Ci sono cose, a volte, per cui l’unico modo di affermarsi è essere negate. Ci sono cose, persone e istanze che sono state talmente tanto e talmente a lungo represse, misconosciute o ignorate che per poterci essere oggi hanno bisogno, loro malgrado, di passare per ciò che non sono. Succede, ad esempio e non a caso, con il queer food che, a dispetto di facili ghettizzazioni linguistiche e culturali, non c’entra nulla con unicorni e arcobaleni e non corrisponde al piatto nazionale della comunità LGBTQ+.
Esattamente come coloro che si riconoscono in un’alterità di genere o di orientamento sessuale rispetto alla “norma” (e presunta “normalità”) binaria ed eterosessuale, così il queer food esce dagli schemi dei ricettari tradizionali per includere nuove modalità di vivere il cibo e ciò che gli ruota attorno.
Se non ne avete mai sentito parlare, nonostante magari siate attenti e sensibili alle questioni di genere e/o di alimentazione, probabilmente è perché si tratta di un fenomeno che ha origine e sviluppo prevalentemente negli Stati Uniti, dove la condizione delle persone LGBTQ+ è oggetto di dibattito a più livelli. Tuttavia, conoscere ciò che succede al di là dell’Oceano, in uno dei Paesi che più condizionano il modo di vivere e la cultura occidentali, può aiutare a prevedere possibili fenomeni su scala globale. Ecco perché, in questo articolo, vogliamo occuparci di queer food e di ciò che significa davvero.
Cosa significa “queer”
Partiamo dai fondamentali: cosa vuol dire “queer”? Secondo il Merriam Webster Dictionary, si tratta di un aggettivo che qualifica tutto ciò che differisce dall’usuale, consueto o normale e significa pertanto strano, bizzarro, eccentrico, non convenzionale. Il termine, prosegue il dizionario, tende poi a identificare l’attrazione fisica o sentimentale per persone dello stesso sesso e può essere usato anche in senso dispregiativo. Una connotazione negativa che, però, è andata via via perdendosi. Così, quello che negli anni Ottanta era considerato un insulto è stato progressivamente assunto dai suoi stessi destinatari come definizione e bandiera di una diversità di cui andare fieri, contro l’emarginazione sociale e professionale.
Le persone in primo piano: il queer food contro le discriminazioni
Questo riguarda anche il mondo della ristorazione e dell’alimentazione in generale, in due direzioni: il piano personale e lavorativo di chi fa parte della comunità LGBT+ e il modo di vivere il cibo e di rapportarsi a ingredienti e materie prime. Tutt’oggi, infatti, il settore dell’ospitalità americano è spesso teatro di discriminazioni razziali, di genere o per orientamento sessuale, e solo di recente si è cominciato a denunciare apertamente l’omofobia e le molestie in cucina. Lo ha fatto ad esempio Charlie Anderle, che nel 2018 sulle pagine di Bon Appetit ha riassunto così la sua esperienza di cuoca transgender: “C’erano i commenti squallidi dell’aiuto cuoco sulla taglia dei miei nuovi jeans e il mio manager che cercava di palpeggiarmi le cosce mentre mi abbracciava da dietro il bancone. Questo tipo di attenzione era sempre data come qualcosa di cui vantarsi; mentre rigettarla mi etichettava subito come ‘ipersensibile’ o stronza”.
Ancora prima di lei, il giornalista John Birdsall. Portavoce della cultura gay e queer in cucina fin dal 2014, Birdsall è un convinto assertore del ruolo positivo che un’identità sessuale “diversa” può dare alle preparazioni. Ecco allora che il primo tratto distintivo della cucina queer è quello che passa per le sue persone: non più nascoste, emarginate, isolate e maltrattate, ma al contrario accettate, valorizzate, protagoniste sovversive di una regola non scritta in cui il maschilismo e il sessismo la fanno ancora da padrone. E che trova nel cibo una nuova forma di visibilità e affermazione. “Il cibo è diventato un tropo (ovvero una metafora, ndr) attraverso cui la queer community ha trovato una certa comunanza, cercato visibilità, sostenuto la diversità e incoraggiato l’attivismo”, si legge su un articolo del New York Times dedicato al queer food. “Che si tratti di cene contro le discriminazioni, raccolte fondi per la causa Portoricana, punti di ristoro che servono come zone sicure per il vicinato o per lo sviluppo di una creatività culinaria decisamente queer, l’industria del cibo sta mobilitando la comunità LGBTQ”.
Il cibo queer non esiste (o forse sì)
“Il cibo queer non esiste. Eppure, una volta che inizi a cercarlo, lo trovi ovunque”. Comincia così un recente articolo di Kyle Fitzpatrick per Eater e forse davvero non c’è modo migliore per descriverlo. Volendo essere più concreti?
