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No al Ceta: l’Italia farà saltare l’accordo europeo col Canada?

 

In seguito all’insediamento del governo Conte, si è riaperto il dibattito sul Ceta (Comprehensive Economic and Trade Agreement), il patto economico-commerciale tra Europa e Canada. Il via libera del precedente esecutivo, infatti, sembra essere superato da una posizione contraria a questo accordo, accusato di non rispettare il made in Italy. Ma quali sono le ragioni di questa scelta e gli effetti che potrebbe generare? Partendo dalle basi che portano a metterlo in discussione, cercheremo di capire se abbandonare l’accordo europeo col Canada può effettivamente essere una decisione favorevole all’economia italiana.

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No all’accordo europeo col Canada? La posizione della maggioranza

Il Ceta scricchiola, e il percorso che solo pochi mese fa sembrava in discesa si è fatto assai tortuoso. All’avallo del governo Gentiloni, infatti, si è sostituita la sostanziale contrarietà della maggioranza giallo-verde, palesata già all’avvio della legislatura per bocca di alcuni suoi esponenti di primo piano. Negli Stati Uniti, il no del presidente Trump al TTIP in un certo senso ha anticipato questa situazione.

In un’intervista a La Stampa del giugno scorso, Gian Marco Centinaio, ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, non ha lasciato spazio a dubbi: “Chiederemo al Parlamento di non ratificare quel trattato e gli altri simili, come previsto nel contratto di governo. Non si tratta solo di una posizione dei sovranisti della Lega: i dubbi su questo accordo sono comuni a tanti miei colleghi europei”. No al Ceta, quindi, perché “tutela solo una piccola parte dei nostri prodotti Dop e Igp”, col rischio di favorire il falso made in Italy, il cosiddetto italian sounding, ovvero le imitazioni di prodotti, denominazioni e marchi, attraverso nomi di fantasia che richiamano l’italianità, dietro i quali si celano merci realizzate al di fuori dei nostri confini. Secondo Centinaio, il governo si impegnerà al massimo per contrastare questa pratica dannosa per le produzioni nazionali.

ceta europa canada
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Gli stessi contenuti sono stati espressi anche dal vicepremier e ministro dello sviluppo economico Luigi Di Maio, che in seguito alla conclusione della vicenda della nave Diciotti, attaccando la politica dell’Unione, ha dichiarato di voler bloccare “tutto ciò che non conviene all’Italia”, a partire dal Ceta, la cui discussione “dovrebbe arrivare presto in parlamento per bocciarne la ratifica”, approvata dal governo precedente e dalla commissione Affari esteri.

Alla vigilia delle elezioni del marzo 2018, che hanno poi ribaltato gli equilibri politici, la votazione del disegno di legge sul Ceta aveva subito un arresto, con la prospettiva di affidare al nuovo esecutivo la scelta definitiva su una questione così importante.

Anche se dal settembre 2017 l’accordo è già in vigore in via provvisoria, dopo la votazione e la ratifica del parlamento europeo, si attendono le decisioni nazionali dei singoli Stati comunitari, Italia compresa. Le parti che devono ancora entrare in vigore sono quelle relative alla protezione degli investimenti e agli arbitrati internazionali. Per risolvere le controversie fra investitori e nazioni, l’accordo europeo col Canada stabilisce la creazione di un tribunale permanente, con giudici scelti da Canada e Unione Europea, ma, per chi osteggia il trattato, non è giusto offrire ai privati la possibilità di fare causa contro gli Stati.

Nel nostro Paese i presupposti lasciano pochi spiragli per evitare il no al Ceta, che al momento è stato avallato in Danimarca, Lettonia, Estonia, Lituania, Malta, Spagna, Portogallo, Croazia, Repubblica Ceca, Austria e Finlandia.

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Il no al Ceta dell’Italia può essere decisivo

Il Ceta non contiene esplicite disposizioni sulle conseguenze di una mancata ratifica da parte di una nazione europea. Non esistono precedenti in questo senso, e perdipiù manca un’interpretazione univoca sull’eventualità in questione.

Cecilia Malmström, commissaria per il Commercio, nel marzo 2017, in risposta a un eurodeputato, aveva dichiarato che un parere negativo da parte italiana farebbe saltare il trattato. Il Ceta, infatti, è un accordo misto, che per assumere piena efficacia richiede il via libera dei singoli Stati membri, che restano titolari di una sorta di veto. A confermare questa interpretazione sarebbero la Corte di giustizia europea, nel parere n. 2/15 sull’accordo di libero scambio con Singapore, e la dichiarazione del Consiglio 13463/1/16 al momento dell’approvazione preliminare del trattato.

Se alla contrarietà espressa finora seguirà un definitivo no all’accordo europeo col Canada, forte di un consenso apparentemente superiore alla maggioranza Lega-M5S, cadrebbe a livello comunitario quantomeno la parte sugli investimenti e sugli arbitrati internazionali, affidata alle decisioni dei singoli parlamenti nazionali. Gli accordi relativi all’eliminazione dei dazi potrebbero rimanere valide anche in caso di mancato via libera italiano, anche se, come detto, non c’è un’interpretazione univoca riguardo a questa possibilità.

Certamente, però, le ricadute politiche a livello europeo sarebbero assai rilevanti, a maggior ragione se l’opposizione al Ceta fosse condivisa da altri Stati membri. In ambito europeo, peraltro, l’Italia sembra aver conquistato una posizione capofila all’interno di un fronte euroscettico e contrario ai patti di libero scambio.

