Roma è Roma, prendere o lasciare, anche a tavola, e se ha avuto successo nel corso degli anni quel noto locale dove il cliente viene preso a parolacce nel momento in cui scavalca l’uscio e si siede con “le cianche sotto ar tavolino”, un motivo ci sarà pure. Roma è la storia, i suoi piatti reincarnano quel passato sfuggente ma quanto mai ritrovabile a tavola. Per cui, se s’invita qualcuno a cena, è il caso di avvisarlo, “stamo a Roma”. Dimenticate l’aplomb, la raffinatezza, l’eleganza, e concentratevi sulla veracità romana, cui verrà aggiunta in un amen la voracità subito dopo aver assaggiato il primo boccone. Quindi piatti “forti”, soprattutto per chi ha lo stomaco forte, anche perché se la prelibatezza portata a tavola piace, poi il desiderio di aumentare la dose nel piatto cresce a dismisura. Ecco cosa dovete sapere sulla coda alla vaccinara se siete stati invitati a cena da un romano.
Coda alla vaccinara: 5 cose da sapere se siete a cena da un romano
Piatto povero diventato ricco
Qui si parla di un piatto povero, poi diventato ricco, che oggi si fa la fila nei “ristorantini in” così come nelle vecchie trattorie, fermo restando che inevitabilmente un piatto del genere non è adatto a chi ha studiato la nouvelle cousine, perché per prepararlo serve conoscere la storia, ma non quella dell’antica Roma né quella raccontata nei film neorealistici di metà Novecento. Serve conoscere la storia degli alimenti. Per cui – e qui arriviamo finalmente al punto – spazio alla coda alla vaccinara, roba da leccarsi i baffi e da pulirsi la bocca con la manica della camicia.
Volgare? Macché, Roma permette anche questo, specie a tavola, basti pensare a quel che accadeva proprio ai tempi dei sette re di Roma: i commensali mangiavano in maniera “sprocedata”, dunque pranzo pantagruelico, poi si mettevano due dita in gola, davano di stomaco e si rimettevano a mangiare, perché il cibo veniva considerato – e lo è ancora oggi – uno dei piaceri della vita.
Uvetta, cacao e quintoquarto
La sora Maria, che alle pendici dei sette colli è un po’ come la vecchietta di Voghera, dunque la romana tipo, usa il “quintoquarto”, ovvero gli scarti del vitellone macellato. Non storcete la bocca, è delizia assoluta per il palato così come la trippa, la pajata, le frattaglie e il cervelletto, tutti scarti dell’animale che i ricchi consideravano da buttare, o da “offrire” al cane di casa. Dunque qui c’è da aggiungere che viene da sorridere davanti alla borghesia capitolina: oggi fa la fila e spende trenta euro per mangiare un piatto di pasta e fagioli, altro piatto povero che gli opulenti del passato bistrattavano in maniera indegna. Era povera, anzi poverissima, la coda alla vaccinara, ed è diventata ricca, complici i tempi che passano e che arrovesciano le carte in tavola. La povertà d’un tempo, per esempio, non permetteva alla sora Maria di inzeppare la coda con uvetta e cacao, diventati “necessari” oggi per dare quel contrasto dolce a chi non è abituato al sapore del “quintoquarto”.
Costavano, uvetta e cacao, quello amaro… ve l’immaginate il piatto della cucina romana povera, quello che tutti i “macellari” del mattatoio del popolo si ritrovavano sulla propria tavola, con la ricchezza di alimenti “ricchi” su un tocco di carne certo non di prima scelta? Una matrona romana come la sora Lella però – per intenderci la nonna di Carlo Verdone nei primi film dell’attore capitolino – “addolciva” la coda alla vaccinara con i pinoli. Si raccoglievano in terra, frutto delle pigne che cadevano dagli alberi dei cortili, e dunque erano a… costo zero. Oggi la coda si compra già a pezzi, e c’è da prenotarla in macelleria; all’epoca, era lo scarto che veniva regalato per non gettarlo nella spazzatura.
Vietato non fare la scarpetta
Obbligo essenziale, una bella pagnotta di pane, che non è companatico, ma necessità assoluta. Il sugo straborda dal piatto, e perfino il più snob degli invitati a tavola si cimenterà nella scarpetta, statene certi. Anche perché, a parte il classico detto romano “chi fa la scarpetta, fa i figli belli”, il sugo diventa una sorta di “droga”, più lo assapori e più ne vuoi, inutile fingere noncuranza: è lì che aspetta per essere raccolto dal tozzo di “casareccio”. Sciapo o salato, il pane, non fa differenza. E, altro obbligo, è il peperoncino, che però deve essere dosato con il bilancino del farmacista, perché non deve “cancellare” il gusto del sedano che accompagna la coda alla vaccinara, ma deve comunque lasciare quel sapore piccante e ineguagliabile sulle labbra e sul palato.
La coda alla vaccinara deve essere stufata
Vietato, anzi vietatissimo cucinarla in brodo. La coda alla vaccinara deve essere “stufata” con il sedano, ma non bisogna dimenticare di lavare bene la carne per rimuovere il sangue e tagliarla in più pezzi. I pezzi vanno rosolati in una padella con guanciale e cipolla tritati, olio evo (che poi è l’extravergine d’oliva), uno spicchio d’aglio mondato, chiodi di garofano e un pizzico di sale e pepe. Poi la carne, una volta asciugata, si profuma con due bicchieri di vino bianco secco ed è qui che va “sfumata”, per lo meno un quarto d’ora. A seguire si versano i pomodori a pezzi, si mescola il tutto, si copre il pentolone e di tanto in tanto s’aggiunge un po’ d’acqua.
“La carne è pronta quando si stacca dall’osso”
Tre ore e anche di più. Una faticata? Macché, più semplice di quanto si possa immaginare, basti pensare che la ricetta è stata “creata” non da uno chef di origini francesi, ma dagli scortichini, ovvero i facchini del mattatoio. Che poi a Roma, il mattatoio si chiama in un’altra maniera, leggete bene: “ammazzatora”. Ah, volete sapere insomma quando è pronta la carne? La carne è pronta quando si stacca dall’osso! Ma non finisce qui, perché poi si monda il sedano e lo si lessa; e, una volta lessato, lo si versa in una padella con qualche cucchiaiata di sugo di coda. Ecco, è qui che potete aggiungere pinoli, uvetta e un paio di cucchiaini di cacao. Non state cucinando un tiramisù, ma una coda alla vaccinara, quindi state attenti a non esagerare. Ancora qualche minuto di bollitura e poi tutti a tavola, pentolone fumante e prestate i piatti alla cuoca, ve li riempirà a dovere. Consiglio finale:osservate i commensali, chi evita di assaggiare la coda alla vaccinara, o chi la mangia con forchetta e coltello, a Roma viene considerato un falso, uno spergiuro e un vigliacco. Poi, traete voi le conclusioni.
Massimiliano Morelli, classe 1963, giornalista. Ma preferisce fare il padre, specie quando si guarda attorno e trova esaltati della comunicazione, miracolati della professione, colleghi che scrivono qual è con l’apostrofo convinti però d’essere la reincarnazione di Montanelli.
Scrive di tutto, soprattutto di sport, dicono in maniera romanzata. Cuoco “alle prime armi”, ma è amante della buona tavola, un’ottima forchetta. È campione olimpico di pane, nutella e ricotta.
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