“Siamo quello che mangiamo diceva Feuerbach. Bene, oggi noi siamo quello che non mangiamo. Viviamo da malati per morire sani”.
Quando alcuni mesi fa abbiamo ascoltato le parole del professor Marino Niola all’incontro “Nutrire il Futuro”, ci siamo subito fatti qualche domanda sull’eccessiva e maniacale attenzione alla dieta e alle demonizzazioni di alcuni alimenti che da qualche anno a questa parte ha conquistato una buona fetta di consumatori.
Voglio dire, chi ci segue sa quanto il consumo consapevole e le scelta di un’alimentazione sana e sostenibile ci stiano a cuore, e sa anche quanto ci piaccia curiosare tra le nuove tendenze alimentari: dieta crudista, paleo, dukan, dieta vegana, dieta senza carne di ogni tipo e specie…
Va da sé che l’incontro con un antropologo che scrive un libro dal titolo “Homo Dieteticus. Viaggio nelle tribù alimentari” ci ha lasciati affascinati ma in preda a milioni di dubbi.
Escludere alcuni tipi di alimenti dalla nostra dieta per cause non imposte dalla nostra salute, convertirsi ad un regime alimentare con atteggiamento rigido e fondamentalista, è sempre una scelta sana o può avere delle conseguenze sulla nostra salute e sulla qualità della nostra vita? E se dietro queste ossessioni alimentari si nascondessero talvolta cause più profonde dell’attenzione alla nostra salute e a quella del pianeta?
Noi ci siamo sentiti in dovere di vederci chiaro per stabilire i confini tra un consumo attento e consapevole e un’ossessiva e insana attenzione al cibo. Soprattutto quando abbiamo scoperto che in alcuni casi questa può essere la spia di un disturbo alimentare, l’ortoressia, caratterizzato dalla fobia di cibi che riteniamo non sani o contaminati, e che può causare squilibri nutrizionali e conseguenze nella socialità, nonché nella sfera privata e sessuale di chi ne soffre. Scambiando due chiacchiere col prof. Niola – scrittore, giornalista e docente universitario – abbiamo cercato di capirci qualcosa di più.
Fonte immagine: mediterranea.bio
Professor Niola, Nel suo libro parla di ortoressia, il comportamento di chi presta un’eccessiva attenzione all’alimentazione fino a sconfinare nel “vivere da malati per morire da sani”. Dove sta il confine tra il consumatore consapevole e l’ortoressico?
Marino Niola: Il consumatore consapevole sa scegliere il cibo: sa cosa gli fa bene, cosa gli fa male e sa anche cosa gli piace, perché il cibo non è una medicina, e come tale deve anche dar piacere e favorire la convivialità. Il soggetto ortoressico invece ha perso quasi totalmente il rapporto con queste dimensioni del cibo e lo ha ridotto ad un semplice comportamento medicalizzato. Per questo motivo elimina, spesso senza ragione, un cibo dopo l’altro, pensando che gli farà male, convinto di aver individuato i “cibi nemici”. Riduce la sua alimentazione a pochissimi nutrienti, spesso con grave danno per la salute, e si isola dalle altre persone.
Quindi perde il contatto col resto delle persone vicine, delle persone care. Negli Stati Uniti l’ortoressia è una delle prime cause di divorzio. Perché chi è ortoressico non vuole mangiare il cibo degli altri, mangia da solo per paura di mangiare cibi che gli facciano male o che lo possano contaminare. È curioso, 2000 mila anni fa sant’Agostino nel trattato sui digiuni dice che il digiuno eccessivo, esasperato, quasi esibizionistico, separa il marito dalla moglie e la moglie dal marito.
Quindi possiamo dire che l’isolamento è uno dei primi sintomi dell’ortoressia?
M.N.: Assolutamente sì. Un amico che invitato a cena porta i contenitori con i suoi cibi manifesta dei chiari segni di ortoressia.
Secondo lei qual è la responsabilità dei media nella diffusione di questi comportamenti esasperati?