La risposta può essere cercata tra le pagine di Jarry, “un magazine cartaceo semestrale che esplora le intersezioni tra cibo e cultura queer” – come si legge sul sito ufficiale – stampato dal 2015 negli Stati Uniti con l’intento di mettere insieme “una community queer di chef, consumatori, produttori, scrittori, fotografi, artisti, e industry influencer per celebrarne i risultati e approfondirne il confronto”. Al suo interno, si trovano anche svariate ricette provenienti dal mondo queer come, ad esempio, quella del brodo di pollo, pastina, zenzero e lemongrass; o della torta glassata di cioccolato e olio di oliva; del mix di olive e peperoncini marinati all’arancio e rosmarino; di un’insalata di scarola con finocchi e noci, marinata con succo di lime e sciroppo d’acero; oppure di una cheesecake arancio e zafferano. Se, più che una stereotipata cultura LGBT+, tutto questo vi ricorda una cucina sofisticata, fusion e originale, non siete molto lontani dal vero.
Scordiamoci gli arcobaleni, i simbolismi fallici o cose simili: il queer food accoglie tutti gli ingredienti, le materie prime e le varianti senza limiti o pregiudizi (sono benvenuti i mix culturali o le sperimentazioni vegetariane e vegane), per questo si può trovare potenzialmente ovunque. E come potrebbe essere altrimenti: in un mondo che rifugge dalle classificazioni e dai confini netti e fa dell’eccezione la propria regola (ammesso che di regola si possa parlare), anche il cibo non ricade in formule prestabilite, nemmeno quelle glitter o multicolor che manifestazioni importanti come il Pride pure hanno diffuso.
Perché l’importante non è ciò che si mangia ma l’atmosfera, la sensazione che questo trasmette e che spesso comprende l’esperienza di un gusto inatteso in un modo aperto, condiviso e inedito.
Queer food: il cibo come gesto simbolico e ricerca di comfort alla portata di tutti
Nel raccontare un episodio della sua infanzia, Birdsall ha ricordato di quando da bambino, ospite di una coppia di vicini omosessuali, si trovava a mangiare l’hamburger che uno dei due padroni di casa preparava per lui e di quanto lo trovasse non solo saporito, ma foriero di vera e propria gioia. Un tratto, questo, che anche ora che è decisamente adulto riconosce alla cucina queer in generale: “il perseguimento del piacere a tavola”, ha scritto qualche anno fa, “può trasformarsi in un atto politico”.
Resistere agli stereotipi, rimanendo fedeli alla propria natura, esserne soddisfatti e farne godere anche gli altri: il cibo queer è anche questo, un mezzo tanto simbolico quanto concreto di trasmettere un gusto nuovo, quello per la realizzazione di sé e dei propri diritti.
Non a caso, un altro dei concetti più frequenti che si leggono in riferimento al cibo queer è “comfort”. Lo si trova continuamente nella rivista Jarry, così come nelle parole di Carla Perez-Gallardo, co-proprietaria insieme a Hannah Black del Lil’ Deb’s Oasis, un ristorante queer di New York. Così ha dichiarato qualche anno fa all’HuffPost: “Forse noi dell’establishment queer cerchiamo il comfort in ciò che prepariamo perché proprio il comfort è stato reso inavvicinabile alle nostre comunità a livello sociale diffuso – in termini di diritti di base, accesso alle cure mediche – e alle nostre individualità”. La gastronomia queer semplicemente (ma è davvero così semplice?) accoglie l’altro e ammette anzi prevede, l’anomalia e per questo è estremamente accessibile, spesso anche per quanto riguarda il prezzo. Il concetto di uguaglianza è talmente radicato nella filosofia che sottende ai locali queer, che il cibo è alla portata delle tasche di tutti: come l’orientamento sessuale, infatti, anche l’aspetto economico non deve costituire un ostacolo o una fonte di discriminazione per chi si avvicina a questa cucina. L’inclusività è allora forse il suo unico, vero, ingrediente fondamentale.
In questo senso siamo di fronte a un fenomeno culturale ampio, fatto di luoghi aperti a tutti, davanti e dietro al bancone, di ricette e abbinamenti insoliti, di inventiva libera e gioiosa, capace di stupire e confortare, di riconoscere e condividere (abbiamo visto qualcosa di simile nel progetto di cucinamancina).
Tutti valori e potenzialità che, indipendemente dalle inclinazioni sessuali di ciascuno, non si fatica ad attribuire al cibo in generale, anche se poi si preferiscono piatti già noti o più tradizionali. E anche in questo non c’è niente di male.