Siamo abituati a identificarci, ma soprattutto a essere identificati con un piatto per eccellenza: la pasta. Eppure, questa associazione è più recente di quel che si crede, visto che, come vedremo, è solo nel corso del Seicento che la pasta entra a far parte pienamente della nostra alimentazione. Grazie al contributo di alcuni grandi autori come Emilio Sereni e le sue Note di storia dell’alimentazione nel Mezzogiorno, storici come Massimo Montanari, antropologi come Franco La Cecla o Marino Niola e ricercatori come quelli di Casa Artusi, possiamo ripercorrere oggi insieme quelle che sono state le tappe fondamentali della storia della pasta e del processo che l’ha portata ad essere prima un simbolo nazionale, e poi un primo piatto (e non più un contorno). Ricordiamoci, infatti, che i piatti nella struttura dei pasti non sono cellule vaganti assemblate in modo casuale, ma unità di significato con funzioni diverse e ruoli ben precisi, che nel tempo cambiano e negli spazi si trasformano. Pronti?
Storia della pasta: un piatto che sa di Italia
La pasta, dunque, è il frutto, prima ancora che di un impasto o di una cottura, di un processo simbolico avvenuto nella mente degli italiani che avevano bisogno di sentirsi tali. L’italianità, infatti, non è sempre esistita, anzi. Si è costruita nel tempo e, come tutte le appartenenze, ha avuto anch’essa bisogno dei suoi simboli. E la pasta è uno dei più forti.
Due sono principalmente le culture gastronomiche che l’hanno generata nei secoli, in modo quasi parallelo e indipendente, con ingredienti e tecnica differente: quella cinese dei vari contesti asiatici d’Oriente e quella mediterranea, che prenderemo in considerazione noi oggi. Iniziamo?
La pasta dall’età greco-romana al Medioevo
Citata da autori classici come Cicerone, Orazio, Aristofane e Apicio, in quest’epoca si parla di lagana: un impasto di acqua e farina poi tagliato a falde larghe (più o meno lo stesso formato che ancora oggi si trova con questo nome nel Sud Italia), cotto in forno oppure in acqua, brodo, o latte e condito per lo più con formaggio. Ma, pur essendo presente una sorta di pasta, non aveva affatto un ruolo preciso o decisivo nell’alimentazione, se non quello di contorno, cioè di mero accompagnamento ad altre pietanze più comuni, quali carne, pesce, uova, verdure.
Nel Medioevo, la pasta inizia a diffondersi maggiormente come categoria a sé, con i suoi formati peculiari e le sue prime botteghe di produzione. Numerosi testi ne attestano la presenza, come i maccaroni siciliani e i vermicelli citati nel Libro de arte coquinaria di Maestro Martino, ma dobbiamo aspettare il 1500 per avere la prima menzione della parola “pasta” in un testo del vicerè Don Giovanni d’Aragona, che per altro ne vieta la produzione per guerra e carestia. Curioso è il riferimento alla pasta anche come makària o maccheri, spesso in abbinamento ai dolci, soprattutto nel partenopeo (a tal proposito da notare è il collegamento con i macarons).
Gli arabi e la diffusione della pasta in Italia
Dobbiamo agli arabi, invece, l’invenzione della pasta secca, che a loro consentiva la conservazione durante gli spostamenti nel deserto. E non a caso è stata la Sicilia (dove ancora oggi è in corso un importantissimo lavoro agricolo sui grani antichi) la prima regione italiana da cui è partita la diffusione della pasta, insieme alla Sardegna e alla città di Genova, tra i centri più antichi di produzione e di esportazione.
È importante sottolineare che, fino a questo momento, la pasta viene sempre associata e abbinata a formaggio e spezie, a dimostrazione che è proprio figlia di questa mediterraneità diffusa, che in tempi islamofobici come quelli che stiamo vivendo, dovrebbe farci riflettere su quanto in fondo siamo stati (e siamo) tutti così vicini, proprio a partire dalle nostre origini a tavola.
