Burro, olio e strutto: sono i tre grassi protagonisti della cucina italiana. Il loro impiego è fondamentale nella realizzazione di molte specialità tipiche del nostro Paese. Basti pensare ai risotti, in cui il burro è spesso elemento fondamentale nella fase di mantecazione; alla pizza, dove invece l’olio è irrinunciabile, sia nell’impasto, sia nell’aggiunta finale, a crudo; o ancora allo gnocco fritto, che vede invece nello strutto il suo segreto. Ogni preparazione predilige un tipo di grasso. E nonostante oggi tante ricette tipiche vengano spesso rivisitate e modificate in funzione delle nuove esigenze nutrizionali, vedremo come l’uso dei grassi in cucina sia spesso influenzato dalla cultura gastronomica di un territorio e dalla sua storia. In quest’articolo, andiamo proprio a scoprire il legame tra questi tre ingredienti e la tradizione culinaria locale da Nord a Sud.
La “mappa italiana dei grassi” e il suo legame con le tradizioni gastronomiche regionali
Da sempre, l’uso dei grassi in cucina è fondamentale sotto vari aspetti: dall’agevolare le cotture al conferire omogeneità alle salse, fino al fattore gustativo. La loro aggiunta sa infondere, infatti, quella spinta di sapore, in grado di fare la differenza e appagare il palato. Il sentore di burro, ad esempio, infonde alla pasta frolla una friabilità e un aroma inconfondibili, allo stesso modo in cui lo strutto dà quel tocco magico alla piadina romagnola, e la focaccia genovese non avrebbe ragione d’essere se non fosse intrisa dell’ottimo olio d’oliva ligure.
La tradizione dei grassi in cucina è radicata nella storia del nostro Paese ed è, al contempo, un elemento utile per tracciare una sorta di “mappa” della varietà di usi e costumi che lo caratterizza. Ciascun territorio, infatti, ha sviluppato un legame con un particolare tipo di grasso. Vi siete mai chiesti come mai, ad esempio, l’olio è immancabilmente presente nella maggior parte delle specialità della cucina meridionale, dalla Sicilia alla Campania, passando per la Basilicata e la Puglia, con il Salento che è patria di intere distese di ulivi? Allo stesso modo, nelle regioni del Nord Italia, eccezion fatta per la Liguria, è il burro a essere usato a tutto campo, dalla mantecazione di risotti e paste, sino alla preparazione di sughi, salse e, ovviamente, dolci. In alcune regioni del centro Italia, invece, come le Marche e l’Emilia Romagna soprattutto, ci sono ricette in cui lo strutto è da sempre un elemento irrinunciabile, difeso a spada tratta dalle demonizzazioni subite nel corso degli anni per il suo apporto calorico.
Andiamo quindi a conoscere più da vicino la storia di questi tre grassi fondamentali della tradizione italiana e a scoprire come il loro uso in cucina si sia radicato nelle varie regioni, fino a diventarne in molti casi espressione di storia e usanze popolari.
Burro: il dono che viene dal latte simbolo della cucina del Nord
Ottenuto dalla parte grassa del latte, attraverso un processo di scrematura, non sorprende che l’uso del burro in cucina sia diffuso soprattutto nelle regioni del Nord Italia. In particolare, lo è in Lombardia e in Veneto, ma anche nelle aree montane, come il Trentino Alto Adige, il Friuli Venezia Giulia e la Valle d’Aosta: territori che hanno in comune una forte vocazione all’allevamento di animali per la produzione lattiero-casearia.
