di conseguenza, i prodotti che presentano almeno uno di questi due ingredienti li contengono. Ecco una lista con alcuni esempi, per i quali indicheremo la percentuale indicativa di TFA sull’intero contenuto lipidico:
- margarina non spalmabile: 20-50%; spalmabile: 15-30%
- oli vegetali parzialmente idrogenati: 10-15%
- oli vegetali raffinati: 2-7%
- paste dolci e merendine, salatini e snack: 30-60%
- farciture per brioches e glasse per torte industriali: 40-60%
- patate fritte e prodotti impanati surgelati: 30-40%
- prodotti da fast food fritti in oli idrogenati: 30-45%
- würstel: 15-25%
- dadi da brodo: 15-30%
Cosa dicono le ricerche?
Dopo il successo industriale degli anni Cinquanta e Sessanta, i grassi idrogenati sono stati analizzati da decine di studi, che a partire dagli anni Novanta hanno evidenziato la loro nocività per diverse funzioni fondamentali dell’organismo.
A emergere fin da subito, e più volte confermata, è stata l’azione dei grassi trans sulla colesterolemia, a favore di un innalzamento del colesterolo LDL, quello “cattivo”, a spese del HDL, quello “buono”. In seguito, riguardo a questa specifica, i TFA sono risultati più influenti rispetto ai comuni grassi saturi. A gravare sul rischio cardiovascolare è anche l’aumento di lipoproteina, un altro fattore dannoso da considerare. Ulteriori ricerche hanno portato alla luce una correlazione con il rischio diabetico e con una sorta di distruzione degli acidi grassi essenziali causata dai TFA, che entrano in competizione con i grassi “sani” .
La ricercatrice Mary G. Enig, grande esperta nello studio degli acidi grassi trans, ha riassunto i loro effetti negativi, considerando i risultati delle ricerche pubblicate fino al 2013. Fra gli aspetti più significativi non ancora riportati, possiamo citarne alcuni:
- interferenza con il metabolismo degli omega 3 e con la risposta immunitaria;
- abbassamento del valore biologico del latte materno;
- alterazione delle funzioni e dell’efficienza delle cellule, compresi gli adipociti, che regolano i depositi di grasso;
- incremento della produzione di radicali liberi, che favoriscono l’invecchiamento, colpendo anche il sistema nervoso centrale e la salute del cervello;
- abbassamento dei livelli di testosterone e possibile calo della fertilità maschile.
Questo insieme impressionante di azioni nocive non può che essere un forte disincentivo al consumo di cibi contenenti grassi idrogenati. Pur non essendo pienamente concordi in termini di dosaggi massimi, tutte le autorità sanitarie mondiali consigliano di ingerire la minor quantità possibile di TFA. Se l’American Heart Association suggerisce di non superare i 2-2,5 grammi al giorni, l’Institute of Medicine degli Stati Uniti (Iom) è più drastico, e consiglia di eliminarli completamente dalla dieta. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), invece, indica di non superare l’1% dell’apporto calorico giornaliero proveniente da acidi grassi trans, che se consumati eccessivamente sarebbero in grado di aumentare il rischio di malattie cardiache del 21% e i decessi del 28%.
Per evitare il consumo di TFA, quindi, è importante leggere le etichette dei prodotti, dove la dicitura “totalmente o parzialmente idrogenato”, riferita agli oli, deve metterci in guardia. L’origine di questi grassi (palma, girasole o altri semi), inoltre, è un’informazione utile per chi acquista e obbligatoria per i produttori.
Grassi trans: è davvero possibile bandirli?
Secondo l’Oms, i grassi trans sarebbero responsabili di 500mila decessi all’anno, causati da patologie a essi associate, motivo sufficiente per lanciare Replace, una grande iniziativa in sei passaggi per eliminarli completamente dai cibi industriali entro il 2023. La crociata contro i TFA, in sostanza, si basa su un invito a tutti i Paesi ad adottare azioni legislative per imporre alla aziende la sostituzione con oli più salutari, prevedendo anche eventuali sanzioni per i trasgressori, con una logica simile a quella delle tasse sul cibo spazzatura. Alle istituzioni sanitarie, invece, è affidato il compito di avviare campagne di comunicazione e sensibilizzazione per diffondere conosapevolezza sul problema. L’obiettivo dell’Oms rientra negli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, che prevede entro il 2030 anche la riduzione di un terzo delle morti premature legate alle patologie non trasmissibili.
Sono già più di quaranta gli Stati che si sono mossi contro i TFA, tra i quali Canada e Usa, dove i grassi idrogenati fino a pochi anni fa erano molto diffusi. Replace, del resto, fa seguito a un analogo piano statunitense che punta a eliminare i grassi trans entro il 2020. Nel 2006, l’obbligo di indicarli in etichetta, istituito dalla Food and Drug Administration statunitense, aveva già spinto le aziende americane a ridurne notevolmente le concentrazioni nei cibi. Successivamente, l’International Food and Beverage Alliance, associazione di riferimento delle grandi multinazionali del food, ha dichiarato che questa iniziativa nel 2017 ha fruttato un calo dei TFA nei prodotti industriali superiore al 98%.
Anche in Europa i governi nazionali e l’industria alimentare si sono attivati contro questo problema. La Danimarca ha stabilito per prima una concentrazione massima del 2% di TFA nei cibi, ma anche altri Stati si sono dotati di provvedimenti simili, in ottica di divieto. Nel Regno Unito, dove i junk food sono molto popolari, la sostituzione dei grassi idrogenati è stata efficace, mentre nei Paesi mediterranei la situazioni di partenza è migliore, grazie alla maggiore diffusione dell’olio d’oliva rispetto ai grassi saturi e agli altri oli vegetali. In Italia, tuttavia, non sono ancora state introdotte leggi ad hoc, ma le aziende stanno progressivamente abbandonando i grassi idrogenati, seguendo l’aumentata sensibilità dei consumatori per la salubrità degli ingredienti. Negli ultimi dieci anni, non a caso, gli acidi grassi trans sono di fatto scomparsi nella maggior parte dei prodotti da forno e nei cereali da colazione.
Negli Stati dell’Europa orientale, come in quelli asiatici e africani, occorre invece lavorare di più, perché l’economicità dei grassi idrogenati, e una più scarsa attenzione di istituzioni e consumatori, rende tuttora questi ingredienti molto popolari e diffusi.
Come vengono sostituiti?
Nonostante le iniziative per eliminarli, i grassi idrogenati non sono stati completamente debellati, perché continuano a essere considerati dall’industria alimentare, a causa dei vantaggi economici e produttivi sopra descritti. La loro sostituzione, quindi, è un obiettivo non banale, se si vogliono replicare le peculiarità che li hanno resi vantaggiosi. Va sottolineato, infatti, che la grande diffusione dell’olio di palma, verificatasi negli anni scorsi, si motivava anche con la volontà di rimpiazzare i grassi idrogenati e i TFA in essi contenuti. In seguito, com’è noto, sono però emerse altre criticità legate a questo ingrediente e alle sue dinamiche produttive, che hanno spinto l’utilizzo dell’olio di girasole e dell’olio di cocco. È evidente, pertanto, che la guerra contro i grassi trans non può prescindere da una riflessione complessiva sui cibi industriali e sui junk food, a tutte le latitudini ancora troppo presenti nell’alimentazione.
Conoscevate i rischi legati al consumo di grassi trans e la campagna per eliminarli?
Fonti:
Organizzazione mondiale della sanità
Albanesi Salute
PubMed
Fondazione Veronesi