Le reazioni

In seguito alle dichiarazioni dei ministri italiani, che lasciano presagire un no al Ceta, non si è fatta attendere la replica da parte di Bruxelles, in difesa del trattato. “La Commissione europea lavora strettamente con gli stati membri per far sì che le politiche commerciali siano mutualmente benefiche: il Consiglio Ue e il G7 con i leader europei hanno confermato l’impegno per questa priorità e il lavoro prosegue”, è stato affermato per via di un portavoce.

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marcin jucha/shutterstock.com

Di tutt’altro avviso è stata la reazione di Coldiretti, che si opponeva al patto euro-canadese. Per il presidente Roberto Moncalvo, il no al Ceta “è una scelta giusta, di fronte a un accordo sbagliato e pericoloso per l’Italia, contro il quale si è sollevata una vera rivolta popolare, che ci ha visti protagonisti su tutto il territorio nazionale, dove hanno già espresso contrarietà 15 regioni, 18 province, 2500 comuni e 90 Consorzi di tutela delle produzioni a denominazioni di origine. È inaccettabile che il settore agroalimentare sia trattato dall’Unione europea come merce di scambio negli accordi internazionali senza alcuna considerazione del pesante impatto che ciò comporta sul piano economico, occupazionale e ambientale. All’estero sono falsi più di due prodotti alimentari di tipo italiano su tre”.

La posizione dell’associazione è molto netta. Secondo Coldiretti, con il Ceta “per la prima volta nella storia, l’Unione Europea in un trattato internazionale legittima la pirateria alimentare a danno dei prodotti made in Italy più prestigiosi, accordando esplicitamente il via libera alle imitazioni che sfruttano i nomi delle tipicità nazionali, dall’Asiago, alla Fontina, dal Gorgonzola ai Prosciutti di Parma e San Daniele, ma sarà anche liberamente prodotto e commercializzato dal Canada il Parmigiano Reggiano, con la traduzione di Parmesan”.

Gli effetti del Ceta e le conseguenze dello stop

Se l’accordo europeo col Canada fosse respinto, sarebbe necessario riaprire i negoziati per stipulare un nuovo patto commerciale, una prerogativa dell’Unione europea. Come si è visto con il caso della Brexit, solo l’uscita dall’Ue permette a uno Stato membro di riportare in ambito nazionale la competenza su questo tipo di trattati.

Una situazione simile, inevitabilmente, segnerebbe una crisi degli accordi misti, che richiedono lunghi tempi di ratifica, durante i quali gli scenari politici possono variare in modo sostanziale, con il rischio di vanificare il patti presi in precedenza. Di questo aspetto sembra aver preso coscienza la Commissione europea, dove non è remota l’idea di tornare a prediligere i trattati propriamente commerciali, che non necessitano della ratifica degli Stati nazionali, rispetto agli accordi misti come il Ceta e il Jefta, ambiziosi ma complessi.

Senza Ceta l’Italia ci guadagna?

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Secondo i dati comunicati dalla commissaria Malmström, da quando il Ceta è in vigore le esportazioni italiane verso il Canada sono cresciute dell’8%. Chi critica il trattato prende di mira la mancata protezione di molte Dop e Igp italiane, anche se, ribaltando l’analisi, è vero che senza l’accordo nessuna delle 41 denominazioni alimentari tutelate dal Ceta avrebbe garanzie in questo senso. Un’altro dato interessante, evidenziato dal Sole 24 Ore, è la concentrazione delle vendite su pochi prodotti italiani celebri all’estero. Infatti, il 95% delle esportazioni made in Italy in Canada è realizzato da cinque sole denominazioni, peraltro protette dall’accordo: il Parmigiano Reggiano, l’Aceto balsamico di Modena, il Pomodoro San Marzano, il Pecorino romano e la Mozzarella di bufala campana. Ciò significa che la maggior parte delle indicazioni geografiche italiane ha un mercato di nicchia e prettamente nazionale, anche se potenzialmente in ascesa. Il trattato euro-canadese, per il contrasto all’italian sounding, vieta l’utilizzo di simboli che evocano l’Italia, fissando anche l’obbligo di specificare in etichetta il Paese in cui il prodotto è stato realizzato.

Un altro aspetto additato da chi sostiene il no al Ceta è il presunto vantaggio che questo trattato offrirebbe alle multinazionali, a spese delle piccole e medie imprese. Questa conclusione, però, non tiene conto del fatto che le corporation possono soverchiare le piccole aziende quanto più il mercato è chiuso e ristretto, avendo più risorse per competere. Le tante Pmi italiane vocate all’export, oltretutto, si giovano particolarmente dell’eliminazione dei dazi offerta dal Ceta, più delle multinazionali che in termini di numeri possono reggere l’impatto di questi balzelli. Più dibattuta, ma discutibile, è la critica secondo la quale il trattato non garantisce i livelli di sicurezza europea, perché per esportare nell’area comunitaria ci si dovrà comunque adeguare agli standard vigenti nell’Ue.

In sostanza, il no al Ceta – accordo migliorabile e non privo di difetti – appare un’eventualità i cui benefici non sono chiari, specialmente considerando la situazione in prospettiva. Si conoscono gli aspetti ai quali si rinuncerebbe, ma al momento non sono in campo alternative preferibili e positive per tutti.

 

Pensate che il no al Ceta sarebbe un vantaggio o un errore?

Altre fonti:

Il Sole 24 Ore
La Stampa

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