Il burro è infatti uno dei più antichi derivati del latte. Le prime tracce storiche risalgono all’epoca ante-Cristo e ha accomunato diverse civiltà, dagli egizi ai greci, arrivando sino ai romani. Il suo uso è andato oltre l’ambito alimentare: per alcuni popoli era, infatti, un prodotto di cosmesi particolarmente indicato per la cura della pelle e persino un unguento curativo, che trovava applicazione in ambito medico. La sua diffusione in cucina, tuttavia, in Italia è collocabile alla fine del Medioevo, quando le cosiddette “lettere d’indulgenza” aprirono le porte all’uso di questo grasso animale, prima proibito dalla dottrina cristiana durante l’intero periodo della Quaresima. Per lungo tempo, il burro è stato inoltre il “grasso dei ricchi”: un primo motivo è dovuto alla delicatezza di gusto, che lo ha reso ideale nella preparazione di ricette gradite ai palati fini della società alto-borghese; la motivazione principale, tuttavia, è che se ne produceva in quantità ridotte, quindi era difficile da reperibire e da conservare nonché molto costoso. Ecco perché si è radicato molto tra le famiglie benestanti del Nord Italia, mentre quelle contadine sono rimaste legate più allo strutto e all’olio. La svolta è arrivata nel 1872, con l’invenzione del separatore meccanico ad opera del tedesco Wilhelm Le Feldt, ripresa e perfezionata qualche anno più tardi dallo svedese Gustavo Laval. Da qui in poi è iniziata la produzione del burro a livello industriale, che ha contribuito ad aumentarne la disponibilità e, di conseguenza, il consumo.
Il burro nei piatti tipici della cucina settentrionale
Ecco allora come il burro è diventato base di molti piatti, a partire dai risotti: è il suo potere amalgamante a renderlo ideale per la fase di mantecazione. Sciogliendosi, tende infatti a liquefarsi ma, grazie ai grassi che lo costituiscono, si comporta da legante con gli altri ingredienti. Allo stesso modo, viene usato per completare la cottura di primi piatti, come i tagliolini al tartufo o i celebri pizzoccheri alla valtellinese. Ma il burro è anche elemento caratterizzante di uno dei condimenti più usati per le paste ripiene: oltre a essere proposti al sugo di pomodoro, al ragù o in brodo, i vari tortelli, ravioli e casoncelli sono serviti nella classica versione “burro e salvia”. Non solo primi piatti: il burro, nella cucina del Nord, è spesso usato anche per la preparazione di intingoli con cui insaporire secondi piatti di carne o in specialità tipiche quali la polenta taragna. Inoltre, è protagonista della pasticceria: si tratta, infatti, dell’ingrediente irrinunciabile sia nella pasta frolla che nella pasta sfoglia ed è anche l’elemento base per la preparazione di altri dolci, come le cheesecake.
Strutto: il “grasso dei poveri” e la cultura del maiale
Lo strutto è un grasso direttamente ottenuto dal tessuto adiposo del maiale. In particolare, dall’area dorsale, dov’è presente una parte più fibrosa, utilizzata anche per la produzione di lardo, pancetta e guanciale, e da quella surrenale, nota come sugna e tipicamente viscosa. Si estrae dalla lavorazione a caldo di questi tessuti adiposi e si presenta come una massa bianca disomogenea, pressoché inodore.
Già usato in cucina da popolazioni antiche come gli Etruschi e largamente impiegato per tutta l’epoca medievale, soprattutto perché facile da reperire, lo strutto è legato a quelle zone in cui è forte la cultura dell’allevamento suino. Regioni come l’Emilia Romagna (non a caso patria anche di rinomati salumi), le Marche, la Basilicata, le aree interne della Campania e della Calabria, ma anche della Sicilia) hanno un patrimonio di ricette tradizionali in cui lo strutto è protagonista. Del resto, nei periodi più poveri della storia del nostro Paese, come il dopoguerra del secolo scorso, si trattava dell’unico grasso che certe famiglie contadine potevano permettersi. Il suo impiego è legato anche alla conservazione di salumi e insaccati, perché costituiva un ottimo modo per evitare l’ossidazione delle carni. Un esempio? Il salame pezzente, prodotto tipico della Basilicata e, più in generale, dell’area meridionale che comprende anche il Cilento e parte della Calabria e della Puglia.
