Recentemente abbiamo parlato di povertà alimentare in Italia e si è acceso un ampio e interessante dibattito. Lo riprendo commentando un recente articolo apparso su Il Post che riporta i risultati di una ricerca nella quale si afferma che “le famiglie più povere mangiano peggio, e preferiscono cibi meno salutari ma non a causa di prezzi e disponibilità economiche ma per mancanza di istruzione o per abitudine.”
Le famiglie povere mangiano peggio: reddito o cultura?
Si tratta di uno studio americano che contesta diverse teorie, tra cui quelle dei “deserti alimentari”, vale a dire zone dove le famiglie abitano a più di un chilometro e mezzo dalla possibilità di acquistare cibi freschi per mancanza di strutture di vendita. In queste aree vivono le famiglie più povere, ma l’abitudine all’acquisto di prodotti spazzatura sarebbe dovuta solo alla loro scarsa educazione alimentare non alla difficoltà di reperire un bravo fruttivendolo in zona: infatti la spesa la fanno in macchina e potrebbero allungare di un po’, girare l’angolo e andare in un grande mercato. Quando queste famiglie hanno più disponibilità di reddito (per esempio dopo un inverno meno freddo, quindi con bollette meno care) spendono di più per i generi alimentari ma aumentando la quantità, non la qualità. Le famiglie più benestanti invece comprerebbero prodotti salutari soprattutto grazie alla loro maggiore educazione alimentare, non solo perché hanno un borsellino più gonfio.
Lo studio insomma conferma che le famiglie più povere mangiano peggio, anche se non sempre o non solo per problemi di reddito ma anche per limiti culturali.
Non c’è scampo: essere poveri o fa morire di fame o fa ingrassare. Meglio non essere poveri, amici. Datevi da fare.
Povertà alimentari e cultura alimentare
Ma quante sono le povertà alimentari? Ve ne propongo tre: povertà grave, povertà relativa, povertà culturale.
La “povertà alimentare grave” è, appunto, tanto grave da rendere impossibile l’acquisto delle calorie sufficienti. Questa povertà è purtroppo diffusa nei paesi più poveri del mondo, si chiama “fame”, ma anche in Europa non è sconosciuta. La “povertà alimentare relativa” invece non comporta la fame, ma non consente l’acquisto dei prodotti migliori, più salutari, più freschi. Essa è molto diffusa anche in Europa e in Italia e ha conseguenze pesanti: maggiore domanda per produzioni di scarsa qualità e non attente all’ambiente, danni per la salute individuale.
Infine la “povertà culturale”. Chi è “povero” culturalmente, non ha, nel nostro caso, una sufficiente educazione alimentare, compra prodotti spazzatura non perché non se li può permettere ma perché non ha conoscenze o sensibilità adeguate. Attenti: è un concetto da maneggiare con le pinze. Un passettino logico e si può finire per dire: “se compri prodotti spazzatura è colpa tua. Informati!”.
Peccato che chi è povero culturalmente molto spesso lo è anche economicamente. Anche qui, quindi, le generalizzazioni devono cedere alla fatica della precisione. Ci sono povertà culturali che dipendono dalla povertà economica ma ci sono ricchi, nuovi ricchi, ricchi cialtroni, ricchi offensivi che invece sono ignoranti, credono solo nella loro ignoranza e fanno dell’ignoranza la loro religione (magari l’ignoranza li ha resi ricchi).
Ci vorrebbe una cultura alimentare dolce, gentile, attraente, invitante; bisognerebbe diffonderla a tutti, sia ai ricchi sia ai poveri, tanto per prenderci. Bisognerebbe che la cultura tornasse a essere una ricchezza in sé. È un contributo che Il Giornale del Cibo non mancherà di dare.
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