M.N.: I media diventano spesso agenzie d’allarme, perché ogni giorno dicono “questo cibo ti uccide e quest’ altro ti salva la vita” E in molti casi non è vero: serve semplicemente a costruire la notizia, a vendere il giornale, a far cliccare sul sito. Però poi c’è anche una nostra responsabilità: nel momento in cui recepiamo il messaggio dei media in modo acritico. È curioso il fatto che oggi noi diffidiamo spesso della scienza ufficiale e della medicina, mentre ci fidiamo di qualunque guru che in internet dà delle verità. Questo vuol dire che stiamo diventando una “democrazia della credulità digitale”.
Sentirsi parte di una “tribù” e identificarsi nei valori che accomunano i membri di un gruppo è un bisogno ancestrale dell’essere umano. Le neonate tribù alimentari possono essere considerate, in qualche modo, un surrogato della religione?
M.N.: Sì, assolutamente, sono un surrogato della religione e in parte anche della politica: tutti sistemi di aggregazione collettiva che facevano da collante, che davano identità, davano uno scopo alle persone. Oggi non a caso le “tribù alimentari” si creano intorno al cibo: pensiamo a quelle community che nascono in rete per scambiarsi il lievito madre e le ricette per fare il pane in casa. Hanno sicuramente una funzione vicaria e sostituiscono una socialità che è sempre più latitante. Sono però tribù fondate sull’esclusione, e sull’isolamento, non sull’inclusione.
Oggi assistiamo ad una curiosa scissione in campo gastronomico alimentare: da un lato abbiamo l’homo dieteticus di cui parla nel suo libro, dall’altro l’esplosione dell’amore per l’alta cucina e la sua spettacolarizzaione (soprattutto in TV), che il professore Gianfranco Marrone ha definito – nel suo recente libro – “GastroMania”. Come si spiega questo trionfo degli opposti?
M.N.: Sono il dott. Jeckyll e il Mr Hyde dell’alimentazione: la “cibomania” è esattamente l’altra faccia dell’ortoressia e di questa “religione delle diete”. Perché il cibo diventa in certi casi un’ossessione, in altri una passione ossessiva, diventa la cartina tornasole dello stato di salute della nostra società, ma anche il gancio a cui appendiamo le nostre paure. Diventa l’interfaccia di un rapporto con il mondo esterno che è dominato dall’insicurezza. È come se controllando ossessivamente tutto quello che mettiamo in corpo, avessimo l’impressione consolatoria di controllare quello che sta fuori di noi e che in realtà è incontrollabile: si tratta quindi di pratiche rassicurative che passano attraverso l’alimentazione.
Quello che nel libro chiamo “homo dieteticus” è il figlio spaventato dell’”homo economicus”. L’”homo economicus”, che è una metafora che nasce nell’800, è l’uomo del progresso, quello che ha davanti la grande economia, ha fiducia nel progresso, nell’istruzione, nella crescita economica. L’”homo economicus” sapeva che i suoi figli sarebbero stati meglio di lui e che la società sarebbe andata incontro al progresso.
L’”homo dieteticus” è esattamente il contrario. Noi adesso non sappiamo se ci conserveranno il posto di lavoro, se avremo la pensione temiamo che i nostri figli in futuro stiano peggio di noi: abbiamo davanti un futuro dominato da una grande insicurezza. Qual è la risposta? Investiamo tutto sul corpo. Il corpo diventa il bene rifugio, un capitale immunitario: non ci dobbiamo ammalare perché abbiamo solo quello. Esattamente come gli antichi servi della gleba che se non avevano corpo sano e funzionante non mangiavano.
Tra le tribù alimentari che ha analizzato, qual è la più curiosa e qual è per lei la più pericolosa in questo momento storico?
M.N.: Le più pericolose sono le più integraliste: certi integralisti spinti della dieta vegana, e anche certi carnivori spinti. L’integralismo da una parte e dall’altra è sempre pericoloso. Ci sono delle frange vegane spinte che non fanno sesso con chi non è vegano per paura della contaminazione. Sono diffuse soprattutto negli Usa, in Australia e in Nuova Zelanda, dove non a caso la gente è molto ricca. Siamo tornati alle sette dei primi secoli del Cristianesimo, che si isolavano sul piano alimentare e sessuale.
Avevate mai sentito parlare di Ortoressia? Cosa pensate della recente esplosione delle “tribù alimentari? Diteci la vostra in un commento!