In Sicilia, invece, pare che la diffusione dello strutto risalga all’epoca della dominazione spagnola. Già introdotto in regione ai tempi delle invasioni barbariche, le cui popolazioni erano esperte nell’uso dei grassi animali, è in questo periodo che si iniziò a produrne in massicce quantità. In gran parte era destinato all’esportazione verso gli altri Paesi sotto il dominio ispanico, il resto trovò invece uso nelle preparazioni locali, col nome dialettale di saime, direttamente mutuato dall’antico termine spagnolo saim. Nel tempo, lo strutto è stato via via abbandonato e sostituito in tante preparazioni, soprattutto dall’olio, per via della sua ricchezza di grassi saturi. Le moderne tecniche di allevamento e di alimentazione dei suini hanno tuttavia contribuito a renderlo meno impattante da questo punto di vista e a rivalutarne l’uso in cucina.
Lo strutto nelle cucine dell’Italia centro-meridionale
Nonostante la demonizzazione subita negli anni, lo strutto è rimasto elemento cardine di alcune specialità tipiche della tradizione enogastronomica italiana. In particolare, nella cucina dell’Emilia Romagna, dove ha avuto un impatto fortissimo. È infatti un ingrediente irrinunciabile della coppia ferrarese, pane dalla caratteristica forma con un corpo centrale da cui si allungano due braccia per lato, a mo’ di corna: un prodotto caratterizzato da croccantezza esterna e friabilità, con una mollica interna morbida, che ha ottenuto nel 2001 il riconoscimento IGP. Restando in Emilia, lo ritroviamo nella preparazione delle note crescentine modenesi (conosciute anche come tigelle) o dell’erbazzone reggiano, una torta salata farcita con un ripieno a base di bietole o spinaci, cipolla, aglio, pangrattato e abbondante Parmigiano Reggiano. Qui, lo strutto è impiegato sia per realizzare l’impasto della sfoglia, sia in superficie, insieme a pezzetti di lardo, a conferire un’ulteriore spinta di sapidità. Spostandoci verso la Romagna e le Marche, eccolo invece protagonista sia nella piadina romagnola, sia nella crescia sfogliata marchigiana, dove, oltre a conferire una spinta di sapore che fa la differenza, è fondamentale per rendere l’impasto più morbido e fragrante. In Campania, invece, è tradizionalmente usato per la preparazione di specialità come il casatiello napoletano e i taralli sugna e pepe, ciambelline dall’impasto intrecciato, punteggiato dai grani di pepe e sulla cui superficie emergono le mandorle. Ancora più a sud, in Sicilia, è elemento essenziale nel conferire aroma e friabilità alla cialda del cannolo siciliano. Avendo un punto di fumo generalmente alto, lo strutto si presta bene alle fritture e lo si ritrova dunque quale ingrediente base dello gnocco fritto, del pani ca’ meusa, tipico street food palermitano e delle frappe o chiacchiere, tipiche frittelle dolci consumate nel periodo carnevalesco.
Olio, l’oro del Mediterraneo
Fluido, dal colore e dall’aspetto variabile a seconda del frutto o del seme da cui viene estratto, è il grasso vegetale per eccellenza: stiamo parlando dell’olio. E quando si parla di olio, nel bacino Mediterraneo e in Italia in particolare, viene subito da pensare a quello di oliva. Non a caso, è sinonimo di mediterraneità: elemento essenziale della Dieta Mediterranea, dichiarata nel 2010 patrimonio Unesco, di cui l’Italia è alfiere.
Quella dell’olio di oliva è una storia millenaria, le cui prime tracce portano nell’area compresa tra Palestina, Israele e Creta, culla di antiche civiltà che per prime si sono cimentate nella coltura degli ulivi. Una tradizione che ha trovato seguito negli usi e costumi dell’antica Grecia prima e dell’Impero Romano poi. Ma è soprattutto a partire dal 1500 che l’olio si diffonde nel nostro Paese e trova spazio nella cultura gastronomica. Lo sviluppo del commercio ne aumenta la disponibilità e contribuisce a farne scendere il prezzo. In questo modo, inizia a sostituire lo strutto in molti piatti della tradizione, specie nelle fritture di pesce, molto gettonate per rispettare la rinuncia alla carne prescritta dalla religione cattolica nei venerdì e, in particolare, durante il periodo della Quaresima, e, più in generale, ai grassi animali.