Se questi sono i luoghi da cui tutto ha inizio, per una svolta storica decisiva dovremo volgere lo sguardo alla città partenopea che, seppur quasi un secolo dopo, ha segnato il fondamentale passaggio dalla produzione manuale a quella meccanica, in parte anche per la crescente rivalità tra maccheroni e foglie.
Da “mangiafoglie” a “mangiamaccheroni”
Fino a questo momento i napoletani, anche se in generale un po’ tutti gli italiani, erano noti come “mangiafoglie”, mentre i siciliani venivano chiamati da loro (come insulto) “mangiamaccheroni”. Questa caratteristica gastroetnografica è attestata in numerosissime fonti, come ad esempio la più celebre, ovvero il testo di Emilio Sereni, “I napoletani da mangiafoglia a mangiamaccheroni”, di cui consiglio vivamente la lettura. Qui si può comprendere come l’alimentazione italiana più comune fosse proprio quella a base di carne e foglia, dove per “foglia” si intendeva la verdura in generale sì, ma soprattutto il cavolo in tutte le sue specie e sottospecie che non mancava mai.
Infatti, un tempo c’erano varietà di cavolo differenti a seconda della stagione: sarà per questo che ancora oggi si continua a fare confusione, nelle varie regioni, su come chiamare broccoli, cavoli, cavolfiori, friarielli, sparaceddi, etc.?
Tornando alla pasta, le cose iniziano a cambiare davvero nel Seicento grazie all’utilizzo del torchio, che permette la fabbricazione meccanica della pasta (fino a quel momento prodotta esclusivamente a mano) in quantità maggiore e a prezzi più bassi. Così, nella Napoli sovraffollata di Masaniello (la popolazione aveva raggiunto i 450.000 abitanti), la pasta diventa quell’alimento a basso costo, facilmente conservabile, ma soprattutto in grado di saziare, mentre diminuisce il consumo di foglie, derrate povere e acquose, insieme a quello di altri alimenti, come la carne, il cui prezzo aumenta vertiginosamente a causa della più complessa reperibilità – anche per il crescente fenomeno dell’urbanizzazione che portò ad abbandonare sempre di più i lavori agricoli, e quindi la produzione di foglie, in vista del più redditizio impiego nelle industrie.
Per far fronte anche al consistente aumento demografico, la pasta si diffonde in modo capillare, tanto che nel 1787 lo scrittore tedesco Johann Wolfgang von Goethe rimase sbalordito dall’onnipresenza di maccheroni a Napoli, per altro a prezzi estremamente popolari. Condita solo con un po’ di formaggio e qualche spezia, la pasta si afferma come simbolo paradigmatico di una città.
La pasta al pomodoro e i pastifici di Gragnano
Fino a questo momento la pasta veniva condita solo con il formaggio, raramente con qualche carne o al massimo con delle spezie. L’accoppiamento con il pomodoro ha origine, secondo un documento del 1839, da una ricetta di vermicelli con le pummadora, descritta nell’appendice alla Cucina casereccia in dialetto napoletano della seconda edizione della celebre Cucina teorico-pratica di Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino.
Alla costruzione di questa identificazione hanno dato un contributo decisivo i vari pastifici artigianali di Gragnano e Torre Annunziata, luoghi dediti alla lavorazione del grano, con i loro infiniti mulini costruiti sui corsi d’acqua dei monti Lattari, sin dal tempo dei Romani. Fu Federico II che nel Duecento portò qui dalla Sicilia quest’arte, a dimostrazione del primato siculo in materia. Anche se oggi le strade non sono più inondate di vermicelli stesi ad asciugare e non ci sono più venti mulini e settanta fabbriche di maccheroni come al momento dell’Unità d’Italia, Gragnano continua ad essere un riferimento per la produzione della pasta.
