Da quando sono diventata vegetariana tanti sono gli amici, i parenti e perfino i conoscenti che hanno dimostrato un grande interesse per le mie argomentazioni sui benefici di un’alimentazione priva di carne. Non sono mai stata un’amante del proselitismo ma mi piace condividere la mia esperienza con gli altri, quando richiesta, e nel caso del vegetarianesimo ritengo che la mia testimonianza possa essere utile. Non che tutti debbano condividerla o condividerla a pieno, ma almeno avere una maggiore consapevolezza delle proprie scelte alimentari. Non posso negare la mia soddisfazione nell’aver appreso che molte delle persone a me vicine hanno deciso di limitare il consumo di carne, prestando maggiore attenzione alla qualità e alla provenienza, o, in alcuni rari casi, di diventare dei “vegetariani flessibili”.
Primi studi sulle conseguenze di un elevato consumo di carne
Farò un rapido excursus su quello che a prescindere da millenari motivi religiosi è divenuta, a partire dagli anni ’70, una coscienza collettiva, avallata da dati scientifici, economici e non più un vezzo di pochi. È il 1971 e Frances Moore Lappé pubblica “Diet for a small planet“, il primo libro ad esporre in maniera approfondita e analitica come il consumo sconsiderato di carne potesse avere un impatto così nocivo sulla nostra salute e sull’ambiente in cui viviamo. Per quell’epoca, nonostante la favorevole accoglienza, Frances Moore Lappé non venne appieno considerata, le privazioni e gli orrori del conflitto mondiale erano ricordi ancora troppo vividi e la vita frenetica del post boom economico, la rivoluzione sessuale, la guerra fredda e le innumerevoli conquiste intellettuali e scientifiche non lasciavano il tempo ai più di arrovellarsi su un concetto così scontato come il mangiare in modo consapevole.
Questa nuova visione di ciò che gravita intorno al cibo iniziò però a solleticare autorevoli economisti, medici e scienziati di tutto il mondo. Sono passati ormai più di quarant’anni da “Diet for a small planet” e ormai facciamo caso a tutto ciò che ingurgitiamo, ne conosciamo il peso, le calorie, gli ingredienti dannosi e quelli virtuosi, siamo diventati “millennials” a tutti gli effetti e il nostro grado di coscienza e di conoscenza, grazie alle tante fonti a disposizione, è o dovrebbe essere enormemente amplificato.
I numeri ci danno ragione
Possiamo ormai sostenere di essere entrati in una spirale virtuosa e i dati ci confortano in continuazione. Gli alimenti una volta ritenuti di nicchia e marginali, come hamburger vegetali e latte di mandorla, affollano ormai i reparti dei nostri supermercati, il numero di nuovi lanci di prodotti vegetariani e vegani è raddoppiato negli ultimi cinque anni e il consumo di carne in dieci anni è calato del 15% e il dato è in continua ascesa ogni qual volta le persone vengono messe a conoscenza e fanno proprio il concetto dei devastanti effetti dell’allevamento, come già affrontato precedentemente in un articolo che parlava di quanto l’alimentazione vegetariana possa essere sostenibile.
Dieta Flexitarian: può essere una via di mezzo?
I flexitariani non sono contorsionisti
Pur rimanendo coerente alla mia ormai decennale decisione di abbracciare la causa vegetariana, sono ben consapevole che non per tutti è così facile rinunciare al gusto, al retaggio e all’abitudine di un’alimentazione che comprenda carne o pesce. E così, assecondando la nostra costante necessità di dare un nome a tutto, ecco spuntare i così detti “flexitariani”. Se proprio amate con bramosia le bistecche perfettamente scottate o il pollo alla cacciatora di vostra nonna vi viene a trovare durante la notte sotto forma di estatici sogni, l’idea di mangiare hot dog di tofu e polpettine vegetali potrebbe non essere sufficiente.
E se siete preoccupati per l’ambiente e la vostra salute, ma ancora venite tentati da un hamburger di tanto in tanto? A questo punto rispetto ad estremismi che per alcuni possono essere persino controproducenti, il concetto di vegetarianismo si è ampliato in qualcosa di più flessibile, dando a tutti la possibilità di scegliere pasti salutari e sostenibili senza rinunciare del tutto alla carne. Si chiama: dieta “flexitarian”.
Di cosa si tratta?
Negli Stati Uniti, che poi sono sempre il nostro punto di riferimento 7,3 milioni di persone sono vegetariane, un ulteriore 22,8 milioni sono flexitarian, nel senso che in primo luogo seguono una dieta vegetariana, ma si fanno tentare dalla carne di tanto in tanto. Questa dieta vegetariana “a singhiozzo” può essere un aiuto a bilanciare il desiderio di cibo con la salute e la sostenibilità globale.
Non ci son regole
L’idea di base è quella di mangiare più verdura, cereali integrali, legumi, noci e semi, riducendo l’assunzione di alimenti di origine animale come carne, pollame e prodotti caseari. E vista la quantità di alimenti di altissima qualità apparsi a sostegno della più rigorosa dieta vegetariana è più facile rinunciare alla carne quando esistono piatti saporiti come frittelle di ceci e zuppe di lenticchie. Chiaramente i benefici sulla salute e sull’impatto ambientale sono meno evidenti rispetto al seguire una dieta vegetariana, ma comunque significativi.
Uno studio recente ha evidenziato che una dieta flexitarian potrebbe ridurre la mortalità globale fino al 10 per cento le emissioni di gas serra legate al cibo fino al 70 per cento. Chiaramente il mio augurio è che questa tendenza sia un’anticamera ad una scelta totalmente vegetariana ma credo che sia comunque un buon compromesso per cominciare a migliorare noi stessi e il mondo che ci circonda.