Nello stesso periodo, la coltura dell’olivo si espande, grazie alla spinta di molti proprietari terrieri, in prima battuta nel meridione, ma successivamente anche in Liguria, sulle sponde del lago di Garda e infine nell’entroterra del Centro Italia, sulla scia dell’esempio di Cosimo de’ Medici, signore di Firenze, che aveva promosso la conversione delle terre incolte in uliveti.
Nel XIX secolo si assiste alla consacrazione definitiva: i processi industriali permettono di incrementare i volumi di produzione e di rendere l’olio d’oliva un bene popolare. Ecco spiegato come, oggi, l’Italia possa vantare un patrimonio di ben 43 varietà d’extravergine di oliva a denominazione protetta. Di questi, 42 DOP distribuite su tutto il territorio nazionale, tra le quali spiccano le 6 della sola Sicilia, le 5 di Campania e Puglia e le 4 di Lazio e Toscana, con quest’ultima che può contare anche sull’unica Identificazione Geografica Protetta, ovvero l’Olio Toscano IGP, che coinvolge tutte le dieci province della regione.
L’olio nella tradizione gastronomica mediterranea
Come detto, l’olio extravergine di oliva (spesso indicato con l’acronimo di olio “EVO”) è di casa pressoché ovunque in Italia, al punto che ben 18 regioni su 20 possono vantare almeno un prodotto DOP. Il suo uso in cucina, tuttavia, è radicato soprattutto nelle regioni del sud (Sicilia e Puglia su tutte) e nelle zone collinari, come la Toscana, la Liguria e l’Umbria, dove ci sono le condizioni ambientali e climatiche ideali alla crescita degli ulivi.
Venendo al suo uso in cucina, nel Nord Italia l’olio è protagonista soprattutto a crudo, come condimento per insalate, carpacci e bolliti. In Trentino Alto Adige, ad esempio, si usa aggiungerlo a filo alla carne salada, un salume ottenuto dai tagli magri di manzo, allo stesso modo in cui può accompagnare la trota salmonata, di cui il Friuli Venezia Giulia vanta allevamenti che ne garantiscono un alto livello di qualità. L’alto punto di fumo lo rende ideale anche in frittura, come nel fritto misto alla piemontese, un piatto unico della tradizione popolare, in cui tutti gli scarti della macellazione degli animali allevati venivano consumati in famiglia. Sempre in Piemonte, l’olio è elemento essenziale di una specialità simbolo come la bagna caoda, una saporita salsa a base di acciughe e aglio, servita calda, dove intingere le verdure di stagione. Se parliamo del Nord Italia però, è soprattutto in Liguria che gli ulivi sono di casa e caratterizzano le colline che fanno da cornice alla costa: qui crescono diverse pregiate varietà di olive, tra cui l’oliva taggiasca, che prende il nome dal comune di Taggia, nella provincia di Imperia. Varia e articolata è, di conseguenza, anche la produzione di oli extravergine, che trovano largo impiego in tante specialità, a partire da quelle che sono simbolo della Liguria anche oltre i confini nazionali: il pesto e la focaccia genovese.
Scivolando a sud lungo il litorale tirrenico, incontriamo un’altra terra di grandi oli, la Toscana. Qui un buon extravergine è la base sia per piatti tipicamente contadini, quali la panzanella o la pappa al pomodoro, sia per specialità di mare come il cacciucco alla livornese.