Pellegrino Artusi e la pasta come primo piatto
Bisognerà aspettare l’unificazione e l’Ottocento perchè la pasta diventi lo stereotipo per eccellenza dell’italianità, anche fuori dalla città di Napoli. A tal proposito dobbiamo volgere un inchino devoto a Pellegrino Artusi, padre della cucina italiana, perché non si è limitato a raccogliere ricette in giro per l’Italia e riunirle nella più grande opera della cucina italiana (La Scienza in Cucina e l’arte di mangiar bene), ma anche a creare la tradizione. E l’ha fatto proprio dando alla pasta un ruolo autonomo, cioè rendendola un paradigma non più solo di una città, Napoli, ma il simbolo di un’intera nazione. È stato lui, infatti, a introdurre la pasta come primo piatto nel menù italiano, emancipandola dalla funzione di mero contorno che aveva avuto fino a quel momento e che, curiosamente, ha ancora oggi in alcuni paesi in Europa e nel mondo.
La pasta migrante: dall’Italia al mondo
Eppure, per quanto la pasta abbia contribuito in modo unico a creare e costruire nel tempo l’italianità, tutto questo non sarebbe stato possibile senza quei milioni di emigranti che hanno contribuito in modo decisivo a diffondere e rafforzare lo stereotipo di “mangiamaccheroni”.
Come ha scritto Franco La Cecla, una volta “fatti gli italiani”, la pasta è uscita dai confini nazionali e ha creato, di fatto, una nuova immagine, altrettanto forte, dell’italianità, quella vista dall’estero e dall’esterno. Così la pasta da cibo etnico di un gruppo di immigrati italiani nel mondo si è diffusa davvero ovunque, con declinazioni differenti a seconda dei vari paesi; tanto che possiamo concludere che la pasta oggi non è più solo “nostra”, ma è presente anche in moltissime altre varianti. Dunque, c’è forse qualcosa che più della pasta ci dimostra l’estrema permeabilità delle culture, alimentari incluse?
E oggi? La pasta “pop”
Infine, che dire di noi oggi? Un giorno saremo mai disposti a stravolgere nuovamente la nostra carta, ad esempio iniziando dal secondo e terminando con un primo come la pasta? I fatti sembrano negare questa possibilità, eccezion fatta per qualche chef stellato come Massimo Bottura che ha sconvolto l’ordine iniziando un suo menu con la granita di mandorle siciliana e i macarons di acciughe o altri che giocano con l’elemento ludico (a proposito avete mai mangiato il tonno vitellato? O un piatto chiamato 99 perché composto da 99 ingredienti?).
Senza tergiversare su altri argomenti, il percorso tracciato da Artusi resta comunque indelebile; e se la storia è un alternarsi di evoluzioni e involuzioni, nessuno ha mai osato modificare il percorso segnato, in modo incisivo o permanente, dal padre della cucina italiana, tolto qualche tentativo sporadico qua e là.
Tutti i ristoratori, infatti, hanno traghettato questo sistema nel tempo, con menu perennemente divisi tra antipasti, primi, secondi e dolci, collocando sempre la pasta tra i primi. Sarà anche perché la creazione artusiana della pasta come categoria a sé ha dato un contributo talmente unico e decisivo alla costruzione di un’unità nazionale, che alterarla rappresenterebbe un tradimento, prima ancora che verso il menu, verso noi stessi. Perché in fondo gli stereotipi, per quanto siano visioni della realtà semplificate, riduttive e da decostruire, finiscono per rappresentare qualcosa di pervasivo e, di fatto, condiviso. Così la pasta oggi è il cibo “pop” per eccellenza, inteso appunto come popolare, e per tutti: dalla povera e sovraffollata Napoli del Seicento all’attualità, con ogni classe sociale inclusa. Non solo ha marcato e segnato così irrimediabilmente un popolo, ma l’ha fatto in modo fluido, aperto, al plurale, liquido direbbe Bauman, con tutte le sue infinite varietà di formati e condimenti, tanto che i francesi hanno colto la naturale pluralità e molteplicità della pasta chiamandola les pâtes.
Mi si perdonerà se dovessi aver compiuto qualche imprecisione, ma le fonti storiche sono varie e a tratti contraddittorie. Inoltre, la disputa sull’invenzione della pasta è antica e dipende anche molto da che cosa si intende per pasta. Forse, non ci resta che andarci a preparare un bel piatto di pasta, ricco anche di curiosità!