Passando al Centro Italia, l’olio è largamente usato per friggere, come nelle olive ascolane, una stuzzicheria tipica marchigiana nota e apprezzata ormai ovunque. Allo stesso modo è elemento fondamentale negli sfiziosi carciofi alla giudia, che si presentano aperti a mo’ di fiori e dalle foglie esterne particolarmente croccanti, tipo chips, oppure nei carciofi alla romana. In questo caso, le mammole (i tipici carciofi romaneschi dalla forma bombata e privi di spine) sono però cotte in tegame e aromatizzate con un intingolo di olio, aglio, sale, pepe e menta. A crudo lo ritroviamo, invece, nel pinzimonio, un’emulsione di olio, sale, pepe e facoltativamente aceto, che accompagna un crudo di verdure, che a Roma è tradizionalmente consumato durante il pranzo di Natale. L’olio è anche uno dei pochi irrinunciabili ingredienti di un primo piatto simbolo del Lazio, ovvero i bucatini all’amatriciana.
È sulle tavole del Sud, tuttavia, che quest’ingrediente regna sovrano. È presente praticamente in tutte le zuppe e i piatti dalle origini più povere. A partire dalla ciambotta, uno stufato di verdure, la cui base è costituita da peperoni, patate, cipolle, pomodori e zucchine, diffuso dalla Campania alla Basilicata e alla Puglia, fino anche all’Abruzzo e al Molise, con qualche variante a seconda del territorio. Allo stesso modo, l’olio è la base della tipica caponata siciliana: una dadolata di melanzane, pomodori, cipolle e basilico, con l’aggiunta di altri ingredienti caratteristici dell’interpretazione locale, condita in salsa agrodolce e servita generalmente come contorno. Proprio la Sicilia vanta una rosa di specialità dove l’olio è elemento protagonista. Dai primi piatti tipici, quali la pasta con le sarde e la norma, all’aggiunta a crudo ai cous cous di pesce o di verdure, senza dimenticarne il ruolo centrale nei fritti, come i famosi arancini di riso (specialità inclusa nel registro PAT del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali). Restando sempre in terra sicula, possiamo citare l’olio come elemento fondamentale nelle conserve, che permettono di consumare un alimento facilmente deperibile, come il pesce, anche a distanza di anni. In una regione legata alla tradizione delle tonnare, con particolare riferimento all’isola di Favignana, il tonno in olio d’oliva è infatti un prodotto di pregio, ma sono note e apprezzate anche le conserve di sgombro, acciughe e sardine.
Anche in Campania questo grasso vegetale è usato a tutto campo sia nelle fritture – il cuoppo napoletano ne è un esempio – sia nelle cotture al forno, come lo gnocco alla sorrentina. A crudo, può essere usato a condimento della famosa insalata caprese, dove va ad armonizzare il fresco connubio tra pomodoro, mozzarella e basilico. Altro piatto simbolo della cucina partenopea è salsiccia e friarielli, da saltare in padella con un intingolo di aglio, olio e peperoncino per una specialità tanto semplice quanto ricca di gusto.
Passando, invece, alla Basilicata, come non citare il peperone crusco? Vero orgoglio lucano, si ottiene dal peperone dolce essiccato, di cui il Peperone di Senise IGP rappresenta l’eccellenza assoluta, reso croccante e sapido grazie alla rosolatura a fuoco vivace in olio e sale.
Concludiamo con la Puglia, dove, in tema di specialità da forno, l’olio gioca un ruolo chiave nel donare fragranza alla tipica focaccia barese, così come ai taralli. Per non parlare, infine, di come sa esaltare il gusto di piatti dalle origini povere ma ormai apprezzati come eccellenze simbolo della regione, quali il purè di fave e cicoria e le orecchiette alle cime di rapa.
Burro, strutto e olio: tre protagonisti irrinunciabili della tradizione italiana in cucina e, come abbiamo visto, ciascuno espressione, a modo suo, della varietà di usi e costumi che caratterizzano le nostre regioni.
E voi quale di questi grassi usate di più a casa, nelle vostre preparazioni? Quanto siete influenzati, in questo senso, dalle vostre origini?